Ma ogni volta si fermava a metà strada, e ciò gli costava non poche canzonature, che tornavano a intimidirlo. In questo periodo critico la sua vita si esauriva in pratica in quello sforzo continuamente rinnovato di gareggiare con i suoi rozzi amici, più virili di lui, e in un’intima indifferenza a una simile aspirazione.
Se ora venivano a trovarlo i suoi genitori, finché era solo con loro se ne stava schivo e silenzioso. Si sottraeva ogni volta con una scusa diversa alle carezze affettuose di sua madre: in realtà vi avrebbe ceduto volentieri, ma si vergognava come se gli occhi dei suoi compagni fossero puntati su di lui. I suoi genitori vedevano in quell’atteggiamento la goffaggine tipica degli anni della pubertà.
Poi, nel pomeriggio, arrivava tutta la chiassosa comitiva. Si giocava a carte, si mangiava, si beveva, si raccontavano aneddoti sui professori e si fumavano le sigarette che il consigliere di corte aveva portato dalla capitale.
Quella gaiezza rallegrava e rassicurava i genitori.
Che, ogni tanto, per Törless venissero anche altre ore, essi l’ignoravano. E sempre più numerose negli ultimi tempi. C’erano momenti in cui la vita di collegio gli diventava del tutto indifferente. Il cemento delle sue preoccupazioni quotidiane si sbriciolava, e le ore della sua esistenza si disperdevano, prive d’intima coesione.
Spesso se ne stava seduto a lungo, assorto in un cupo almanaccare, come ripiegato su se stesso.
Era stata anche questa volta una visita di due giorni. S’era mangiato, fumato, s’era fatta una gita, e ora il diretto avrebbe riportato i due signori nella capitale.
Un lieve brusio nei binari annunciò l’arrivo del treno, e i segnali della campana sul tetto della stazione colpirono, inesorabili, l’orecchio della signora Törless.
«Allora d’accordo, caro Beineberg: baderà lei al mio figliolo, vero?» disse il consigliere Törless rivolto al giovane barone Beineberg, un ragazzo lungo e ossuto dalle grandi orecchie a sventola ma dagli occhi espressivi e giudiziosi.
Il piccolo Törless prese un’aria imbronciata al sentirsi mettere così sotto tutela, e Beineberg sogghignò lusingato, con una punta di malignità.
«Anzi,» continuò il consigliere rivolto agli altri, «vorrei pregare tutti voi di mettermi al corrente nel caso che a mio figlio succedesse qualcosa.»
Queste parole strapparono infine al giovane Törless un annoiatissimo: «Ma papà, cosa vuoi che mi succeda!», quantunque fosse ormai abituato a subire a ogni addio questo eccesso di sollecitudine.
Ma gli altri batterono i tacchi accostando con forza al fianco l’elegante spadino, e il consigliere soggiunse: «Non si può mai sapere quel che può succedere, e il pensiero di venirne subito informato mi tranquillizza molto; dopotutto potresti anche non essere in grado di scrivere.»
Poi il treno entrò in stazione. Il consigliere Törless abbracciò il figlio, la signora Törless si aggiustò la veletta sul viso per nascondere le lacrime, gli amici ringraziarono a turno e infine il controllore chiuse la porta della carrozza.
Ancora una volta la coppia scorse l’alta e nuda facciata posteriore dell’istituto, il lungo e poderoso muro di cinta del parco, poi a destra e a sinistra non si videro che campi bigi e radi alberi da frutto.
Intanto i ragazzi avevano lasciato la stazione e senza scambiare molte parole camminavano verso la città in due file, uno dietro l’altro, tenendosi ai bordi della strada per evitare almeno la polvere più fitta e appiccicosa.
Erano le cinque passate e sui campi si stendeva, come un preannuncio della sera, una cappa fredda e greve.
Törless diventò molto triste.
