Quantunque si sentisse disposto a tentare di  tutto  pur  di  passare il Medicine,  quel mezzo gli pareva un po’ troppo... americano.

«Sì»,  pensava.  «Ma ci sarebbe un’altra cosa molto  più  semplice  da fare. E questa gente non se la sogna neppure».

Signore,  -  disse  a uno dei viaggiatori,  - il mezzo proposto dal fuochista mi sembra un po’ troppo azzardato. Si potrebbe invece...

Ottanta probabilità! - ripeté il viaggiatore, voltandogli le spalle.

So bene,  ma...  - osò ancora Passepartout,  e si rivolse a un altro “gentleman”. - Non pare a lei che una semplice riflessione...

Non venga a parlarmi di riflessione,  è inutile!  Dal momento che il fuochista ha detto che si passerà, si passerà.

Non ne dubito. Si passerà ma sarebbe forse più prudente...

Che prudente d’Egitto! - scattò Proctor, il quale aveva colto a caso le parole del francese. - A grande velocità, vi si dice: lo capite?! A grande velocità!

So,  capisco...  - fece ancora Passepartout a cui  nessuno  lasciava finire la sua frase.  - Eppure sarebbe,  non dico più prudente,  se il termine non vi piace, ma per lo meno più naturale...

Vada a contarla ad altri,  col suo naturale!  - gli  si  gridava  da tutte le parti.

Il poverino non sapeva più da chi farsi ascoltare.

Avete forse paura? - gli domandò il colonnello Proctor.

Passepartout ritrovò tutti i suoi spiriti.

Io,  paura?! Ebbene: farò vedere a questi signori se un francese non sa essere tanto americano quanto costoro!

In vettura! in vettura!! - gridava il conducente.

Sì,  in vettura!  - fece eco Passepartout.  - E subito!  Ma  crederò sempre  che  sarebbe  stato  assai  più naturale farci prima passare a piedi su questo ponte noi viaggiatori, e il treno dopo.  Ma nessuno udì tale saggia riflessione: e nessuno  del  resto  avrebbe voluto riconoscere la logicità.

I  viaggiatori erano tutti ai propri posti.  Passepartout,  senza aver detto nulla di quanto era accaduto,  sedeva vicino a Fix  nel  vagone, dove la silenziosa partita di “whist” continuava.  La locomotiva fischiò. Il conducente fece dare macchina indietro e per circa un miglio il convoglio rinculò, come un saltatore che si prepara a prendere la rincorsa.

Poi,  ad  un  secondo  fischio,  il  treno tornò a fare marcia avanti, accelerando sempre di più. In breve la velocità divenne spaventosa.  Non si udiva più che il  sibilo  potente  del  vapore.  Gli  stantuffi battevano  venti  colpi  al  secondo;  gli assali delle ruote fumavano nelle scatole del grasso.  Si sentiva,  per così dire,  che  tutto  il treno,  correndo a cento miglia all’ora,  non pesava più sulle rotaie: la velocità annullava la gravità.

E si passò!  Fu come un  lampo.  Non  si  vide  nulla  del  ponte.  Il convoglio saltò,  si può proprio dirlo,  da una sponda all’altra, e il conducente non riuscì a fermare la sua macchina furibonda  che  cinque miglia al di là della stazione.

Ma appena il treno ebbe varcato il baratro,  il ponte, definitivamente rovinato, si inabissò nelle rapide del Medicine Bow.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

29.

SI FA IL  RACCONTO  DI  INCIDENTI  CHE  POSSONO  CAPITARE  SOLO  SULLE FERROVIE DELL’UNIONE.

Quella  stessa  sera,  il  treno proseguì la sua corsa senza ostacoli:

superò il Forte Sauders, valicò il Passo di Cheyenne e arrivò al Passo di Evans.  A questo punto,  la ferrovia raggiungeva il punto più  alto del percorso, ossia ottomilanovantuno piedi al di sopra dell’Oceano. I viaggiatori  ormai dovevano solo scendere fino all’Atlantico su quelle pianure sconfinate, livellate dalla natura.  Là si trovava sul “grand trunk” la deviazione di Denver City, la città principale del Colorado.  Questo territorio è ricco di miniere d’oro e di  argento,  e  sono  più  di cinquantamila gli abitanti che vi hanno fissato la loro dimora.

A quel punto,  in tre  giorni  e  tre  notti  dalla  partenza  da  San Francisco erano state percorse milletrecentottantadue miglia.  Secondo ogni previsione,  quattro giorni  e  quattro  notti  sarebbero  dovuti bastare per raggiungere New York. Phileas Fogg si manteneva perciò nei margini regolamentari.

