- Alleati sì, e con le dovute riserve, poiché al minimo accenno di tradimento vi torco il collo.
Accettato - disse con tranquillità l’ispettore di polizia. Undici giorni dopo, il 3 dicembre, il «General-Grant» entrava nella baia della «Porta d’oro» e approdava a San Francisco. Il signor Fogg non aveva a quel punto né perduto né guadagnato un solo giorno.
NOTE.
NOTA 1: Operai manovali.
25.
BREVE PRESENTAZIONE DI SAN FRANCISCO. UNA GIORNATA DI COMPETIZIONI.
Erano le sette del mattino quando Phileas Fogg, la signora Auda e Passepartout posero piede sul continente americano, ammesso che si possa dare questo nome al molo galleggiante sul quale sbarcarono. Questi moli, alzandosi ed abbassandosi con la marea, facilitano il carico e lo scarico delle navi. Vi attraccano infatti i “clippers” di ogni dimensione, gli “steamers” di ogni nazionalità e quegli “steam-boats” a più piani che prestano servizio sul Sacramento e i suoi affluenti. Vi si ammassano anche i prodotti di un commercio che si estende al Messico, al Perù, al Cile, al Brasile, all’Europa, all’Asia, a tutte le isole dell’Oceano Pacifico. Passepartout, nella gioia di toccare finalmente il suolo americano, aveva creduto bene di effettuare il proprio sbarco eseguendo un salto pericoloso della più alta scuola. Ma quando ricadde sul tavolame del molo galleggiante che era forse un tantino tarlato, mancò poco non lo passasse da parte a parte. Trionfante, tuttavia, per il modo con cui aveva preso piede sul nuovo continente, il giovanotto cacciò un «urrà» formidabile che fece volar via uno stormo di cormorani e di pellicani, ospiti abituali delle tranquille baie del Pacifico. Il signor Fogg, appena sbarcato anch’egli a fianco della sua giovane compagna di viaggio, s’informò dell’ora in cui partiva il treno per New York.
Alle sei di sera - gli fu risposto.
Restava dunque un’intera giornata da spendere in visita alla bella città californiana. Il “gentleman” noleggiò una carrozza e vi prese posto con la signora Auda. Passepartout montò in serpa, a fianco del cocchiere, e la carrozza, a tre dollari la corsa, si diresse all’International Hôtel. Dal posto elevato che occupava, il servo del signor Fogg poteva godersi un invidiabile colpo d’occhio. E fu non poco sorpreso di ciò che vedeva. Dov’erano gli indiani dai trofei di penne? E dove gli avventurieri cercatori di pepite, con i larghi “sombreros” e con il cinturone guarnito di coltelli e di revolver?
Passepartout, con la mente piena dei ricordi di letture giovanili,
s’era immaginato di trovare ancora la San Francisco leggendaria dei
masnadieri, degli incendiari e degli assassini, la turbinosa bolgia di
tutti gli spostati attratti dall’avventura e dalla febbre dell’oro,
pronti a giocarsi la vita in un duello alla pistola per un pugno della
preziosa polvere. E invece si trovava sotto gli occhi la vita di una
metropoli commerciale pulsante di un’attività più febbrile e più
colossale ancora di quelle dei grandi centri di Londra e Parigi, ma
altrettanto ordinata e squisitamente elegante. Un formicolio di gente
americani ed europei - in abiti neri e cappelli di seta: e, frammischiati ad essi, gran numero di cinesi e di indiani. Strade lunghe e diritte; magnifici viali tracciati a scacchiera e con perfetta simmetria, percorsi da file di carrozze, di “omnibus” e di tranvie a cavalli, fiancheggiati da palazzi con splendide botteghe che esponevano in vetrina prodotti del mondo intero. Quando poi Passepartout giunse all’International Hôtel, ebbe l’impressione di non avere mai lasciato l’Inghilterra. Il pianterreno del lussuoso albergo era occupato da un immenso «bar», una specie di “buffet” aperto gratis ad ogni passante, da dove ognuno poteva gustare carne affumicata, zuppa con le ostriche, biscotti e finissimi formaggi di Chester. Tutt’al più il consumatore pagava la bibita o la birra che avesse piacere di farsi servire al “bar”. «Ecco un’usanza simpaticissima, e che è un vero peccato non si generalizzi anche fuori d’America!», pensò il giovanotto; ma tenne per sé la considerazione.
Al ristorante dell’albergo il signor Fogg e la sua giovane compagna consumarono uno spuntino in piatti minuscoli, serviti da camerieri negri dal largo sorriso e dal volto del più bel color cioccolato, che spiccava sullo sparato bianco.
Quando il “gentleman”, accompagnato dalla signora Auda, lasciò l’albergo per recarsi al Consolato a far vidimare il passaporto, trovò ad attenderlo il suo servo il quale gli chiese se, prima di mettersi in viaggio sulla ferrovia del Pacifico, non sarebbe stato prudente fare acquisto di qualche dozzina di carabine Enfield e revolver Colt.
