Mancava poco alla cena, e il sorvegliante di turno se n’era già andato. Tra i tavoli verdi s’erano formati dei gruppetti intenti a conversare, e una calda animazione riempiva di brusii e ronzii la sala.

Era la solita aula scolastica dalle pareti a calce, con un gran crocifisso e i ritratti della coppia reale ai lati della lavagna. Accanto alla grande stufa di ferro non ancora accesa sedevano, un po’ sulla pedana e un po’ sulle sedie sparse qua e là, i ragazzi che nel pomeriggio avevano accompagnato i signori Törless alla stazione. Erano, oltre a Reiting, il lungo Hofmeier e Dschjusch, nomignolo con cui si designava un piccolo conte polacco.

Törless era alquanto curioso.

Gli armadietti si trovavano in fondo alla stanza ed erano dei lunghi stipi con molti cassetti che si potevano chiudere a chiave e in cui gli allievi dell’istituto conservavano lettere, libri, denaro e ogni possibile cianfrusaglia.

E già da parecchio tempo questo e quel compagno si lagnavano che gli fossero venute a mancare piccole somme di denaro, senza peraltro essere in grado di formulare precisi sospetti.

Beineberg fu il primo a poter dire con certezza che la settimana precedente gli era stata rubata una somma piuttosto ragguardevole. Ma solo Reiting e Törless sapevano della cosa.

Sospettavano degli inservienti.

«Dài, racconta!» l’esortò Törless, ma Reiting gli fece un rapido cenno: «Sst! Più tardi. Non lo sa ancora nessuno.»

«Un inserviente?» bisbigliò Törless.

«No.»

«Fammi almeno sapere chi!»

Reiting voltò le spalle agli altri e disse piano: «B.» Nessuno oltre a Törless aveva capito qualcosa di quel dialogo condotto con cautela. Ma su questi la confidenza agì come un attacco di sorpresa. B.? Non poteva essere che Basini. Ma questo non era possibile. Sua madre era una signora benestante, il suo tutore un alto funzionario. Törless non voleva crederci, e intanto gli balenò il pensiero del racconto di Boena.

Non vedeva l’ora che gli altri andassero a cena. Beineberg e Reiting rimasero, asserendo d’essere ancora sazi dal pomeriggio.

Reiting propose di andare per prima cosa «di sopra».

Uscirono nel corridoio, che si allungava senza fine fuori dall’aula. I tremolanti lumi a gas lo rischiaravano solo a brevi tratti, e i passi, per quanto cautamente si camminasse, echeggiavano da una nicchia all’altra…

A circa cinquanta metri dalla porta una scala portava al secondo piano, dove si trovava il gabinetto di scienze naturali, altre raccolte di materiale didattico e una quantità di stanze vuote. A partire di là la scala si stringeva, e in brevi rampe che si susseguivano ad angolo retto saliva fino al solaio. Poi - come succede nei vecchi edifici che sono spesso costruiti senza logica, con grande spreco di angoli e di inutili scalini - saliva ancora di un buon tratto sopra il livello del solaio, per cui al di là della pesante porta di ferro sprangata che la chiudeva c’era bisogno di una scaletta di legno per scendere in quello.

In questo modo, però, dalla parte di qua s’era creato un vano perso, alto parecchi metri, che giungeva fino alla travatura. In esso, dove presumibilmente non andava mai nessuno, erano stati riposti vecchi scenari, residuo di remote rappresentazioni teatrali.

Su questa scala la luce del giorno era soffocata anche nelle ore meridiane da una penombra intrisa di una polvere vecchia di anni, perché quell’accesso al solaio, che si trovava verso l’ala dell’imponente edificio, non veniva quasi mai usato.

Raggiunto l’ultimo pianerottolo, Beineberg scavalcò la ringhiera e, tenendosi alle sbarre di questa, si calò tra gli scenari, imitato da Reiting e da Törless. Qui poterono poggiare i piedi su una cassa che era stata messa là proprio a questo scopo, e da essa scesero con un salto sul pavimento.