Nel  corso  della  notte  ci si lasciò a sinistra il campo Walbah.  Il Lodge Pole  Creek  correva  parallelamente  alla  linea,  seguendo  la frontiera  rettilinea  comune agli Stati dello Wyoming e del Colorado.  Alle undici,  si entrava nel Nebraska,  si passava presso Sedwick e si perveniva a Julesburgh, sul ramo meridionale del Platte River.  Era  stato  in  questa  località che si era svolta il 23 ottobre 1867, l’inaugurazione della Union Pacific Road, il cui ingegnere in capo era stato il generale J.M.  Dodge.  Là si erano arrestate le  due  potenti locomotive che rimorchiavano i nove vagoni di invitati, nel novero dei quali figurava il vice presidente Thomas C. Durant; là echeggiarono le acclamazioni; là i Sioux e i Pawnies avevano dato lo spettacolo di una guerricciola indiana; là erano stati lanciati i fuochi d’artificio, là infine era stato pubblicato,  ad opera di una stamperia portatile,  il primo numero del giornale  “Railway  Pioneer”.  Venne  celebrata  così l’inaugurazione di quella grande ferrovia, strumento di progresso e di civilizzazione, lanciata attraverso il deserto e destinata a collegare tra  loro  città e cittadine che non esistevano ancora.  Il fischietto della locomotiva,  più potente  della  lira  del  mitico  re  di  Tebe Anfione, le avrebbe ben presto suscitate dal suolo americano.  Alle   otto   del   mattino  veniva  oltrepassato  Forte  Mac-Pherson.  Trecentocinquantasette miglia  separano  questo  punto  da  Omaha.  La ferrovia  seguiva,   seguendone  la  riva  sinistra,   le  capricciose sinuosità del ramo meridionale del Platte River. Alle nove si giungeva all’importante città di North Platte,  costruita tra questi due grandi corsi d’acqua,  che si ricongiungono nei suoi paraggi, per formare poi una sola arteria,  affluente notevole,  le cui acque si confondono con quelle del Missouri, un po’ al di sopra di Omaha.  Veniva superato così il centounesimo meridiano.

Il  signor Fogg e i suoi compagni di viaggio avevano ripreso il gioco.  Nessuno di loro si lamentava della lunghezza del viaggio,  neppure  il «morto». Fix aveva cominciato col guadagnare qualche ghinea che era in procinto di perdere di nuovo, ma non si mostrava meno appassionato del signor  Fogg.  Nel  corso di quella mattinata,  la fortuna favoriva in maniera singolare questo “gentleman”.  Atouts e «onori» piovevano  con abbondanza nelle sue mani.  Ad un certo punto, dopo avere combinato un audace colpo,  si  preparava  a  giocare  picche,  quando,  dietro  la poltroncina, risuonò una voce che diceva:

Io giocherei piuttosto quadri...

Phileas Fogg, la signora Auda, Fix, alzarono ad un tempo la testa.

Il colonnello Proctor era vicino a loro.

Stamp W.  Proctor e Phileas Fogg si riconobbero a prima vista. Questi, che era stato interrotto nel punto in cui si preparava a  giocare  una carta di picche,  sospese un attimo la mossa,  per fissare negli occhi il suo avversario.

Ah,  ah!  - proseguì Proctor,  canzonatorio.  -  Siete  voi,  signor «Inglese», che volete giocare picche.

E che lo gioco - rispose freddamente Phileas Fogg, gettando un dieci di quel colore.

Proctor fece il gesto di afferrare la carta.

A  me piace invece che giochiate quadri!  - replicò con più marcata insolenza. - Voi non capite nulla di questo gioco.

Forse sarò più abile di qualcun altro.

Phileas Fogg si era alzato e continuava a fissare il colonnello.

Assumendo un atteggiamento di sfida, il rozzo personaggio ribatté:

Dipende soltanto da voi provarvici, figlio di John Bull!

La signora Auda era diventata pallida.  Afferrò il braccio di  Phileas Fogg, il quale la respinse dolcemente.

Scattando  ad un tempo,  Fix e Passepartout si erano interposti fra il “gentleman” e l’americano.  Questi si trovò faccia  a  faccia  con  il “detective”.

Voi signore,  dimenticate che i conti avete da regolarli con me!  - proferì Fix,  energico.  - Sono io  quegli  che  voi  avete  non  solo ingiuriato ma percosso!

