Fu essa che mi decise. Suonai. Entrai in casa. Chiesi alla domestica se c’era la signora. Quasi subito, la signora Grangier comparve nella stanzetta dove ero stato introdotto. Trasalii, come se la domestica avesse dovuto capire che avevo chiesto della “signora”

per convenienza e che venivo per la “signorina”. Arrossendo, pregai la signora Grangier di scusarmi se la disturbavo a quell’ora, come se fosse stata l’una di notte; non potendo venire giovedì, portavo il libro e i giornali a sua figlia.

“Meglio così,” mi disse la signora Grangier, “perché giovedì Marta non avrebbe potuto ricevervi. Il suo fidanzato ha ottenuto un permesso quindici giorni prima di quel che credeva. E’ arrivato ieri, e Marta pranza questa sera dai futuri suoceri.”

Me ne andai dunque e poiché non avevo probabilità di rivederla, -

credevo, - mi sforzavo di non pensar più a Marta, e, perciò stesso, non facevo che pensare a lei.

Pure, un mese dopo, saltando giù una mattina dal mio vagone alla stazione della Bastiglia, la vidi che scendeva da un altro. Andava a scegliere nei negozi diverse cose, in vista del suo matrimonio. Le chiesi di accompagnarmi fino all‘“Enrico Quarto”.

“Guarda,” disse. “L’anno venturo, quando sarete in seconda, avrete mio suocero come professore di geografia.”

Seccato che mi parlasse di studio, come nessun’altra conversazione fosse stata adatta alla mia età, le risposi acerbamente che sarebbe stato abbastanza buffo.

Corrugò le sopracciglia, ed io pensai alla madre.

Eravamo vicini all‘“Enrico Quarto”, e non volendo lasciarla su parole che credevo offensive, decisi di entrare in classe un’ora più tardi, dopo la lezione di disegno. Fui felice che in tale circostanza Marta non si mostrasse assennata, non mi facesse rimproveri, e, piuttosto, sembrasse ringraziarmi d’un sacrificio, che in realtà non esisteva. Le fui riconoscente che non mi proponesse in cambio di accompagnarla nelle sue commissioni, ma che mi desse il suo tempo come io le davo il mio.

Eravamo ora nel giardino del Lussemburgo; all’orologio del Senato suonarono le nove. Rinunziavo al liceo. Avevo in tasca, per miracolo, più denaro di quello che di solito uno studente possiede in due anni, perché il giorno prima avevo venduto i miei francobolli più rari alla borsa dei francobolli, dietro i Burattini dei Campi Elisi.

Nel corso della conversazione, Marta mi aveva detto che andava a colazione dai suoceri, e mi ero deciso a convincerla a restare con me.

Suonarono le nove e mezzo. Marta ebbe un sobbalzo, non era ancora abituata a vedere qualcuno abbandonare per lei ogni dovere, fossero pure doveri scolastici. Ma, vedendo che restavo sulla mia seggiola di ferro, non ebbe il coraggio di ricordarmi che a quell’ora avrei dovuto essere seduto sui banchi dell‘“Enrico Quarto”.

Restavamo immobili. Così deve essere la felicità. Un cane balzò fuori dalla vasca e si scrollò. Marta si levò, come uno che, dopo la siesta, e col viso ancora assonnato, scuote da sé i sogni.