Ho sentito parlare - disse Passepartout, - di Indiani Sioux che assaltano i treni. E non vorrei...
Credo che la precauzione sia inutile - rispose, senza impressionarsi, Phileas Fogg. - In ogni modo vi lascio libero di provvedere come credete.
E il “gentleman” si affrettò per giungere in tempo a sbrigare la sua importante pratica. Ma aveva fatto appena duecento passi che s’imbatté in Fix.
Oh, guarda che caso, che casissimo! Come? C’incontriamo a San Francisco?! Ma allora abbiamo compiuto insieme anche la traversata del Pacifico! E non ci siamo veduti a bordo?... Mi spiace. Ad ogni modo, signor Fogg, sono onorato, onoratissimo di rivedervi. Vi pare? Vi debbo tanto! E se gli affari, come penso, mi richiameranno in Europa, sarei proprio oltremodo felice di proseguire il viaggio in così piacevole compagnia!
Il signor Fogg rispose compitamente che l’onore sarebbe stato suo. E Fix, a cui premeva non perderlo di vista, gli chiese il permesso di visitare intanto con lui quella curiosa città di San Francisco. Fogg glielo accordò immediatamente.
Ed ecco perciò la signora Auda, Phileas Fogg e Fix in giro per le strade. Si trovarono ben presto in Montgomery Street, in cui l’afflusso della folla era enorme. Sui marciapiedi, in mezzo alla carreggiata, sulle rotaie dei tram, nonostante il passaggio incessante di carrozze e di “omnibus”, sulla soglia delle “boutiques”, alle finestre di tutte le case, e perfino sopra i tetti, vi era una folla senza numero. Degli “uomini-sandwich” circolavano in mezzo ai gruppi di pedoni. Bandiere e stendardi fluttuavano nel vento. Grida echeggiavano da ogni dove.
Urrà per Kamerfield!
Urrà per Mandiboy!
Suppongo che si tratti di una competizione, di un “meeting” come lo chiamano qui, per l’elezione di qualche alto funzionario militare o civile, o addirittura di un membro del Congresso, a giudicare dall’animazione che si vede - disse Fix.
In ogni modo, - osservò Phileas Fogg, - forse faremo bene a non mischiarci troppo a questa calca: i pugni, anche se sono politici, non cessano di essere pugni.
Fix non poté fare a meno di sorridere a quella considerazione, mentre, seguendo la signora Auda e Phileas Fogg, saliva con essi a prendere posto sull’ultimo ripiano di una gradinata che metteva ad un terrazzo prospiciente la Montgomery Street.
Di fronte, sull’altro lato del viale, tra la mostra di un mercante di carbone e quella d’un negoziante di petrolio, era sistemata su una specie di palco una larga scrivania con due urne, verso cui sembravano convergere le fluttuanti correnti della folla. Là intorno l’agitazione raggiungeva il parossismo. Tutte le mani erano in aria; talune rigidamente chiuse a pugno si alzavano e si abbassavano con rapidità e con frequenza, mentre intorno scoppiavano grida, e il numero dei cappelli neri a cilindro diminuiva a vista d’occhio. Per la maggior parte quei copricapo sembravano aver perduto la loro altezza normale.
E’ evidentemente una competizione, - disse Fix, - e la questione che l’ha provocata deve essere palpitante. Non mi meraviglierei che si tratti ancora della questione dell’«Alabama», benché essa debba ormai essere risolta.
Forse - rispose semplicemente il signor Fogg.
In ogni caso, - riprese Fix, - ci sono due nobili campioni l’uno di fronte all’altro, l’onorevole Kamerfield e l’onorevole Mandiboy. La signora Auda, da parte sua, standosene stretta al braccio di Phileas Fogg, guardava con meraviglia tutta quella scena tumultuosa. Una specie di flusso e riflusso agitava ora la marea di teste su cui le bandiere ondeggiavano, sparivano a tratti per ricomparire poi fatte a brandelli.
Ad un certo momento, mentre Fix stava per chiedere ad un vicino quale fosse la precisa ragione di tanta effervescenza popolare, un movimento più vivo si determinò. Gli «urrà» conditi di improperi raddoppiarono.
L’asta delle bandiere si trasformò in arma offensiva. Non più mani:
pugni dappertutto. Dall’alto delle carrozze e degli “omnibus” bloccati era uno scambio di insulti e un lancio di corpi contundenti: stivali e scarpe descrivevano in aria traiettorie molto tese. Anche qualche colpo di revolver si frammischiò all’urlio assordante che pareva la voce del mare in tempesta.
La calca si fece più sotto alla scalinata e rifluì sui primi gradini. Uno dei due partiti evidentemente era stato respinto, senza che peraltro ai semplici spettatori fosse dato capire se il vantaggio rimanesse a Mandiboy o a Kamerfield.