Signor Fix, - disse Phileas Fogg, - scusate, ma la faccenda riguarda me solo.  Pretendendo che io dovessi giocare quadri,  il colonnello mi ha fatto una nuova ingiuria. E me ne darà soddisfazione.

Quando vorrete e dove vorrete - rispose Stamp W.  Proctor  con  voce ferma.  - Vi lascio il vantaggio di scegliere l’arma con cui preferite battervi.

La signora Auda fece ogni sforzo per trattenere il signor Fogg, mentre Fix cercava di tornare a interporsi fra il “gentleman” e  l’americano.  Più  impetuoso  di  tutti,  Passepartout  si  scagliò  addirittura  su quest’ultimo, lo ghermì alla vita,  e voleva gettarlo dallo sportello.  Phileas  Fogg  lo  fermò  con  un gesto e uno sguardo imperioso.  Poi, seguito da Proctor, uscì sul passatoio.

Signore,  -  disse  il  “gentleman”  al  suo  avversario  appena  si trovarono soli, - io ho molta fretta di giungere in Europa. Un ritardo qualunque pregiudicherebbe i miei interessi.

E che me ne importa? - rispose il colonnello, provocante.

Phileas Fogg non perdette la calma.

Signore,  -  ripigliò,  -  dopo il nostro incontro a San Francisco, avevo stabilito di venire a ritrovarvi in America  non  appena  avessi sbrigato gli affari che mi richiamano nel continente europeo.

Davvero?!

Volete darmi perciò appuntamento fra sei mesi?

Perché non fra sei anni?

Io  dico  fra sei mesi - sottolineò calmo il signor Fogg.  - E sarò puntuale all’appuntamento, ve l’assicuro.  Proctor rise sguaiatamente.

Scappatoie, signore mio! O ci battiamo subito, o mai più.

Sia per subito - rispose il “gentleman”. - Andate a New York?

No.

A Chicago?

No.

A Omaha?

Poco ha da importarvi dove vado. Conoscete la città di Plum Creek?

Non la conosco.

E’ la prossima stazione.  Il treno vi giungerà fra un’ora  e  vi  si fermerà  circa  dieci  minuti.  In  dieci  minuti si possono scambiare alcuni colpi di pistola.

Va bene - concluse Phileas Fogg. - Mi fermerò a Plum Creek.

Io  credo  anzi  che  ci  rimarrete  -  aggiunse  l’americano   con un’insolenza inaudita.

Chi sa, signore!

Phileas  Fogg  senza alterarsi,  dopo questa risposta lasciò Proctor e rientrò nel suo vagone freddo come al solito.  Il “gentleman” incominciò col rassicurare la signora Auda.

I fanfaroni non sono mai  da  temersi  -  disse.  -  State  più  che tranquilla, signora.

Pregò poi Fix di fargli da «padrino» nel duello che doveva aver luogo.  Fix  non  poté  rifiutarsi.  Infine,  Phileas  Fogg riprese la partita interrotta, giocando picche con perfetta calma.  Alle undici il fischio della locomotiva annunciò  l’avvicinarsi  della stazioncina di Plum Creek.  Il signor Fogg si alzò e seguito da Fix si diresse al passatoio.  Passepartout veniva dietro portando due  grosse pistole.

Pallida  come una morta,  la signora Auda era rimasta al proprio posto nel vagone.

La porta dell’altro vagone si spalancò nel momento in cui Phileas Fogg metteva piede sul passatoio.  Proctor comparve seguito anch’egli da un testimone, uno «yankee» della sua tempra.  Gli avversari,  senza scambiare nemmeno uno sguardo, si avvicinarono a tempo allo sportello per scendere dal convoglio che stava  fermandosi, entrando  in  stazione.  Ma  un  ferroviere  dal  berretto  gallonato, sopraggiungendo alle loro spalle in quell’istante, gridò:

Non si scende, signori!

E perché? - chiese vivacemente il colonnello Proctor.

Abbiamo venti minuti di ritardo,  e il treno si ferma a  Plum  Creek solo qualche secondo.

Ma io devo battermi con questo signore!

Me  ne  dispiace  moltissimo  per voi - rispose il capotreno.  - Si riparte immediatamente. Sentite il segnale?  La campana della stazione suonava infatti.  E  il  convoglio  si  mise subito in marcia.

Phileas  Fogg  e  Proctor  si  fissavano in faccia senza muoversi.  Il capotreno li guardava a sua volta.

