Ma guai a confessarselo. Di quel che facciamo a scuola tutto il giorno che cosa ha uno scopo, in fondo? Cosa ce ne viene? Intendo cosa ci viene di nostro… capisci, no? Uno alla sera sa che ha vissuto un’altra giornata, che ha imparato quel tanto, che ha rispettato l’orario delle lezioni, però alla fine è rimasto vuoto: vuoto dentro, intendo; uno ha, per così dire, una gran fame interiore…»
Beineberg borbottò qualcosa come allenarsi, preparare lo spirito… non potere ancora cominciare… più avanti…
«Allenarsi? Prepararsi? Ma a che? Sai qualcosa di preciso? Tu forse speri in qualcosa, ma anche per te è tutto incerto. È così: un eterno aspettare qualcosa di cui non sappiamo altro se non che l’aspettiamo… E questo è talmente noioso…»
«Noioso…» fece eco Beineberg crollando la testa.
Törless guardava sempre il giardino. Gli parve di sentire il fruscio delle foglie morte ammucchiate dal vento. Poi venne quell’attimo di perfetto silenzio che precede sempre il calare della completa oscurità. Le forme che erano sprofondate sempre più nella penombra, e i colori che si dissolvevano, per qualche secondo parvero restare immobili, trattenere il respiro…
«Senti, Beineberg,» disse Törless senza voltarsi, «durante il crepuscolo devono esserci, sempre, dei momenti molto particolari. Tutte le volte che l’osservo mi torna in mente lo stesso ricordo. Ero ancora molto piccolo e una volta, a quest’ora, stavo giocando nel bosco. La domestica s’era allontanata; io non lo sapevo e mi pareva di sentirmela ancora vicina. A un tratto qualcosa mi ha costretto ad alzare gli occhi. Avevo capito di essere solo. Di colpo si era fatto un silenzio! E quando mi sono guardato attorno m’è parso che gli alberi, zitti zitti, facessero circolo e mi fissassero. Ho pianto. Mi sono sentito così abbandonato dai grandi, in balia degli esseri inanimati… Che cos’è? La riprovo spesso, questa sensazione di un silenzio improvviso che è come un linguaggio che le nostre orecchie non afferrano.»
«Questo di cui tu parli io non lo conosco: ma perché le cose non dovrebbero avere un loro linguaggio? In fondo, noi non siamo neppure in grado di affermare con sicurezza che non abbiamo un’anima!»
Törless non rispose. L’interpretazione speculativa di Beineberg non gli garbava. Ma quello dopo un po’ riprese: «Perché continui a guardar fuori dalla finestra? Cosa ci trovi?»
«Sto ancora pensando a cosa può essere.» In realtà aveva già pensato a qualcos’altro, che non voleva confessare. La forte tensione, il tentativo di sondare un solenne mistero e la responsabilità di scrutare relazioni della vita ancora non descritte, tutto questo aveva potuto tollerarlo solo per un istante. Poi s’era nuovamente impadronito di lui il senso di solitudine e di abbandono che sempre seguiva quell’impegno eccessivo. Sentiva in cuor suo: queste son cose ancora troppo difficili per me; e i suoi pensieri cercavano rifugio in qualcos’altro, che faceva parte a sua volta del quadro ma restava come in agguato sullo sfondo: la solitudine.
Dal giardino deserto ogni tanto volteggiava incontro alla finestra illuminata una foglia, che si portava via nel buio una striscia chiara. E il buio sembrava scansarsi e arretrare per rifarsi avanti subito dopo e piantarsi, immobile come un muro, davanti alle finestre. Era un mondo a sé, quel muro. Era sceso sulla terra come un nugolo di nemici neri, uccidendo gli uomini o cacciandoli via o facendo insomma qualcosa che ne aveva cancellato ogni traccia.
E Törless ebbe l’impressione di godere di ciò. In quel momento non gli piacevano gli uomini, i grandi, gli adulti. Non gli piacevano mai quand’era buio. Allora aveva l’abitudine di fingere che gli uomini non esistessero, e il mondo, dopo, gli appariva come una casa deserta e buia, e nel suo petto c’era un brivido, come se ora gli toccasse cercare di stanza in stanza - stanze oscure che non si sapeva cosa nascondessero negli angoli -, varcare a tentoni le soglie che nessun piede umano avrebbe più calcato dopo il suo, finché… finché a un tratto, in una stanza, le porte gli si sarebbero chiuse davanti e alle spalle e lui si sarebbe trovato di fronte la signora delle orde nere in persona. E in quel momento anche le serrature di tutte le altre porte attraverso cui era passato si sarebbero chiuse, e solo in lontananza, oltre i muri, le ombre dell’oscurità avrebbero montato la guardia come neri eunuchi impedendo la presenza degli uomini.
Era questa la sua specie di solitudine, da quella volta che l’avevano abbandonato là nel bosco dove aveva pianto così disperatamente. Per lui aveva il fascino di una donna e di una condizione disumana. La sentiva come una donna, ma il suo fiato era solo un senso di soffocazione che gli stringeva il petto, il suo volto un oblio turbinoso di tutti i volti umani, e i movimenti delle sue mani brividi che gli correvano per tutto il corpo…
Aveva paura di queste fantasie, perché era consapevole della loro natura furtiva e perversa, e il pensiero che simili idee acquistassero sempre più potere su di lui l’inquietava. D’altra parte l’assalivano proprio quando lui si credeva più serio e più innocente: come reazione, si potrebbe dire, a quei momenti in cui presentiva intuizioni nate dal sentimento, che già si preparavano in lui ma erano ancora sproporzionate alla sua età. Perché nello sviluppo di ogni sottile energia morale c’è sempre all’inizio, una fase in cui essa indebolisce l’anima della quale un giorno rappresenterà forse la più ardita esperienza: quasi che le sue radici dovessero prima affondare, saggiandolo e sconvolgendolo, nel terreno che più tardi saranno destinate a consolidare.
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