Una domenica dell’aprile 1917, prendemmo, come spesso facevamo, il treno per La Varenne, di dove si doveva andare a piedi a Ormesson. Mio padre mi disse che dovevamo trovarci a La Varenne con persone simpatiche, i Grangier. Li conoscevo perché avevo visto il nome della loro figliuola, Marta, nel catalogo di una esposizione di quadri. Un giorno, avevo sentito i miei genitori parlare della visita d’un signor Grangier. Era venuto con una cartella piena delle opere della figlia, che aveva diciott’anni. Marta era malata. Il padre avrebbe voluto farle la sorpresa che i suoi acquerelli figurassero in una esposizione di beneficenza di cui mia madre era presidentessa. Erano acquerelli senza nessuna pretesa; vi si sentiva la buona alunna del corso di disegno, che tira fuori la lingua e lecca i pennelli.
Sulla banchina della stazione di La Varenne, i Grangier ci aspettavano. Il signor Grangier e sua moglie dovevano essere della stessa età, verso la cinquantina. Ma la signora Grangier pareva più anziana del marito; la sua ineleganza, la sua statura bassa, me la resero antipatica alla prima occhiata.
Nel corso della passeggiata, dovevo notare che essa corrugava spesso le sopracciglia, coprendo così la fronte di rughe che sparivano solo dopo qualche minuto. Perché avesse tutte le ragioni di spiacermi, senza che dovessi rimproverarmi di essere ingiusto, desideravo che adoperasse modi di dire comuni. In questo, mi deluse.
Quanto al padre, pareva una brava persona, lui, ex sottufficiale, adorato dai suoi soldati. Ma dov’era Marta? Tremavo alla prospettiva d’una passeggiata senz’altra compagnia che quella dei suoi genitori.
Doveva venire col prossimo treno: “tra un quarto d’ora,” spiegò la signora Grangier, “perché non aveva potuto esser pronta in tempo.
Sarebbe venuta col fratello.”
Quando il treno entrò nella stazione, Marta era in piedi sul predellino. “Aspetta che il treno sia fermo,” le gridò la madre…
L’imprudente mi piacque.
Il suo vestito, il cappello, semplicissimi, indicavano poca stima per l’opinione di sconosciuti. Teneva per mano un ragazzetto che mostrava undici anni. Era suo fratello, fanciullo pallido, dai capelli di albino, e di cui ogni gesto tradiva la malattia.
Sulla strada, Marta ed io andavamo innanzi. Mio padre veniva dietro, tra i Grangier.
I miei fratelli, poverini, sbadigliavano, con quel nuovo compagno malaticcio a cui era proibito correre.
Siccome facevo dei complimenti a Marta per i suoi acquerelli, mi rispose modestamente che erano studi. Non avevano importanza. Mi avrebbe fatto vedere qualcosa di meglio; dei fiori “stilizzati”.
Credetti di non doverle dire, per una prima volta, che trovavo ridicoli simili fiori.
Di sotto il cappello, non poteva vedermi bene; ma io la osservavo.
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