Sono  veramente  desolato,  signori!  -  disse  egli  infine.  -  In qualunque  altra  circostanza vi avrei favorito volentieri;  ma questa volta è stato proprio impossibile. Del resto, giacché non avete potuto battervi a Plum Creek,  che  cosa  vi  impedisce  di  battervi  strada facendo?

Ciò  non  garberà forse al signore!  - disse il colonnello con tono beffardo.

Mi garba invece moltissimo - rispose Phileas Fogg senza scomporsi.

Passepartout trasecolato pensava in cuor suo: «Eh via!  Simili cose si vedono  solo  in  America!  Questo  capotreno  dev’essere  davvero  un gentiluomo del fior fiore».

I due avversari e i loro «padrini» si erano mossi  intanto  dietro  al ferroviere  dal  berretto  gallonato.  Passepartout  senza  fiatare li seguì.  Passando da un vagone all’altro giunsero alla carrozza di coda del convoglio, occupata da una diecina di persone. Il capotreno chiese a  quei  passeggeri  se  volessero  per  pochi  minuti  compiacersi di lasciare libero il  campo  a  due  “gentlemen”  i  quali  avevano  una questione d’onore da sbrigare.

Figurarsi! Benvolentieri! - risposero tutti all’unanimità.

Avevano capito al volo la faccenda, vedendo i due pistoloni portati da Passepartout  e si ritirarono in fretta sui passatoi,  più lontano che poterono.

Il vagone,  lungo una decina di metri,  pareva fatto  apposta  per  la circostanza.  I  duellanti  avevano  agio  di  avanzare  uno  incontro all’altro tra le due file dei sedili,  e pistolettarsi a  gusto  loro.  Non vi fu mai duello più facile da regolare.  Il signor Fogg e il colonnello Proctor, muniti ciascuno di due pistole a sei colpi,  entrarono nel vagone.  I testimoni, rimasti fuori, ve li rinchiusero.  Al primo fischio della locomotiva i  duellanti  dovevano cominciare  il  fuoco.  E dopo un intervallo di due minuti i «padrini» sarebbero  entrati  a  ritirare...  ciò  che  fosse  rimasto  dei  due avversari.

Nulla  di più semplice,  quindi.  Era anzi talmente semplice che Fix e Passepartout sentivano il cuore battere da schiantarsi.  Immobili,  impietriti,  trattenendo il respiro,  essi  aspettavano  il fischio convenuto,  allorché si udirono urla selvagge e un crepitar di detonazioni che le accompagnavano.

Ma non provenivano dal vagone riservato ai duellanti.  Quelle detonazioni e  quelle  urla  echeggiavano  lungo  il  treno,  e dall’interno di questo rispondevano grida di spavento.  Il  colonnello  Proctor  e  il  signor Fogg,  con le pistole in pugno, uscirono a precipizio dal vagone,  dopo averne forzata la porta,  e si slanciarono  verso la testa del convoglio,  da dove il crepitare della fucileria giungeva più incalzante.

Avevano intuito in un lampo la  realtà:  il  convoglio  doveva  essere stato assalito dai Sioux!

Era  infatti  ciò che stava succedendo.  In piena prateria,  una banda d’alcune centinaia di quegli Indiani razziatori,  usi a bloccare  e  a saccheggiare convogli,  avevano dato la scalata ai vagoni come farebbe un “clown” con un cavallo al galoppo.

I Sioux urlanti, armati di fucili, si erano precipitati dapprima sulla locomotiva.  Il macchinista ed  il  fuochista  erano  stati  pressoché accoppati a colpi di mazza.  Un indiano,  con l’intenzione di bloccare il convoglio,  aveva afferrato le leve del comando.  Ma non conoscendo le manovre, invece d’abbassare il manubrio del regolatore aveva aperto le   valvole:  e  il  treno  correva  ora  lanciato  ad  una  velocità spaventevole.

Intanto l’orda dei Sioux si era rovesciata sulle carrozze  gremite  di passeggeri.  Agili  come scimmie,  gli Indiani correvano carponi sulle imperiali, scardinavano gli sportelli, lottavano a corpo a corpo con i viaggiatori. Molti di questi erano armati, e rispondevano con colpi di pistola alla fucileria dei banditi.

Una diecina di Sioux,  simili a diavoli scatenati,  riusciti a forzare il  bagagliaio,  l’invasero e lo saccheggiarono gettando tutti i colli sulla strada.

