Non posso neanche uscire a passeggio perché mi conoscono. Sono qui nelle sue mani; a Milano mi credono al mare. Ma Poli mi trascura, Poli è stanco di me, non vuol nemmeno più saperne di ballare con me...

Io guardavo i ciottoli e indovinavo le teste ai balconi.

- ...stanotte lei l’ha visto contento. Quand’è ubriaco mi sopporta ancora, ma si ubriaca e fa di peggio per sfuggirmi. Ormai... - qui la voce si fece più ansante, - noi viviamo alla giornata.

Non mi lasciò il braccio neanche entrando, quando sollevai la portiera di pendagli tintinnanti. Nell’ombra Poli e Pieretto confabulavano, e Pieretto gridò:

- Che si mangia?

Vennero uova al tegame e ciliege. Io cercavo di non guardare Rosalba. Poli rompendo il pane continuò il discorso.

- Tanto più si decide, quanto più si è caduti. Si tocca il fondo. Quando tutto è perduto si ritrova noi stessi.

Pieretto rideva. - Un ubriaco è un ubriaco, - disse.

Non sceglie più né la droga né il vino. Ha scelto una volta, milioni di anni prima, quando ha gridato il primo evviva.

- C’è un’innocenza, - disse Poli, - una chiarezza che viene dal fondo...

Rosalba taceva, non osavo guardarla.

- Io ti dico, - interruppe Pieretto, - che se ti sei dimenticato l’ora stanotte, è perché avevi perso la scelta.

Ma questa innocenza io la cerco, - disse Poli balbettando testardo, - più la conosco quanto più mi convinco di esser vile e di esser uomo. Sei o no persuaso che lo stato dell’uomo è debolezza? Come puoi sollevarti se prima non precipiti?

Rosalba mangiucchiava ciliege e taceva. Pieretto scosse il capo varie volte e disse: - No -. Io pensavo al discorso di prima, e non tanto alle parole quanto alla voce e alla stretta del braccio. Gli occhi mi bruciavano dalla stanchezza. Quando ci alzammo per andarcene, le gettai un’occhiata. Mi parve calma, insonnolita.

VI.

 

 

 

Li lasciammo sulla porta dell’albergo, nello squallore del mattino sprecato. Il riverbero del sole sulle vetrine mi feriva gli occhi. Traversai con Pieretto i giardini e non parlammo; pensavo a Oreste.

- Ci vediamo, - dissi sull’angolo.

Andai a casa e mi buttai sul letto. Sentivo mia madre aggirarsi nel corridoio e rimandavo il momento dell’incontro. Non volevo dormire, soltanto riprendermi. Nella stanchezza mi riusciva facile non pensare alla notte, ai disordini, ai singhiozzi di Rosalba, e sprofondavo in quel cielo che avevo sognato nel dormiveglia sotto la luce fresca, indugiavo nelle viuzze del paese, guardavo all’insù. Li conoscevo questi borghi ammucchiati nelle campagne. Conoscevo l’orto estivo della casa dei vecchi dove i miei mi mandavano a far campagna da ragazzo, un paese in pianura, tra rogge e siepi d’alberi, dai vicoli coi portici bassi c le fette di cielo altissime. Della mia infanzia non mi restava altro che l’estate. Le vie strette che sbucavano nei campi da ogni parte, di giorno e di sera, erano i cancelli della vita e del mondo. Gran meraviglia se un’automobile strombettante, giunta da chi sa dove, traversasse il paese sulla strada maestra e dileguasse chi sa dove verso nuove città, verso il mare, sconvolgendo ragazzi e polvere.

Mi tornò in mente nel buio quel progetto di traversare le colline, sacco in spalla, con Pieretto. Non invidiavo le automobili.