“Somigliate poco alla vostra signora madre,” le dissi.
Era un madrigale.
“Me lo dicono qualche volta, ma quando verrete da noi, vi farò vedere delle fotografie della mamma quand’era giovane; le somiglio molto.”
Fui rattristato da questa risposta e pregai Dio di non farmi vedere Marta quando avrebbe avuto l’età della madre.
Volevo dissipare il disagio di questa risposta penosa, e non rendendomi conto che, penosa, essa poteva essere solo per me, giacché per fortuna Marta non vedeva la madre coi miei occhi, le dissi:
“Fate male a pettinarvi così, i capelli lisci vi starebbero meglio.”
Restai atterrito: non avevo mai detto nulla di simile a una donna.
Pensavo a come ero pettinato io.
“Potete domandarlo alla mamma (come se avesse bisogno di giustificarsi!); di solito non mi pettino così male, ma ero già in ritardo e temevo di perdere il secondo treno. Del resto, non avevo intenzione di togliermi il cappello.”
“Che ragazza è dunque,” pensavo, “per ammettere che un monello la rimproveri per la sua pettinatura?”
Cercavo d’indovinare i suoi gusti letterari; fui felice che conoscesse Baudelaire e Verlaine, incantato del modo come amava Baudelaire, che pure non era il mio. Vi sentivo un senso di rivolta. I genitori avevano finito per accettare i suoi gusti. Marta faceva loro una colpa di aver ceduto con lei per affetto. Il fidanzato, nelle sue lettere, le parlava dei libri che leggeva, e, se gliene consigliava alcuni, gliene vietava altri. Le aveva vietato “Les Fleurs du Mal”.
Spiacevolmente sorpreso di sapere ch’era già fidanzata, mi rallegrai di constatare ch’essa disobbediva a un soldato abbastanza ingenuo da temere Baudelaire. Fui felice di sentire che egli spesso urtava Marta.
Dopo la prima sorpresa spiacevole, mi rallegrai della sua ristrettezza di mente, tanto più che temevo, se anche lui avesse gustato “Les Fleurs du Mal”, che la loro futura camera somigliasse a quella della
“Mort des Amants”. Mi chiesi dopo che cosa potesse importarmene.
Il suo fidanzato le aveva anche proibito la scuola del nudo. Io, che non ci andavo, le proposi di condurvela, aggiungendo che vi andavo spesso a disegnare. Ma, dopo, per paura che la mia menzogna venisse scoperta, la pregai di non parlarne con mio padre. Egli non sapeva, dissi, che mancavo alle lezioni di ginnastica per andare alla “Grande Chaumière”. Perché non volevo che si figurasse che nascondevo ai miei genitori di frequentare la scuola, perché essi mi proibivano di vedere donne nude. Ero felice che si formasse tra noi un segreto ed io, timido, mi sentivo già tiranno con lei.
Ero anche fiero di essere stato preferito da lei alla campagna, perché non avevamo ancora fatto allusione ai luoghi della nostra passeggiata.
Qualche volta i genitori la chiamavano: “Guarda, Marta, come sono belle le colline delle Chennevières”; oppure, il fratello le si avvicinava e le chiedeva il nome d’un fiore che aveva colto. Essa accordava loro proprio quel tanto di attenzione distratta che bastava per non offenderli.
Sedemmo sui prati d’Ormesson. Nel mio candore, rimpiangevo d’essere andato tropp’oltre, e di aver precipitato tanto le cose. “Dopo una conversazione meno sentimentale, più naturale,” pensavo, “avrei potuto abbagliare Marta, e attirarmi la benevolenza dei suoi genitori, raccontando la storia del villaggio.” Me ne astenni, per ragioni profonde, credevo, perché, dopo tutto quello ch’era accaduto, una conversazione così estranea alle nostre inquietudini comuni non avrebbe fatto che distruggerne l’incanto. Credevo che fossero accadute cose gravi. Era vero, del resto, semplicemente perché - lo seppi in seguito - Marta aveva falsato la conversazione nel mio stesso senso.
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