Fix, a cui premeva sommamente l’incolumità del suo uomo, disse con decisione:
E’ consigliabile non rimanere qui, signor Fogg. Se in tutta questa faccenda c’entra per caso l’Inghilterra e se noi veniamo riconosciuti, ci troveremo molto compromessi in un’anticipata baruffa.
Un cittadino inglese...
Phileas Fogg non riuscì a terminare la frase. Alle sue spalle, dal terrazzo in capo alla gradinata, si sentiva avanzare un clamore spaventoso.
Hip! hip! urrà!!! per Mandiboy!
Era una turba di elettori che giungeva alla riscossa investendo di fianco i partigiani di Kamerfield.
Il signor Fogg, la signora Auda e Fix si trovarono presi tra due fuochi. Troppo tardi per sfuggire a quel torrente d’uomini armati di mazze e bastoni a molla. Il “gentleman” e il “detective” fecero ogni sforzo per riparare la giovane donna, e furono malamente urtati. Phileas Fogg si difendeva bene a gomitate, e anche a pugni quando ciò si rendeva necessario. Ma troppa era la calca dei violenti che si scagliavano a colpire alla cieca, per puro spirito di rissa. Un gigante dalla barba color carota, il quale pareva il capo della turba, alzò il formidabile pugno sul capo del signor Fogg. E lo avrebbe conciato in malo modo se Fix, per devozione, non avesse ricevuto il pugno in vece sua. Un’enorme protuberanza si sviluppò immediatamente sotto il cappello di seta del “detective”, trasformato in semplice berretta.
- «Yankee»! (1) - sibilò il signor Fogg, lanciando al suo avversario uno sguardo di profondo disprezzo.
- «Englishman»! (2) - rispose l’altro nello stesso tono.
Ci rivedremo!
Quando vi piacerà. Il vostro nome?
Sir Phileas Fogg. Il vostro?
Colonnello Stampw Proctor.
La marea passò oltre. Fix fu gettato a terra, e si rialzò con gli abiti laceri, ma senza gravi ammaccature. Il suo soprabito da viaggio si era diviso in due parti disuguali, e i suoi pantaloni somigliavano a quelli di certi indiani, i quali per una questione di moda, non li indossano se prima non ne hanno tagliato via il fondo. Quel che importava, era che la signora Auda era stata risparmiata ed anche il signor Fogg aveva evitato le conseguenze del formidabile pugno a lui riservato.
Grazie - disse il “gentleman” a Fix, appena furono fuori della ressa.
Oh, non c’è di che! Ma ora venite.
Dove?
Andiamo da un negoziante di abiti. Anche voi ne avete bisogno.
Gli abiti del signor Fogg erano invero press’a poco nelle condizioni di quelli del “detective”.
Si direbbe che ci siamo battuti per conto degli onorevoli Kamerfield e Mandiboy! - commentò ancora Fix, sorridendo. Mezz’ora dopo, convenientemente abbigliati e riforniti di cappello, i due inglesi con la signora Auda ritornavano all’International Hôtel. Passepartout era là ad attendere il suo padrone, armato d’una mezza dozzina di revolver a sei colpi. Quando scorse Fix in compagnia del signor Fogg si rabbuiò in volto. Ma dopo che la signora Auda ebbe narrato in poche parole quanto era accaduto, il giovanotto tornò sereno.
«Evidentemente Fix non è più un nemico: è un alleato», pensò soddisfattissimo. «Ha mantenuto la parola!». Terminato il pranzo, venne la carrozza che doveva condurre alla stazione i viaggiatori e i loro bagagli. Al momento di salire sulla vettura il signor Fogg domandò a Fix:
Non avete più riveduto per caso quel colonnello Proctor?
No - rispose Fix.
Io ritornerò apposta in America per ritrovarlo. Non sarebbe conveniente che un cittadino inglese si lasciasse trattare a quel modo.
Fix sorrise senza saper che aggiungere. Forse non prese nemmeno sul serio la cosa: non sapeva che Fogg era di quella razza di Inglesi i quali, mentre nel loro paese non tollerano il minimo duello, sanno però battersi all’estero quando si tratti di sostenere il prestigio della loro nazionalità.
Alle sei meno un quarto i viaggiatori erano in stazione e trovarono il treno pronto alla partenza. Al momento di salirvi sopra, il signor Fogg fece un cenno a un addetto e gli chiese:
Scusate, c’è notizia che si siano verificati gravi incidenti oggi a San Francisco?
Oh, no, no, signore! Era un semplice “meeting” organizzato per una elezione.
L’elezione di qualche generale dell’esercito, senza dubbio.
No, signore: di un giudice di pace.
Ricevuta questa risposta, Phileas Fogg prese posto nel vagone e il treno partì a tutto vapore.
NOTE.
NOTA 1: Americano, ma detto qui in senso dispregiativo.
