Il “gentleman” s’informò:
Il capitano?
Sono io.
Sir Phileas Fogg, di Londra.
E io Andrew Speedy, inglese di Cardiff.
State per partire?
Fra un’ora.
E andate?
A Bordeaux.
Il vostro carico?
Ciottoli nella stiva. Parto sopra zavorra.
Avete passeggeri?
Nemmeno per sogno! Mai passeggeri sulla mia nave. Mercanzia che ragiona e che perciò da fastidio.
La vostra nave fila bene?
Caspita, l’«Henrietta», conosciuta da tutti! Tra gli undici e i dodici nodi all’ora.
Mi volete trasportare a Liverpool, me e tre persone?
A Liverpool? E perché non in Cina?
Ho detto Liverpool.
No!
No?
No. Io sono in partenza per Bordeaux, e vado a Bordeaux.
A qualunque costo?
A qualunque costo.
Il capitano aveva parlato con un tono che non ammetteva repliche.
Ma gli armatori dell’«Henrietta»... - riprese Phileas Fogg.
Gli armatori sono io - rispose il capitano. - La nave è mia.
Ve la noleggio.
No.
Ve la compro.
No.
Phileas Fogg non batté ciglio. Eppure la situazione si presentava grave. Il capitano della «Henrietta» non era, ahimè, come il padrone della «Tankadère»! Fino qui il denaro del “gentleman” aveva sempre abbattuto gli ostacoli: stavolta nemmeno il denaro otteneva risultato. Per qualche istante il signor Fogg stette soprappensiero. Bisognava assolutamente trovare il mezzo di attraversare l’Atlantico in battello... a meno di non attraversarlo in pallone, cosa che sarebbe stata molto avventurosa e del resto non realizzabile. Si sarebbe detto ad un tratto che il “gentleman” avesse concretato un disegno, poiché disse al capitano:
Ebbene, volete portarmi a Bordeaux?
Nemmeno se mi offriste duecento dollari.
Ve ne offro duemila.
A testa?
A testa.
E siete quattro?
Quattro.
Il capitano Speedy cominciò a grattarsi la fronte. Ottomila dollari da guadagnare senza modificare per nulla la rotta prefissa, non erano cosa da disprezzarsi. Valeva la pena, per una volta tanto, mettere da parte l’irriducibile antipatia per ogni sorta di passeggeri: a duemila dollari l’uno non si trattava più di passeggeri, si trattava di merce preziosa!
Parto alle nove - disse semplicemente il capitano Speedy. - E se voi e i vostri vi fate trovare pronti...
Alle nove saremo a bordo - rispose altrettanto semplicemente Mister Fogg. Erano in quel momento le otto e mezzo.
Sbarcare dall’«Henrietta», saltare su una carrozza, giungere l’albergo, portare via la signora Auda, Passepartout e l’inseparabile Fix, al quale veniva cortesemente offerto un nuovo passaggio gratis, furono cose compiute dal “gentleman” con una rapidità e al tempo stesso con una calma da sbalordire.
Tutti erano a bordo al momento in cui l’«Henrietta» levava l’ancora. Quando Passepartout seppe la cifra del nolo pattuito dal suo padrone, cacciò uno di quegli «oh» che si distendono su tutta la scala dei vocalizzi ascendenti e discendenti.
Fix, per conto proprio, pensava che decisamente la Banca d’Inghilterra se la sarebbe cavata assai magra da quell’affare. Infatti, ammesso che si giungesse sani e salvi a Liverpool, e ammesso che il signor Fogg non gettasse imprevedibilmente qualche altra manciata d’oro in mare, dal sacco delle banconote sarebbero mancate intanto già la bellezza di sette mila sterline!
33.
PHILEAS FOGG SI MOSTRA ALL’ALTEZZA DELLE CIRCOSTANZE.
Un’ora più tardi, lo “steamer” «Henrietta» sorpassava il Light-boat che segna l’ingresso dello Hudson, aggirava la punta di Sandy Hook e si dirigeva in mare aperto. Nel corso delLa giornata, costeggiò Long Island, al largo del faro di Fire Island, e si diresse decisamente verso est.