Forse ciò era dovuto alla partenza dei genitori, forse invece era solo la scostante, opaca malinconia che pesava su tutta la natura circostante e giù a pochi passi di distanza confondeva, con colori grevi e spenti, le forme degli oggetti.
La stessa tremenda apatia che per tutto il pomeriggio aveva oppresso ogni cosa invadeva strisciando la pianura, seguita come da una traccia viscida dalla nebbia che s’appiccicava alle superfici arate e ai plumbei campi di rape.
Törless non guardava né a destra né a sinistra, ma ne aveva la sensazione. Passo dopo passo calpestava le orme impresse nella polvere da chi lo precedeva, e la sua sensazione era proprio questa, che le cose dovessero essere per forza così: come un’implacabile costrizione che catturava e comprimeva tutta la sua vita in quel movimento, passo dopo passo, lungo quell’unica linea, quell’unica, esigua striscia che si allungava tra la polvere.
Quando si fermarono a un crocevia dove una seconda strada confluiva nella loro in uno spiazzo rotondo tutto calpestato, e quando in quel punto un’insegna stradale si alzò storta e fradicia, quella linea contrastante col resto del paesaggio fece a Törless l’effetto di un grido disperato.
Procedettero ancora. Törless pensava ai suoi genitori, a questo e a quel conoscente, alla vita. A quell’ora ci si veste per un invito o si decide di andare a teatro. E dopo si va al ristorante, si ascolta un’orchestrina, ci si siede al caffè. Si fa una conoscenza. Un’avventura galante fa sperare fino al mattino. La vita, come una ruota meravigliosa, presenta di continuo cose nuove e inattese…
Törless sospirò pensando a tutto questo, e a ogni passo che lo riportava verso l’angusta realtà del collegio qualcosa dentro di lui si stringeva sempre più.
Già gli risuonava negli orecchi il segnale della campana: perché lui non temeva nulla quanto quel segnale che sanciva irrevocabilmente la fine della giornata, come il taglio crudele di un coltello.
Davvero lui non faceva nessuna esperienza della vita, e la sua esistenza si trascinava in una continua apatia, ma quel suono di campana aggiungeva a ciò una nota di scherno, facendolo tremare di rabbia impotente contro se stesso, il suo destino, la giornata sepolta.
Adesso non potrai più avere niente dalla vita, per dodici ore non potrai più avere niente, per dodici ore sei morto… Questo era il senso di quello scampanìo.
Quando il gruppo dei giovani giunse tra le prime basse abitazioni, più capanne che case, questo cupo almanaccare di Törless cessò. Come attratto da un interesse improvviso alzò la testa e aguzzando gli occhi scrutò l’interno in penombra dei piccoli, sporchi edifici davanti a cui stavano passando. Sulle porte dei più stavano, con addosso grembiuli e ruvide camicie, le donne dai piedi larghi e sporchi e dalle braccia nude e abbronzate.
Se erano giovani e floride venivano apostrofate con salaci battute in slavo. Loro si davan di gomito ridacchiando dei «signorini»; a volte una strillava se nel passare quelli le sfioravano troppo energicamente il petto, oppure rispondeva ridendo con un insulto a una pacca sulla coscia. Qualcuna invece si limitava a seguire con uno sguardo accigliato il gruppo che procedeva svelto, e il contadino sorrideva imbarazzato, tra incerto e bonario, se per caso capitava là.
Törless non prendeva parte a queste sfrontate manifestazioni di precoce virilità dei suoi amici.
La ragione stava sicuramente, in parte, in una certa timidezza nelle cose del sesso propria di quasi tutti i figli unici, ma soprattutto nel suo particolare tipo di sensualità, che era più segreta, più prepotente e aveva sfumature più cupe di quella dei suoi compagni, e si manifestava con maggiore difficoltà.
Mentre gli altri si limitavano a ostentare atteggiamenti lascivi verso le donne, e quasi più per apparire «navigati» che per un vero stimolo sensuale, l’animo del piccolo, taciturno Törless era scosso in profondità, sferzato da una lascivia reale.