NOTA 2: Inglese.
26.
SI PRENDE IL TRENO ESPRESSO DELLA FERROVIA DEL PACIFICO.
«Ocean to Ocean» (1), dicono gli Americani. E con queste tre paroline caratterizzano il «grand trunk», che attraversa gli Stati Uniti d’America nella loro massima larghezza. In realtà, però, il «Pacific Rail-road» si divide in due parti distinte: «Central Pacific» tra San Francisco e Ogden e «Union Pacific» tra Ogden e Omaha. A quel punto si ricongiungono cinque linee diverse, che mettono Omaha in frequente comunicazione con New York.
New York e San Francisco sono dunque congiunte al presente da un fiotto non interrotto di metallo che misura almeno tremila settecento ottantasei miglia. Tra Omaha e il Pacifico, la ferrovia supera un territorio frequentato ancora da Indiani e selvaggi, un vasto territorio che i Mormoni hanno cominciato a colonizzare a partire dal 1845, dopo essere stati cacciati dall’Illinois. In altri tempi, nelle circostanze più favorevoli, si sarebbero impiegati non meno di sei mesi per andare da New York a San Francisco. Attualmente ci si mettono sette giorni.
Fu nel 1862 che, malgrado l’opposizione dei deputati del Sud, che volevano una linea più meridionale, il tracciato della linea venne ristretto tra il quarantunesimo e il quarantaduesimo parallelo. Il presidente Lincoln la cui scomparsa ha lasciato tanto rimpianto, fissò egli stesso, nello Stato del Nebraska, nella città di Omaha, il capolinea del nuovo reticolato. I lavori furono immediatamente iniziati e proseguiti con quell’attivismo americano che è tutt’altro che burocratico e polveroso. La rapidità della posa in azione non doveva nuocere affatto alla buona esecuzione dei lavori. Nella prateria si avanzava al ritmo di un miglio e mezzo al giorno. Una locomotiva, scorrendo sulle rotaie collocate nella vigilia, trasportava le rotaie dell’indomani e correva sulla loro superficie mano mano che venivano sistemate.
Il Pacific Rail-road lancia numerosi rami lungo il suo percorso verso gli Stati dello Iowa, del Kansas, del Colorado e dell’Oregon. Lasciando Omaha, la ferrovia del Pacifico costeggia la riva sinistra del Platte-river fino all’imboccatura dei tronchi del nord oppure del sud, attraversa i campi di Laramie e le montagne Wahsatch, aggira il Lago Salato, giunge a Salt-Lake City, la capitale dei Mormoni, sprofonda nella vallata della Tuilla, procede lungo il deserto americano, i monti di Cedar e Humboldt, l’Humboldt River, la Sierra Nevada e ridiscende attraverso Sacramento fino al Pacifico, senza che questo tracciato superi una pendenza di centododici piedi per mille, persino quando attraversa le Montagne Rocciose. Tale era questa lunga arteria che i treni percorrevano in sette giorni e che doveva permettere all’onorevole Phileas Fogg - o almeno lui lo sperava - di prendere il giorno 11 a New York il piroscafo per Liverpool.
Il vagone occupato da Phileas Fogg era una specie di lungo “omnibus” che poggiava su due treni formati da quattro ruote ciascuno, la cui mobilità consentiva di affrontare delle curve di piccolo raggio. All’interno, non vi erano degli scompartimenti: v’erano due file di sedili, disposti su ogni lato, perpendicolarmente all’asse, e tra le quali era riservato un passaggio che conduceva agli stanzini di “toilette” e per altre necessità, di cui ogni vagone è provvisto. Per tutto il treno quant’era lungo le vetture erano in comunicazione le une con le altre per mezzo di passatoi, e i viaggiatori potevano circolare da un’estremità all’altra del convoglio, che metteva a loro disposizione dei vagoni-salotto, dei vagoni-belvedere, dei vagoni-ristorante e dei vagoni-caffè. Mancavano solo dei vagoni-teatro. Ma si può essere sicuri che un giorno vi saranno anch’essi. Sui passatoi circolavano in continuazione dei venditori di libri e di giornali, che offrivano la loro merce, e dei venditori di liquori, di commestibili, di sigari, che non mancavano affatto di acquirenti. I viaggiatori erano partiti dalla stazione di Oakland alle sei della sera. Era già calata la notte, una notte fredda, cupa, con un cielo coperto di nubi che minacciavano di precipitare in fiocchi di neve. Il treno non procedeva con una grande rapidità. Tenendo conto delle fermate, non percorreva più di venti miglia all’ora, velocità tuttavia che gli doveva consentire di valicare gli Stati Uniti nel tempo regolamentare.