L’indomani, il 13 dicembre, a mezzogiorno, con un magnifico sole che rideva nel più puro cobalto del cielo, un uomo saliva sulla plancia dell’«Henrietta» per rilevare il «punto astronomico». Ma chi crederebbe che quell’uomo sulla plancia dell’«Henrietta» non era il capitano Speedy?... Era Phileas Fogg. Speedy a quell’ora si trovava nientemeno che chiuso a chiave nella propria cabina, e cacciava urli che denotavano una collera spinta fino al parossismo: una collera, del resto, ben perdonabile. Che cos’era accaduto? Semplicissimo. Basterà ricordare che Phileas Fogg voleva andare a Liverpool, e che il capitano Speedy non aveva accondisceso a portarvelo. Allora il “gentleman” aveva accettato di prendere un passaggio per Bordeaux. Ma, dopo trenta ore che era a bordo, aveva così ben manovrato a colpi di banconote, che ormai l’intero equipaggio - gente un po’ avventuriera, la quale con Speedy non se la intendeva troppo stava in pugno al nuovo comandante. Già: Phileas Fogg aveva preso il posto e le funzioni del capitano Speedy ed ecco perché il capitano era stato rinchiuso nella sua cabina ed ecco infine perché l’«Henrietta» si stava dirigendo verso Liverpool.
E a vederlo manovrare non c’era da mettere in dubbio che si trovasse davanti ad un provetto marinaio.
Le macchine dell’«Henrietta» erano state messe sotto pressione e le valvole di sussidio erano state aperte. «Tra gli undici e i dodici nodi all’ora» aveva detto Speedy: ebbene, Phileas Fogg aveva saputo finora far mantenere alla nave quel massimo di velocità. E si poteva sperare di arrivare a Liverpool il 21 dicembre. E’ vero che c’erano tuttavia ancora molti «se» in aria: se il mare non diventava agitato, se il vento non balzava nell’est, se non sopraggiungeva qualche guasto di macchina... A Liverpool, in ultimo, l’affare del cambio di rotta dell’«Henrietta», annodandosi con l’affare della Banca, avrebbe anche potuto causare indesiderabili complicazioni per il “gentleman”, e portarlo un pochino più lontano di dove voleva arrivare.
Durante i primi giorni, la navigazione avvenne in condizioni eccellenti. Il mare non era troppo «duro»; il vento sembrava fissato al nord-est; furono perciò distese le vele e con tutte le sue golette l’«Henrietta» marciò come un vero transatlantico. Passepartout era incantato. Il risoluto gesto del suo padrone, di cui si sforzava di non vedere le conseguenze, lo riempiva di entusiasmo.
Mai l’equipaggio aveva visto un giovanotto più gaio e più
intraprendente. Faceva amicizia con i singoli marinai e li
meravigliava con tutte le sue manovre. Attribuiva loro i nomi migliori e distribuiva le bevande più gustose. Per lui, quei marinai manovravano come dei “gentleman” e i fuochisti poi erano dei veri «eroi». Il suo buon umore, molto comunicativo, si trasmetteva a tutti. Aveva già scordato il passato, i fastidi, i pericoli. Aveva fissa la mente alla meta, e talvolta ribolliva d’impazienza quasi venisse anche lui riscaldato dalla caldaia dell’«Henrietta». Spesso, inoltre, il giovanotto girava attorno a Fix, lo guardava in un certo modo che voleva significare: «Eh, noi la sappiamo lunga!», ma non gli rivolgeva la parola, perché non v’era più alcuna familiarità tra i due ex-amici. Fix invece non ci capiva proprio nulla. Quel colpo di mano sull’«Henrietta», la compera dell’equipaggio, quel Fogg che manovrava come un lupo di mare, per lui erano cose semplicemente da sbalordire. E ci ragionava su, giungendo a conclusioni impressionanti: «Un “gentleman” che comincia col rubare 55 mila sterline, può ben finire col rubare un bastimento! E vuoi vedere che costui non va per niente a Liverpool, ma in qualche parte del mondo dove potrà starsene al sicuro e mettersi impunemente a fare il pirata?!». A questo punto del ragionamento, il povero “detective” cominciava a sudare freddo e a pentirsi amaramente di essersi imbarcato in una