Poli adesso era andato a fare il bagno e cambiarsi; c’era di mezzo una signora, una specie di furia che l’aveva inseguito da Milano a Torino e lo assediava nell’albergo, voleva un colloquio, gli mandava dei fiori.

- Magari è un po’ scemo, - disse Pieretto, - ma sa prendere in giro. Per i soldi che spende si diverte.

- Passa i limiti, - dissi, - è un incosciente.

Pieretto allora si mise a spiegarmi che Poli non faceva niente peggio di noi. Noi, spiantati e borghesi, passavamo la notte sulle panchine a discorrere, fornicavamo a pagamento, bevevamo del vino; lui aveva altri mezzi, aveva droghe, libertà, donne di classe. La ricchezza è potenza. Ecco tutto.

- Sei matto, - dissi. - Noi ragioniamo sulle cose.

Io voglio capire perché godo andando a spasso. Per esempio, tu cerchi Torino e a me piace salire in collina. Mi piacciono gli odori della terra. Perché? Poli di queste cose se ne sbatte. È un incosciente, lo dice anche Oreste.

- Scemi che siete, - ribatté Pieretto, e mi spiegò che c’è un bisogno d’esperienza, di pericolo, e che i limiti sono posti dall’ambiente in cui si vive. - Può anche darsi che Poli dica e faccia sciocchezze, - disse, - può darsi che ci lasci le ossa. Ma sarebbe più triste se vivesse come noi.

C’incamminammo discutendo, come sempre. Pieretto sosteneva che Poli faceva benissimo a conoscere la vita secondo i suoi mezzi. - Ma se dice sciocchezze, - obiettavo. - Non importa, - diceva Pieretto, - a modo suo s’arrabatta e tocca cose che voialtri nemmeno sospettate.

- Vuole darti la coca anche a te?

Pieretto, irritato, disse che Poli della droga non faceva una posa. Ne parlava pochissimo. Ma con quel prete aveva detto cose sul peccato, che mostravano occhio profondo e una vera esperienza. Allora risi in faccia a Pieretto, e lui di nuovo s’irritò.

- Ti scandalizza che uno prenda la coca, - mi disse, - e poi ridi se si parla del peccato?

Si fermò davanti a un bar. Disse che andava a telefonare. Dopo un po’ si sporse dalla cabina, voleva sapere se Oreste veniva.

- È mezzanotte. Oreste dorme. I suoi mezzi lo esigono, - dissi.

Pieretto vociò nel telefono. Continuò per un pezzo. Ridacchiava e parlava. Quando usci disse: - Si va da Poli.

IV.

 

 

 

L’idea di passare un’altra notte bianca mi atterrì. Mio padre e mia madre non avrebbero detto niente; due parole sul tempo, un’occhiata su dal piatto, caute domande sugli appelli d’esame. Non so come Pieretto se la vedesse coi suoi; a me quei visi inermi facevano pena, e mi chiedevo che sorta di tipo fosse stato mio padre a vent’anni e che ragazza mia madre, e se un bel giorno avrei anch’io avuto dei figli così estranei. Probabilmente i miei pensavano al tappeto verde, alle donne, all’anticamera del carcere. Che cosa sapevano delle nostre smanie notturne? O forse avevano ragione: si tratta sempre di un tedio, di un vizio iniziale, e di qui nasce ogni cosa.

Quando fummo davanti all’albergo con la signora Rosalba che passeggiava in su e in giù e Poli manovrava la macchina per farci salire, borbottai a Pieretto: - Patti chiari, stanotte. È già la mezza.

Era evidente che Poli ci voleva con sé per limitare le espansioni della donna.