Si parlava poco nel vagone. D’altronde il sonno avrebbe ben presto invaso i viaggiatori. Passepartout si trovava proprio accanto all’ispettore di polizia, ma non gli rivolgeva la parola. Dopo i recenti avvenimenti, i loro rapporti si erano notevolmente raffreddati. Non v’era più alcuna simpatia né alcuna intimità. Fix in realtà non aveva cambiato affatto il suo modo di fare, Passepartout si manteneva invece in un estremo riserbo, pronto a tentare di strangolare l’ex-amico al primo dubbio che avesse avuto su di lui. Un’ora dopo la partenza del treno, cominciò a cadere la neve, una neve fine che, davvero fortunatamente, non poteva ritardare la marcia del convoglio. Attraverso i finestrini si poteva scorgere solo un’immensa cappa bianca, a confronto della quale il vapore della locomotiva, che si lanciava in grandi volute verso il cielo, sembrava diventato grigiastro.
Alle otto, entrò nel vagone uno “steward” che annunciò ai viaggiatori che era suonata l’ora di andare a riposare. Quel vagone era uno «sleeping-car» che in pochi minuti venne trasformato in dormitorio. Gli schienali dei sedili vennero ripiegati, dei lettini accuratamente impacchettati vennero tirati fuori con un ingegnoso sistema, in qualche istante vennero improvvisate delle cabine e ciascun viaggiatore ebbe ben presto a sua disposizione un letto confortevole che spessi tendaggi difendevano da ogni sguardo indiscreto. Le lenzuola erano candide e i guanciali molto morbidi. Restava una sola cosa da fare: mettersi a letto e addormentarsi, e fu quello che fece ciascuno, come se si fosse trovato nella confortevole cabina di un piroscafo, mentre il treno correva a tutto vapore attraverso lo Stato della California.
In questa porzione del territorio che si estende tra San Francisco e Sacramento, il terreno è poco accidentato. Questa tratta ferroviaria, che ha il nome di «Central Pacific Road» prendeva anzitutto Sacramento come punto di partenza e s’avanzava verso est per incrociarsi con quella che veniva da Omaha. Da San Francisco alla capitale della California, la linea correva direttamente in direzione di nord-est, costeggiando l’American River, che si getta nella baia di San Pablo. Le centoventi miglia comprese tra queste due importanti città vennero superate in sei ore, e verso mezzanotte, mentre i viaggiatori erano immersi nel loro primo sonno, il treno superò Sacramento. Essi non videro perciò nulla di questa città considerevole, sede della legislatura dello Stato della California, né i suoi bei moli, né le sue ampie strade né i suoi splendidi hôtels, né le sue “squares” (piazze), né i suoi templi.
Uscendo da Sacramento, il treno, dopo avere superato le stazioni di Junction, di Roclin, di Auburn e di Colfax, s’incuneò nel massiccio della Sierra Nevada. Erano le sette del mattino, quando il treno attraversò la stazione di Cisco. Un’ora più tardi il dormitorio era ridiventato un vagone normale e i viaggiatori potevano intravedere attraverso i vetri il pittoresco panorama di quel paese montagnoso. Il tracciato del treno obbediva ai capricci della Sierra, qui sui ripidi pendii montagnosi e là sospeso al di sopra dei precipizi, evitando angoli troppo acuti con delle audaci curvature, lanciandosi in gole strettissime che pareva fossero prive di sbocco. La locomotiva, sfavillante come un reliquiario, con quel grande fanale che lanciava dei lampi fulvi, la campanella d’argento, il «cacciavacche» che si protendeva in avanti come uno sperone, mescolava i suoi sbuffi e i suoi muggiti a quelli dei torrenti e delle cascate, e mescolava il suo fumo al nero intreccio dei rami degli abeti. Sul percorso ci s’imbatteva in pochissimi tunnel e ponti. La linea ferroviaria aggirava il fianco delle montagne, non cercando nella linea diritta il tragitto più breve tra un punto e l’altro, e non facendo violenza alla natura.
Verso le nove, attraverso la valle di Carson, il treno penetrava nello Stato del Nevada, proseguendo sempre la sua corsa in direzione nord-est. A mezzogiorno, lasciava Reno, dove i viaggiatori si arrestarono una ventina di minuti per mangiare.
Da quel punto in poi, la ferrovia, costeggiando l’Humboldt River, si diresse per alcune miglia verso nord, seguendo questo corso d’acqua. Poi piegò verso est, e non doveva più perdere di vista questo corso d’acqua prima di aver raggiunto gli Humboldt Ranges, che ne costituiscono la sorgente, quasi all’estremità orientale dello Stato del Nevada.
