Costeggiando l’isolato, nel sole, accennai che a Poli Pieretto ne aveva dette di tutti i colori. - Pieretto ha quel modo di ridere che sembra che sputi in faccia. Lui non fa caso ma la gente si offende.

- Chi sa, - disse Oreste. - Non ho mai visto Poli offendersi.

La sera non vennero né Pieretto né Oreste. Io, quell’anno, quando restavo solo passavo brutti quarti d’ora. Rientrare in casa per studiare non aveva nessun senso; ero troppo avvezzo a vivere e discorrere con Pieretto e girare le strade; c’era nell’aria, nel movimento, nel buio stesso dei viali più cose che non potessi capire e godermi. Ero sempre sul punto di accostare una ragazza o ficcarmi in una bettola equivoca, oppure decidere di mettermi su un viale e andare andare fino a giorno, per ritrovarmi chi sa dove. Invece giravo le solite strade, passavo e ripassavo i crocicchi e le insegne, rivedevo le facce. A volte mi piantavo irresoluto su un angolo e ci stavo delle mezz’ore, infuriato con me stesso.

Ma quella sera mi andò meglio. L’incontro recente con Poli mi aveva tolto molti scrupoli e mi diceva che nel mondo, di giorno e di notte, c’erano privilegiati più assurdi di me, gente oziosa che godeva più di me. Perché questo mi avevano inculcato, senza saperlo, padre e madre, provinciali accasati in città: le pazzie dei poveri ti saranno consentite, quelle dei ricchi mai. S’intende che poveri non vuol dire straccioni.

Passai la sera in un cinema, divertito e inquieto ripensando a Poli. Quand’uscii fuori, non avevo sonno c andai per viuzze deserte, sotto le stelle e l’aria fresca. Sono nato e vissuto a Torino, ma quella sera ripensavo ai viottoli del grosso paese dei miei, aperti in mezzo alla campagna. In un consimile paese Oreste invece era vissuto e ci sarebbe presto tornato. Tornato per starci. Sua ambizione era questa. Se avesse voluto, poteva restare in città. Ma c’era differenza?

Sulla porta di casa, mi sentii chiamare. Era Pieretto che, staccandosi dall’ombra del muro, traversò la strada e mi raggiunse. Voleva stare, chiacchierare, non aveva ancora sonno. Non s’era fatto vedere a prima sera, perch’era stato tutto il giorno con Poli. La notte scorsa l’avevano finita girando in auto le campagne; la mattina s’eran trovati sui laghi, sotto il sole; là Poli era stato male, era caduto come un sacco scendendo di macchina: forse il riflesso abbacinante del sole. Era pieno di cocaina, Poli, avvelenato. Allora Pieretto aveva telefonato a quell’albergo di Torino; qualcuno gli aveva risposto che telefonasse a Milano. - Non ho soldi per farlo, - aveva gridato Pieretto. Allora un prete che sapeva guidare era salito sulla macchina e avevano portato Poli a Novara. Qui un dottore l’aveva svegliato, fatto sudare e vomitare; poi avevano litigato col prete che accusava Pieretto di essere stato la cattiva ispirazione dell’amico. Alla fine Poli aveva aggiustato ogni cosa, pagato il dottore, il telefono e il pranzo; e avevano riportato il prete a casa, facendogli un lungo discorso sui peccati e sull’inferno.

Pieretto era tutto contento. Si era goduto le pazzie di Poli, goduto la gita, goduto la faccia del prete.