Per questo gli adolescenti di grande avvenire hanno per lo più un passato ricco di umiliazioni.

La predilezione di Törless per certi stati d’animo era il primo sintomo di un’evoluzione interiore che in seguito si manifestò come una spiccata attitudine allo stupore. Più tardi, infatti, fu addirittura dominato da una dote singolare : si sentiva costretto a percepire eventi, persone, cose e persino se stesso così da riportarne la sensazione sia di una insolubile incomprensibilità sia di un’affinità che non era in grado di spiegare né di giustificare mai fino in fondo. Gli pareva che le cose fossero comprensibilissime, addirittura a portata di mano, e che tuttavia non si lasciassero mai tradurre del tutto in parole e pensieri. Tra gli eventi e il suo io, anzi tra le sue stesse sensazioni e un suo io profondo che anelava a comprenderle restava sempre un diaframma, che indietreggiava davanti al suo desiderio come un orizzonte man mano che lui gli si avvicinava. E quanto più nettamente coglieva coi pensieri le proprie sensazioni, quanto più a fondo le conosceva, tanto più estranee e incomprensibili queste parevano diventargli al tempo stesso, così che non sembrava nemmeno più che fossero loro a retrocedere davanti a lui ma piuttosto che lui s’allontanasse da loro, pur senza riuscire a scrollarsi di dosso l’illusione d’avvicinarsi sempre di più.

Questa singolare e sfuggente contraddizione occupò più tardi un buon tratto della sua evoluzione spirituale, parve voler dilaniare la sua anima e l’oppresse a lungo, divenendone il supremo dilemma.

Ma per il momento la gravità di queste lotte si manifestava solo in una frequente e improvvisa spossatezza sgomentando Törless per così dire, già da lontano, non appena un qualche singolare e ambiguo stato d’animo gliene dava, come poco prima, il presentimento. Allora gli pareva d’essere debole come un prigioniero abbandonato al suo destino, isolato tanto da se stesso che dagli altri; avrebbe voluto gridare dalla disperazione e dal senso di vuoto, e invece voltava per così dire le spalle a quella creatura seria e ansiosa, tormentata ed esausta che era in lui e porgeva l’orecchio alle voci carezzevoli con cui gli parlava la solitudine, ancora sbigottito per la brusca rinuncia e già estasiato dal loro respiro caldo e peccaminoso.

 

Törless tutt’a un tratto, propose di pagare. Negli occhi di Beineberg guizzò un lampo d’intesa: conosceva bene quell’umore. Törless fu infastidito da questa complicità; la sua antipatia per Beineberg si ridestò: si sentiva insozzato dall’aver qualcosa in comune con lui. Ma ciò faceva parte quasi naturalmente dell’insieme. La sordidezza è una solitudine di più e un nuovo muro tenebroso.

E senza scambiare parola si avviarono per una certa strada.

 

[3]

 

 

 

Negli ultimi minuti doveva esser caduta una pioggia sottile: l’aria era umida e greve, intorno ai lampioni tremolava una nebbia iridescente e i marciapiedi a tratti luccicavano.

Törless si strinse al fianco lo spadino che strascicava per terra; già il battere dei tacchi sul selciato gli dava strani brividi.

Dopo un po’ ebbero sotto i piedi un terreno soffice, si stavano allontanando dal centro della città diretti, per ampie strade di paese, verso il fiume.

Questo scorreva nero e pigro, con un cupo gorgoglio, sotto il ponte di legno. C’era un solo lampione, dai vetri rotti e impolverati. Il chiarore della luce che vacillava inquieta tra le folate di vento cadeva qua e là su un’onda in arrivo e si scioglieva sulla cresta. I tronchi rotondi cedevano sotto ogni passo, rotolavano avanti e poi di nuovo indietro…

Beineberg si fermò. La riva opposta era coperta di fitti alberi che, siccome la strada piegava ad angolo retto e proseguiva lungo l’acqua, incombevano come un muro nero e impenetrabile. Solo dopo un’attenta ricerca comparve una stradina stretta e nascosta che s’inoltrava dritta tra la vegetazione. Dai fitti e rigogliosi arbusti del sottobosco sfiorati dagli abiti cadeva ogni volta un rovescio di gocce. Dopo un po’ dovettero fermarsi di nuovo e accendere un fiammifero. Il silenzio era assoluto, non si sentiva più nemmeno il gorgoglio del fiume. A un tratto giunse fino a loro da lontano un suono rotto e indistinto, come un grido o un segnale d’avvertimento. O anche come il semplice richiamo di una creatura incomprensibile che da qualche parte si apriva come loro un varco tra i cespugli. Si diressero verso quel suono, si fermarono, ripresero il cammino. Poteva essere passato in tutto un quarto d’ora quando, con un sospiro di sollievo, distinsero delle voci sonore e le note di una fisarmonica.

Ora la vegetazione si diradava; dopo pochi passi si trovarono ai margini di una radura nel cui mezzo sorgeva, massiccia, una casa quadrata di due piani.

Era la vecchia casa dei bagni. Usata a suo tempo dagli abitanti della cittadina e dai contadini della zona come stabilimento termale, ormai era da anni quasi deserta. Solo a pianterreno ospitava un’osteria malfamata.

I due si fermarono un momento e tesero l’orecchio.

Törless stava giusto per alzare il piede e uscire dalla macchia quando dall’altra parte dei pesanti stivali fecero scricchiolare il tavolato dell’ingresso e un ubriaco uscì all’aperto con passo malfermo. Dietro di lui, nella penombra dell’ingresso, c’era una donna, e la si sentiva bisbigliare qualcosa con voce irosa e concitata, come se reclamasse qualcosa da lui. L’uomo rispose con una risata, dondolandosi sulle gambe. Allora si sentì come un’implorazione, ma le parole erano sempre incomprensibili. Si coglieva solo il tono di voce suadente. La donna venne avanti ancora e posò una mano sulla spalla dell’uomo. La luna illuminò lei, la sua sottana, il suo giubbetto, il suo sorriso implorante.