Dopo aver mangiato, il signor Fogg, la signora Auda e i loro compagni di viaggio ripresero posto nel vagone. Phileas Fogg, la giovane donna, Fix e Passepartout, comodamente seduti, ammiravano il paesaggio che scorreva dinanzi ai loro occhi: vaste praterie, montagne che si profilavano all’orizzonte, “creeks” che facevano rotolare le loro acque spumeggianti. Talvolta un grande gregge di bisonti che si ammassava all’orizzonte dava l’idea di una diga mobile. Questi innumerevoli eserciti di ruminanti oppongono spesso un ostacolo insormontabile al passaggio dei treni. E’ stato possibile scorgere migliaia di questi animali sfilare per ore, a ranghi strettissimi, attraverso il binario. In questo caso la locomotiva è costretta ad arrestarsi e attendere che la strada sia ridiventata libera. Fu proprio questo che avvenne per i nostri viaggiatori. Verso le tre del pomeriggio, la ferrovia si trovò sbarrata da una mandria di almeno dieci-dodicimila capi. La locomotiva, dopo avere ridotto la velocità, tentò di incuneare il suo sperone nel fianco dell’interminabile colonna, ma dovette arrendersi di fronte all’impenetrabilità di quella massa.
Si vedevano quei ruminanti - quei bufali, come li chiamano impropriamente gli Americani - procedere col loro passo tranquillo e lanciando di tanto in tanto dei terribili muggiti. Avevano una corporatura superiore a quella dei tori europei, con zampe e coda piuttosto corte, il garrese ascendente che formava una gobba di muscoli, le corna divaricate alla base, la testa, il collo e le spalle coperte da una criniera dal lungo pelo. Quando i bisonti hanno scelto una direzione, nulla potrebbe né ostacolare né modificare la loro marcia. E’ un torrente di carne vivente che nessuna diga sarebbe in grado di contenere.
I viaggiatori, dispersi sui passatoi, ammiravano questo curioso spettacolo. Tuttavia proprio colui che avrebbe dovuto essere il più preoccupato di tutti, Phileas Fogg, se n’era rimasto al suo posto ed attendeva con calma filosofica che fosse piaciuto ai bufali liberargli il passaggio. Passepartout era furioso per il ritardo che gli causava questo ammasso di animali. Avrebbe voluto scaricare contro di loro il suo arsenale di revolver.
Che razza di paese! - gridò. - Dei semplici buoi che arrestano dei treni e che se ne vanno a ritmo processionale, senza proprio darsi pensiero del fatto che stanno ostacolando la circolazione! Perbacco! Vorrei proprio sapere se il signor Fogg avesse previsto questo contrattempo nel suo programma! E quel macchinista che non è capace di lanciare la sua locomotiva attraverso questo bestiame ingombrante! Il macchinista non aveva tentato affatto di rovesciare l’ostacolo, e aveva agito con prudenza. Con lo sperone della locomotiva avrebbe certamente fatto un macello dei bufali più vicini; ma, pur con tutta la sua forza d’urto, la locomotiva sarebbe stata fermata ben presto, ci sarebbe stato inevitabilmente un deragliamento e così il treno sarebbe rimasto bloccato.
La cosa migliore era perciò di attendere con pazienza, salvo poi a riguadagnare il tempo perduto con una accelerazione della marcia del treno. La sfilata dei bisonti durò ben tre ore, e la strada ridivenne libera solo mentre stava ormai calando la notte. Solo a quel punto attraversavano le rotaie le retroguardie della mandria, le cui avanguardie sparivano laggiù, all’orizzonte meridionale. Erano dunque le otto, quando il treno superava i passi degli Humboldt Ranges, e le nove e mezzo quando penetrava nel territorio dell’Utah, la regione del grande Lago Salato, il curioso paese dei Mormoni.
NOTE.
NOTA 1:«Dall’Oceano all’Oceano».
27.
PASSEPARTOUT SEGUE, ALLA VELOCITA’ DI VENTI MIGLIA ALL’ORA, UN CORSO DI STORIA MORMONE.
Durante la notte dal 5 al 6 dicembre, il treno corse verso sud-est per una cinquantina di miglia; poi risalì di altrettante verso il nord-est, avvicinandosi al grande Lago Salato. Verso le nove del mattino, Passepartout andò a prendere un po’ d’aria sui passatoi. Il tempo era freddo, il cielo era grigio, ma non nevicava più. Il disco del sole, reso più ampio dalla bruma, appariva come un’enorme moneta d’oro, e Passepartout si divertiva a calcolarne il valore in lire sterline, quando fu distratto da questo utilissimo lavoro dalla comparsa di un personaggio piuttosto strano. Questo individuo, che era salito sul treno alla stazione di Elko, era un uomo dalla corporatura robusta, molto scuro in faccia, con un paio di mustacchi neri, pantaloni neri, cravatta immacolata, guanti di pelle di cane. Lo si sarebbe detto un pastore. Andava da un’estremità all’altra del treno incollando sulla portiera di ogni vagone con della cera per sigilli un foglio di carta scritto a mano. Passepartout si accostò e lesse su uno di quei fogli che l’onorevole “elder” (anziano) William Hitch, missionario mormone, approfittando della sua presenza sul treno numero 48, dalle undici a mezzogiorno, avrebbe tenuto nella vettura 117 una conferenza sul mormonismo a cui erano invitati tutti i gentiluomini preoccupati di istruirsi su quanto riguardava i misteri della religione dei «Santi degli ultimi giorni». «Certo che ci vado!», disse tra sé Passepartout, che del mormonismo conosceva unicamente le usanze poligamiche, base della società mormone.