Scrutava con occhi così febbrili, attraverso le piccole finestre e gli stretti anditi tortuosi, l’interno delle case, che davanti agli occhi gli danzava di continuo come una ragnatela.
Bambini seminudi si rotolavano nel fango dei cortili, qua e là le sottane di una donna intenta al lavoro scoprivano il cavo delle ginocchia, oppure un seno pesante premeva contro le pieghe della stoffa, spianandole. E quasi che tutto ciò si svolgesse persino in un’atmosfera diversa, animalesca, opprimente, dai vestiboli delle case emanava un’aria greve e inerte che Törless respirava con voluttà.
Pensava a certe antiche pitture che aveva visto nei musei senza ben comprenderle. Aspettava qualcosa, proprio come davanti a quei quadri aveva sempre aspettato qualcosa che non accadeva mai. Che cosa?… Qualcosa di sorprendente, di mai visto, uno spettacolo portentoso di cui non riusciva a farsi la più pallida idea, un qualcosa che con la sua terrificante, bestiale sensualità l’abbrancasse come un artiglio e lo dilaniasse partendo dagli occhi; un’esperienza che in una certa maniera ancora assai confusa doveva avere a che fare coi grembiuli sporchi delle donne, con le loro mani ruvide, con i soffitti bassi delle loro stanze, con… con un lordarsi nel fango dei cortili… No, no, ormai sentiva soltanto la ragnatela infuocata davanti agli occhi; le parole tutto questo non l’esprimevano, non è brutto come sembra dalle parole, è qualcosa di assolutamente muto: un groppo alla gola, un pensiero appena percettibile, e solo se si volesse a tutti i costi esprimerlo a parole verrebbe fuori così; ma allora non avrebbe più che una lontana somiglianza, come un enorme ingrandimento in cui non solo tutto appare più evidente ma si vedono anche cose che non esistono affatto… Eppure se ne provava vergogna.
«Ha la nostalgia, il bambino?» gli domandò a un tratto, in tono canzonatorio, il lungo Reiting, più vecchio di due anni, che aveva notato il silenzio e gli occhi incupiti di Törless. L’altro, a disagio, fece un sorriso forzato, e gli parve che il maligno Reiting avesse spiato quel che avveniva dentro di lui. Non rispose. Ma intanto erano arrivati sulla piazza della chiesa, che aveva la forma di un quadrato ed era lastricata di ciottoli, e là si separarono.
Törless e Beineberg non volevano ancora rientrare in collegio, mentre gli altri, che non avevano il permesso di restar fuori di più, tornarono a casa.
[2]
I due erano entrati nella pasticceria.
Qui avevano preso posto a un tavolino dal piano rotondo, accanto a una finestra che dava sul giardino, sotto un lampadario a gas le cui luci ronzavano piano dentro i globi smerigliati.
S’erano messi comodi; si fecero riempire i bicchierini di vari tipi di grappa, fumarono delle sigarette e tra l’una e l’altra mangiarono delle paste, gustando il piacere d’essere i soli clienti. Tutt’al più nelle salette sul retro, infatti, c’erano ancora un paio di avventori seduti davanti al loro bicchiere di vino; là davanti era tutto tranquillo, e anche la grassa e attempata pasticciera sembrava dormire dietro il suo bancone.
Törless senza osservare niente di preciso, guardò fuori dalla finestra il giardino deserto, che s’oscurava pian piano.
Beineberg parlava: dell’India, come al solito. Perché suo padre, che era generale, vi era stato agli inizi della carriera servendo nell’esercito inglese. E non s’era limitato a portarsi a casa, come altri europei, legni intagliati, tessuti e piccoli idoli fatti in serie, ma aveva pure colto e assorbito qualcosa dei misteriosi e bizzarri barlumi del buddismo esoterico.
1 comment