Grida e spari incalzavano senza tregua.  I passeggeri,  e con essi  il capotreno,  erano  riusciti  a  radunarsi  dentro alcuni vagoni;  e si difendevano animosamente dallo spaventoso assedio,  come da  dentro  a fortini  che  la fuga del treno trascinava all’impressionante velocità di oltre cento miglia all’ora.

Fin dal principio dell’attacco,  la signora  Auda  si  era  comportata coraggiosamente.  Con  la  pistola  in pugno la giovane indiana si era difesa sparando attraverso i cristalli infranti,  e aveva  validamente conteso ai selvaggi quella breccia.

Una  ventina di Sioux,  colpiti a morte dagli assediati,  erano caduti sul terreno;  molti,  scivolando feriti dall’alto dei passatoi,  erano precipitati sui binari e finiti travolti sotto le ruote del convoglio.  All’interno  di  questo  la scena non si presentava meno tragica.  Più d’un viaggiatore giaceva riverso sui  sedili,  ferito  dalle  palle  o dalle mazze dei Sioux. Si vedevano volti sbiancati e grondanti sangue.  La  lotta  durava  già  da  più  d’un  quarto  d’ora;  e  da una parte l’accanimento degli Indiani, dall’altra la stanchezza che cominciava a farsi sentire tra gli assediati,  lasciavano prevedere che la cosa  si metteva male per questi ultimi.

Il  capotreno,  il  quale,  a  fianco  del  signor  Fogg,  si  batteva accanitamente, teneva pure d’occhio il paese attraverso cui correva il convoglio furibondo.

La stazione di Forte Kearney dovrebbe essere a due miglia da  qui  - disse  ad un certo punto,  parlando a mezza voce al “gentleman”.  - Al Forte c’è una guarnigione americana.  Se il treno  si  ferma  in  quei pressi,  siamo salvi.  Ma se l’oltrepassa,  i Sioux resteranno padroni del convoglio.

Phileas Fogg aveva ascoltato senza batter ciglio.  Un lampo gli brillò nello  sguardo.  E  il  “gentleman” stava per rispondere al capotreno, quando questi, impallidendo,  si accasciò colpito dalla fucilata di un indiano.

Siamo  persi...  se  il  treno non si ferma...  almeno entro cinque minuti!...  - balbettò ancora il ferito a Phileas  Fogg,  che  si  era curvato a soccorrerlo aiutato da Passepartout.

Si fermerà!  - disse con forza il “gentleman”,  serrando la mano del coraggioso compagno di lotta.

Si alzò di scatto e fece per slanciarsi fuori del treno. Ma un braccio vigoroso lo trattenne.

Rimanete, signor Fogg. E’ affare mio!

Passepartout senza dare  tempo  al  suo  padrone  di  fermarlo,  aveva spalancato lo sportello e si era cacciato sotto il vagone.  Nessuno degli Indiani lo aveva visto.

Intorno le fucilate crepitavano.

Passepartout  dovette  mettere  a frutto tutta la sua agilità e la sua flessibilità di ginnasta.

Avanzò sotto i vagoni, aggrappandosi alle traverse,  aiutandosi con le leve dei freni e con le stanghe delle impannate,  inerpicandosi da una carrozza all’altra con una destrezza meravigliosa.  Giunse così in testa al treno.

Giunto a quel punto,  sostenendosi con una mano tra il bagagliaio e il “tender”,  con l’altra staccò le catene di sicurezza. Ma finché era in atto la forza di trazione,  non si  sarebbe  sganciata  la  barra  che congiungeva la locomotiva al resto del convoglio.  Un’improvvisa  scossa  che  il  treno  subì  in  quella pazzesca corsa incontrollata  fece  avvicinare  il  “tender”  al  bagagliaio   e   la connessura della barra, già forzata, si spezzò.  La locomotiva proseguì da sola la furibonda fuga.  Trascinato  dallo  slancio,  il resto del convoglio camminò ancora per alcuni minuti.  Nell’interno dei vagoni intanto c’era  chi  pensava  a manovrare  immediatamente  i  freni.  E  il  treno  andò a poco a poco arrestandosi,  a qualche centinaio di metri ormai  dalla  stazione  di Kearney.  La guarnigione del Forte,  attirata dagli spari, accorse. E, giungendo inattesa, mutò la situazione Prima che il treno fosse completamente  fermo  sui  binari,  la  banda degli Indiani aveva intanto già preso il largo.  In   silenziosi   gruppi,   trasportando  pietosamente  i  feriti,   i viaggiatori scesero dai vagoni e a piedi raggiunsero la stazioncina.  Là, sul piazzale, si contarono.