La notizia si diffuse rapidamente nel treno che trasportava un centinaio di passeggeri. Una trentina di essi, allettati dall’attrattiva della conferenza, alle undici occupavano le panchette della vettura numero 117. Tra i primi nella fila figurava Passepartout, mentre né il suo padrone né Fix avevano ritenuto di doversi disturbare.
All’ora stabilita, l’”elder” William Hitch si alzò in piedi e con una voce piuttosto irritata, come se lo avessero appena contraddetto, dichiarò:
Io vi dichiaro, sì, che Joe Smyth è un martire, che suo fratello Hyram è un martire, e che le persecuzioni del Governo dell’Unione contro i profeti stanno per fare un martire anche di Brigham Young! Chi di voi oserebbe sostenere il contrario? Nessuno si azzardò a contraddire il missionario, la cui esaltazione contrastava con la sua fisionomia calma per natura. Ma senza dubbio la sua collera trovava una spiegazione nel fatto che il mormonismo veniva attualmente sottoposto a una prova molto severa. In realtà, il Governo degli Stati Uniti era riuscito appena allora, e non senza fatica, a sottomettere quei fanatici indipendenti. Si era impadronito dell’Utah, e l’aveva sottoposto alle leggi dell’Unione, dopo avere imprigionato Brigham Young, accusato di ribellione e di poligamia. Da quel momento in poi, i discepoli del profeta avevano raddoppiato i loro sforzi e, mentre ne attendevano gli atti, resistevano con la parola alle pretese del Congresso.
Come si vede, l’”elder” William Hitch faceva del proselitismo persino sul treno.
Allora, egli si mise a raccontare, variando la narrazione con scoppi di voce e la violenza dei gesti, la storia del mormonismo a partire dall’epoca biblica: «Come, in Israele, un profeta mormone della tribù di Giuseppe pubblicò gli annali della nuova religione e li lasciò in eredità a suo figlio Morom; come, molti secoli più tardi, una traduzione di questo prezioso libro, scritto in caratteri egiziani, venne fatta da Joseph Smyth junior, colono nello Stato del Vermont, che si rivelò come profeta mistico nel 1825; come, infine, un messaggero celeste gli apparve in una foresta luminosa e gli consegnò gli annali del Signore».
A quel punto, alcuni uditori, poco interessati dal racconto retrospettivo del missionario, abbandonarono il vagone; ma William Hitch, proseguendo, raccontò «come Smyth junior, riunendo suo padre, i suoi due fratelli e alcuni discepoli fondò la religione dei Santi degli ultimi giorni, religione che, adottata non solamente in America, ma in Inghilterra, in Scandinavia, in Germania, conta tra i suoi fedeli degli artigiani e anche un certo numero di persone che esercitano professioni liberali; come una colonia sia stata fondata nell’Ohio; come un tempio sia stato edificato con una spesa di duecentomila dollari e una città sia stata costruita a Kirland; come Smyth divenne un coraggioso banchiere e ricevette da un semplice presentatore di mummie un papiro contenente un racconto scritto di pugno da Abramo e da altri celebri egiziani». Poiché questa narrazione diventava un po’ troppo lunga, i ranghi degli uditori si assottigliarono ulteriormente, e il pubblico rimasto era costituito di appena una ventina di persone. Tuttavia l’”elder”, senza inquietarsi di questa diserzione, raccontò con ricchezza di particolari «come fu che Joe Smyth fece bancarotta nel 1837; come fu che i suoi azionisti rovinati lo spalmarono di catrame e lo fecero rotolare sulle piume; come fu che lo si ritrovò più onorabile e più onorato che mai, alcuni anni dopo a Independance, nel Missouri, alla testa di una fiorente comunità costituita da non meno di tremila discepoli, e che allora, perseguitato dall’odio dei gentili, era dovuto fuggire nel Far West americano». Appena dieci ascoltatori erano ancora là, e tra di essi vi era il buon Passepartout, che ascoltava con le orecchie tese. Fu così che egli apprese «come, dopo lunghe persecuzioni, Smyth riapparve nell’Illinois e nel 1839 sulle rive del Mississippi fondò Nauvoo-la-Belle, la cui popolazione crebbe fino a venticinquemila anime; come Smyth ne divenne il sindaco, il giudice supremo e il generale in capo; come, nel 1843, egli pose la sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti, e come infine, attirato in un’imboscata a Cartagine, venne gettato in prigione e assassinato da una banda di uomini mascherati». A questo punto Passepartout era rimasto assolutamente da solo nel vagone e l’”elder”, mirandolo in faccia e affascinandolo con le sue parole, gli ricordò che due anni dopo l’assassinio di Smyth, il suo successore, il profeta ispirato Brigham Young, abbandonando Nauvoo, era venuto a stabilirsi sulle rive del Lago Salato e che là, su quel meraviglioso territorio, nel mezzo di quella fertile contrada, sulla rotta degli emigranti che attraversavano lo Utah per recarsi in California, la nuova colonia, grazie ai principi poligamici del mormonismo, aveva preso uno sviluppo enorme.