Anche se l’occhio di uno che si fosse trovato sulla scala avesse fatto l’abitudine al buio, gli sarebbe comunque stato impossibile distinguere da lassù più che un ammasso disordinato di quinte spigolose appoggiate in vario modo le une alle altre. Ma quando Beineberg scostò un poco una di esse, ai tre che stavano di sotto si aprì uno stretto passaggio, una specie di cunicolo.

Nascosero la cassa che era loro servita per scendere e s’infilarono tra le quinte. Qui il buio si faceva completo, e ci voleva un’esatta conoscenza del luogo per andare avanti. Qua e là una delle grandi tele frusciava quando veniva sfiorata, sul pavimento correva un fremito come di topi messi in fuga, e si alzava un tanfo di mobili vecchi.

I tre che conoscevano la strada procedevano a tentoni con infinita cautela, badando a ogni passo di non urtare qualcuna delle cordicelle tese attraverso il pavimento a mo’ di lacci e di segnali d’allarme.

Passò parecchio tempo, e alla fine giunsero a una porticina che si trovava sulla destra, subito prima del muro divisorio del solaio.

Quando Beineberg la spalancò si ritrovarono in un vano angusto ricavato sotto l’ultimo pianerottolo, un posto che alla luce tremula di un piccolo lume a petrolio acceso da Beineberg appariva abbastanza stravagante.

Il soffitto era orizzontale solo in quella parte che si trovava immediatamente sotto il pianerottolo, e anche là alto solo quel tanto che permetteva di stare in piedi. Procedendo verso il fondo invece s’inclinava, secondo l’andamento della scala, per finire in un cantuccio a punta. Dalla parte opposta a questo lo stanzino era chiuso dal sottile tramezzo che separava il solaio dalla scala, e nel verso della lunghezza trovava un limite naturale nel muro in cui era stata inserita la scala. Solo la seconda parete laterale, in cui si apriva la porta, sembrava essere stata aggiunta apposta: doveva probabilmente la sua esistenza all’intento di creare là un piccolo ripostiglio per attrezzi, o forse anche solo a un estro dell’architetto, che alla vista di quell’angolo buio può darsi avesse avuto l’idea molto medioevale di farlo murare per ricavarne un nascondiglio.

Comunque, all’infuori dei tre non doveva esserci nessuno nell’istituto che sapesse dell’esistenza di quel locale, o che addirittura pensasse di dargli una qualche destinazione.

Così loro avevano potuto sistemarselo secondo i loro gusti stravaganti.

Le pareti erano tutte rivestite di una stoffa da bandiere rosso sangue che Reiting e Beineberg avevano rubato in un solaio, e il pavimento era coperto da un doppio strato di pesanti coperte di lana grezza, di quelle che d’inverno servivano da seconda coperta nei dormitori. Nella parte anteriore dello stanzino c’erano delle cassette basse ricoperte di stoffa, che venivano usate come sedili; dietro, dove pavimento e soffitto terminavano nel cantuccio a punta, era stato sistemato un giaciglio. Questo offriva ospitalità a tre o quattro persone e poteva essere oscurato, e insieme separato dalla parte anteriore della stanza, per mezzo di una tenda.

Sul muro, accanto alla porta, era appesa una rivoltella carica.

Törless non amava quello stanzino. La sua piccolezza e quell’isolamento certo gli piacevano, era come stare nelle viscere di una montagna, e l’odore delle vecchie quinte polverose lo riempiva di sensazioni indefinite. Ma tutto quel mistero, le cordicelle per l’allarme, la rivoltella che doveva dare un’illusione estrema di fierezza e di clandestinità gli parevano cose ridicole. Era come un volersi convincere a ogni costo di condurre un’esistenza da banditi.

Törless, veramente, stava al gioco solo perché non voleva esser da meno degli altri due. Ma Beineberg e Reiting prendevano quelle cose terribilmente sul serio. Questo Törless lo sapeva.