E a suo figlio aveva trasmesso sin dall’infanzia quel che aveva appreso allora e integrato più tardi con le sue letture.

Verso la lettura, peraltro, aveva un atteggiamento tutto particolare. Era ufficiale di cavalleria, e non amava affatto i libri in generale. Disprezzava in pari misura i romanzi e la filosofia; quando leggeva non voleva riflettere su opinioni e controversie ma, aperto il libro, entrare subito come attraverso una porta segreta nel mezzo di elette illuminazioni. I suoi dovevano essere libri il cui semplice possesso rappresentava già una specie di distintivo segreto e una garanzia di rivelazioni ultraterrene. E tutto questo lo trovava solo nei libri della filosofia indiana, che per lui avevano appunto l’aria di essere non solo libri ma rivelazioni, realtà: operechiave come i libri di alchimia e di magia del medioevo.

Con essi quell’uomo sano e attivo, che compiva con scrupolo il suo servizio e inoltre montava personalmente quasi ogni giorno i suoi tre cavalli, si appartava per lo più verso sera.

Allora sceglieva un passo a caso e ci meditava sopra, chiedendosi se non gli avrebbe schiuso quel giorno il suo senso più riposto. E com’era deluso ogni volta che doveva constatare di non essere ancora giunto oltre il vestibolo del sacro tempio.

Così attorno a quell’uomo asciutto, abbronzato e amante dell’aria aperta aleggiava una specie di solenne mistero. La sua convinzione di essere ogni giorno alla vigilia di una folgorante rivelazione gli conferiva un’aria di distaccata superiorità. I suoi occhi non erano trasognati ma quieti e duri. L’abitudine di leggere libri in cui non una parola poteva venire spostata senza turbare il segreto significato, la cauta e riverente ponderazione del senso manifesto e riposto di ogni frase avevano improntato la loro espressione.

Solo ogni tanto i suoi pensieri si perdevano nella penombra di una gradevole malinconia. Questo gli accadeva quando pensava al culto arcano legato agli originali degli scritti che gli stavano davanti, ai miracoli che ne erano scaturiti e che avevano scosso migliaia di persone, migliaia di uomini che ora, per la grande distanza esistente tra lui e loro, gli apparivano suoi fratelli, mentre disprezzava coloro che lo circondavano e che vedeva distintamente in tutte le loro caratteristiche. In quelle ore si rabbuiava. L’idea che la sua vita fosse condannata a trascorrere lontano dalle fonti delle sue energie, i suoi sforzi condannati forse a fallire dalle circostanze avverse l’abbatteva. Ma poi, quand’era rimasto per un po’ così afflitto davanti ai suoi libri, avveniva in lui un singolare mutamento. Non che la sua malinconia perdesse alcunché della propria intensità - diventava, anzi, ancor più cupa - però non l’opprimeva più. Lui si sentiva più solo e isolato che mai, ma in quell’afflizione c’era un sottile piacere, l’orgoglio di fare qualcosa di non comune, di servire una divinità incompresa. E allora, nei suoi occhi, a momenti poteva anche balenare qualcosa che ricordava la follia dell’estasi religiosa.

 

Beineberg aveva parlato fino a stancarsi. In lui l’immagine di quel suo padre bizzarro continuava a vivere in una sorta d’ingrandimento deformato. I tratti primitivi c’erano ancora tutti, ma ciò che nell’altro, in principio, era forse stato solo un ghiribizzo, conservato e sviluppato poi per il suo carattere esclusivo, nel figlio era degenerato in una speranza visionaria. Quella stravaganza di suo padre in cui questi, in fondo, vedeva forse soltanto l’estremo rifugio individuale che ciascuno deve costruirsi, sia pure con la semplice scelta degli abiti, per avere qualcosa che lo distingua dagli altri, in lui s’era tramutata nella fede incrollabile di potersi assicurare un dominio personale grazie a inconsuete forze spirituali.

Törless conosceva a memoria quei discorsi. Gli passavano davanti senza quasi sfiorarlo.

Ora aveva voltato per metà le spalle alla finestra e osservava Beineberg che si stava arrotolando una sigaretta. E di nuovo provò per lui la curiosa avversione che lo assaliva ogni tanto. Quelle mani scure e sottili, che ora stavano avvolgendo abilmente il tabacco nella carta, per la verità erano belle. Dita scarne, unghie ovali gradevolmente convesse: in esse c’era una certa nobiltà. Anche negli occhi castani. Anche nella magrezza slanciata del corpo. Sì, le orecchie erano proprio sporgenti, la faccia piccola e irregolare, e la testa nell’insieme faceva pensare a quella di un pipistrello. Tuttavia - e Törless l’avvertì con chiarezza mentre confrontava tra loro i singoli tratti - non erano i peggiori di essi ma proprio i più pregevoli a metterlo così singolarmente a disagio.

La magrezza del corpo, per esempio. Lo stesso Beineberg soleva vantare come proprio modello le gambe slanciate, d’acciaio, dei corridori omerici, ma a Törless essa non faceva per niente quell’effetto. Ancora non era riuscito a spiegarsene il motivo, e adesso, lì per lì, non gli veniva in mente nessun paragone calzante. Gli sarebbe piaciuto osservare con attenzione Beineberg, ma quello se ne sarebbe accorto e lui avrebbe dovuto avviare una qualche conversazione.