L’uomo guardava dritto davanti a sé, scuoteva la testa e teneva le mani affondate nelle tasche. Poi sputò e spinse da parte la donna. Forse questa aveva detto qualcosa. Ora si potevano intendere anche le loro voci, divenute più forti.

«… Così non vuoi darmi niente? Pezzo di…»

« Va’, va’, torna di sopra, puttana!»

« Cosa? Brutto bifolco!»

Per tutta risposta l’ubriaco raccattò un sasso con gesto goffo: «Se non ti levi subito di torno, bestia che sei, ti fiacco la schiena!», e fece l’atto di tirare. Törless sentì la donna correr su per le scale con un ultimo insulto.

L’uomo restò fermo un po’, tenendo indeciso il sasso in mano. Rise. Guardò verso il cielo dove la luna, di un giallo vinoso, navigava tra nuvole nere; poi fissò la siepe scura degli arbusti con l’aria di volersi muovere in quella direzione. Törless ritrasse cautamente il piede, si sentiva il cuore in gola. Ma alla fine l’ubriaco parve cambiare idea. La sua mano lasciò cadere il sasso. Con una sghignazzata di trionfo gridò un’oscenità verso la finestra del piano di sopra, poi scomparve dietro l’angolo.

I due non s’erano ancora mossi. «L’hai riconosciuta?» bisbigliò Beineberg, «era la Boena.» Törless non rispose: tendeva l’orecchio per sentire se l’ubriaco tornava indietro. Poi fu spinto avanti da Beineberg. A balzi rapidi e cauti raggiunsero, passando davanti ai coni di luce che uscivano dalle finestre del pianterreno, il vestibolo buio. Una scala di legno dalle rampe assai brevi portava su al primo piano. Ma di sotto dovevano aver sentito i loro passi sugli scalini cigolanti, oppure uno spadino aveva urtato contro il legno: la porta del locale di mescita s’aprì e qualcuno venne a vedere chi ci fosse in casa, mentre la fisarmonica di colpo taceva e il vocio s’interrompeva un istante.

Törless s’acquattò spaventato nelle svolte della scala. Ma dovevano averlo visto nonostante il buio, perché mentre la porta si richiudeva sentì la voce beffarda della cameriera dire qualcosa che suscitò uno scoppio di risa.

Sul ballatoio del primo piano era buio pesto. Né Törless né Beineberg s’azzardarono a muovere un passo per la paura di rovesciare qualcosa provocando rumore. Spinti dalla emozione, cercarono la maniglia della porta brancicando febbrilmente.

 

Boena, figlia di contadini, s’era trasferita da giovane nel capoluogo mettendosi a servizio come domestica e diventando in seguito cameriera.

In principio tutto le andò bene. I modi paesani di cui, al pari della camminata larga e pesante, non era riuscita a liberarsi del tutto, le guadagnarono la fiducia delle sue padrone, che del sentore di stalla esalante dalla sua persona amavano la semplicità, e l’affetto dei suoi padroni, che di esso gradivano la fragranza. Solo per capriccio, probabilmente, o forse anche per scontento e per un oscuro bisogno di passione, rinunciò a quella comoda esistenza. Divenne cameriera in un locale, si ammalò, trovò ospitalità in un’elegante casa di tolleranza e poco per volta, man mano che il vizio la logorava, fu risospinta in zone di provincia sempre più periferiche.

Infine, in quel luogo che non distava molto dal suo paese d’origine e dove abitava ormai da parecchi anni, di giorno dava una mano nell’osteria e la sera leggeva romanzi d’appendice, fumava sigarette e riceveva ogni tanto la visita di un uomo.

Non era ancora proprio imbruttita, però il suo viso mancava in maniera singolare di garbo, e lei faceva del suo meglio per accentuare con le proprie maniere questo tratto. Le piaceva far capire che conosceva molto bene l’eleganza e gli usi del bel mondo ma che ormai ne aveva abbastanza. Dichiarava volentieri d’infischiarsi di quelle cose come di se stessa, come, del resto, di tutto quanto. E per questo, nonostante la sua trascuratezza godeva di una certa considerazione presso i giovani contadini del posto. Questi, è vero, sputavano parlando di lei e si sentivano tenuti a essere nei suoi confronti ancor più villani di quanto non fossero con altre ragazze, ma in fondo andavano tremendamente fieri di quella «maledetta bagascia» che, nata tra loro, aveva guardato dietro alla facciata del mondo. Venivano, è vero, ognuno per conto suo e di nascosto, però non si stancavano di cercare la sua compagnia. E in ciò Boena trovava un residuo d’orgoglio e una giustificazione alla sua esistenza. Ma una soddisfazione forse ancora maggiore gliela davano i signorini dell’istituto. Con questi ostentava intenzionalmente i suoi tratti più laidi e grossolani, perché tanto, come la donna era solita dire, quelli sarebbero strisciati lo stesso da lei.

Quando i due amici entrarono, stava sdraiata come al solito sul letto, leggendo e fumando.

Törless ancora sulla porta, ne bevve l’immagine con occhi avidi.

«Oddìo, che bei ragazzini vedo mai?» schernì l’altra i due che entravano, squadrandoli con un’ombra di disprezzo.