Ecco, - aggiunse William Hitch, - ecco perché la gelosia del Congresso si è eccitata contro di noi! ecco perché i soldati dell’Unione hanno calpestato il suolo dello Utah! perché il nostro capo, il profeta Brigham Young, è stato imprigionato con spregio di qualsiasi forma di giustizia! Cederemo noi alla forza? Mai! Cacciati dal Vermont, cacciati dall’Illinois, cacciati dall’Ohio, cacciati dal Missouri, cacciati dallo Utah, noi ritroveremo ancora qualche territorio indipendente dove pianteremo la nostra tenda... E voi, mio fedele, - aggiunse l’”elder” fissando sguardi corruschi sul suo unico uditore, pianterete voi la vostra tenda all’ombra della nostra bandiera?
No - rispose coraggiosamente Passepartout, che scappò via a sua volta, lasciando quell’energumeno a predicare nel deserto. Durante tutta questa conferenza, però, il treno aveva marciato con rapidità e verso mezzogiorno e mezzo arrivava alla punta nord-occidentale del grande Lago Salato. Da quel punto si poteva abbracciare su un vasto perimetro l’aspetto di questo mare interno, che porta pure il nome di Mar Morto e nel quale si getta un Giordano d’America. Lago ammirevole, inquadrato da belle rocce selvagge, a larghi strati, incrostate di sale bianco, superbo specchio d’acqua che in altri tempi copriva uno spazio ben maggiore; ma con il passare del tempo le sue rive, crescendo a poco a poco, ne hanno ridotto la superficie, accrescendone tuttavia la profondità. Il Lago Salato, lungo circa settanta miglia e largo trentacinque, è situato a tremilaottocento piedi al di sopra del livello del mare. Molto diversamente dal lago Asphaltite, la cui depressione misura milleduecento piedi al di sotto, la sua salsedine è considerevole e le sue acque mantengono in soluzione il quarto del loro peso di materia solida. Il loro peso specifico è di 1170, mentre quello dell’acqua distillata è di 1000. I pesci perciò non ci possono vivere. Quelli che vi vengono gettati dal Giordano, dal Weber e da altri corsi d’acqua vi muoiono molto presto; non è vero però che le sue acque siano così dense da poter sostenere un uomo.
Intorno al lago, la campagna è mirabilmente coltivata, poiché i Mormoni se ne intendono di lavori agricoli: ci sono dei “ranchos” e dei “corrals” per gli animali domestici, dei campi di grano, di mais, di sorgo (o saggina), praterie lussureggianti, da ogni parte vi sono siepi di rosai selvatici, dei cespugli di acacia e di euforbia: tale sarebbe stato il panorama sei mesi più tardi, ma in quel momento il suolo era sparito sotto una sottile coperta di neve che lo impolverava leggermente.
Alle due, i viaggiatori scendevano alla stazione di Ogden. Il treno sarebbe ripartito solo alle sei e perciò il signor Fogg, la signora Auda e i loro due compagni avevano il tempo per recarsi alla Città dei Santi mediante la breve diramazione che partiva appunto da Ogden. Due ore sarebbero state sufficienti per visitare quella città caratteristicamente americana e, in quanto tale, costruita sul modello di tutte le città dell’Unione, vaste scacchiere dalle lunghe fredde linee che provocano «la lugubre tristezza degli angoli retti», per dirla con Victor Hugo. Il fondatore della Città dei Santi non poteva sfuggire a quel bisogno di simmetria che contraddistingue gli Anglosassoni. In questo singolare paese, in cui gli uomini non sono certamente all’altezza delle istituzioni, tutto si fa «ad angoli retti»: le città, le case e anche le stupidaggini. Alle tre, i viaggiatori passeggiavano dunque nelle vie della città costruita tra la riva del Giordano e le prime ondulazioni dei monti Wahsatch. Non notarono alcuna chiesa o quasi, ma osservarono come dei monumenti la casa del profeta, la Cort-house e l’arsenale; poi, delle case costruite in laterizio bluastro con verande e gallerie, circondate da giardini e attorniate da acacie, palmizi e carrubi. La città era cinta da un muro di argilla e pietre edificato nel 1853. Nella via principale, in cui si teneva il mercato, erano stati costruiti alcuni alberghi ornati da padiglioni, e tra gli altri la Salt-Lake-House.
Il signor Fogg e i suoi compagni non ebbero l’impressione che la città fosse densamente popolata.
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