simile avventura. Il capitano Speedy intanto seguitava ad urlare chiuso in cabina. E Passepartout, incaricato di portare il vitto al prigioniero, assolveva il compito prendendo le sue brave precauzioni. Per robusto che fosse, non si sentiva troppo sicuro. Il signor Fogg, invece non aveva neanche l’aria di sognarsi che ci fosse un capitano a bordo. Si giunse ai paraggi insidiosi del banco di Terranova dove d’inverno regnano le nebbie e dove i colpi di vento sono formidabili. Già la sera prima il barometro, abbassatosi bruscamente, faceva prevedere un prossimo cambiamento nell’atmosfera. In realtà, durante la notte, la temperatura si era modificata, il freddo divenne più intenso e al medesimo tempo il vento saltò verso il sud-est. Era un serio contrattempo. Il signor Fogg, allo scopo di non allontanarsi dalla rotta che s’era prefissata, dovette rinserrare le vele e sfruttare maggiormente il vapore. Ciò nonostante, la marcia dell’imbarcazione venne rallentata, in considerazione anche dello stato del mare, le cui lunghe ondate andavano a frangersi sul tagliamare. Ciò causava dei movimenti molto violenti di beccheggio e quindi nuoceva alla velocità. La brezza Si tramutava a poco a poco in uragano e già bisognava prendere in considerazione il caso che l’«Henrietta» non riuscisse a mantenersi con la prua verso le ondate. Certo che se si fosse dovuto sfuggire ad un uragano, si sarebbe andati verso l’ignoto, con tutte le sue spaventose incertezze. Il volto di Passepartout si era rabbuiato al medesimo tempo del cielo e per due giorni il buon giovanotto provò delle pene mortali. Ma Phileas Fogg dava prova di essere un ardito marinaio che sapeva tenere testa al mare, e mantenne incessantemente la rotta, senza neppure fare diminuire la pressione del vapore. Quando l’«Henrietta» non poteva alzarsi sulle onde, vi passava in mezzo e allora il ponte era letteralmente spazzato da un capo all’altro, ma la marcia continuava. Qualche volta una montagna d’acqua sollevava la poppa fuori dei flutti: allora l’elica emergeva battendo a vuoto l’aria con le braccia affannate; ma l’imbarcazione andava sempre avanti. Il vento tuttavia non aumentò di intensità quanto si sarebbe potuto temere. Non era uno di quegli uragani che passano alla velocità di novanta miglia all’ora. Si mantenne in proporzioni accettabili, ma sfortunatamente continuò a soffiare ostinatamente in direzione sud-est e non consentì di fare ricorso alla velatura. E tuttavia, come avremo modo di osservare molto presto, sarebbe stato davvero utile venire in aiuto al vapore!
Il 16 dicembre era il settantacinquesimo giorno che trascorreva dalla partenza da Londra. L’«Henrietta» insomma non aveva ancora accumulato un ritardo considerevole. Ormai si era giunti alla metà della traversata e la zona più pericolosa era ormai rimasta alle spalle. Si fosse stati d’estate, ci si sarebbe già potuti rallegrare del successo. D’inverno, però, si era alla mercè della cattiva stagione. Passepartout continuava a mantenersi incerto. In fondo, però, aveva fiducia e si diceva che se il vento si faceva desiderare, almeno si poteva contare sul vapore.
Ebbene, proprio quella mattina il macchinista salì sul ponte a cercarvi il signor Fogg, e i due s’intrattennero a parlare a lungo e con vivacità.
Senza sapere perché ma certamente per un presentimento, Passepartout, quando li vide, si sentì colto da una strana inquietudine. Avrebbe dato una delle sue orecchie per udire con l’altra ciò che il suo padrone e il macchinista dicevano.
Poté appena cogliere alcune frasi.
Siete certo di ciò che asserite?
Certissimo, signore. E’ dalla partenza che stiamo scaldando con tutte le macchine accese. Il carbone poteva bastare per andare a piccolo vapore da New York a Bordeaux; ma non ne abbiamo abbastanza per andare a tutto vapore da New York a Liverpool...
Ci penserò - rispose il signor Fogg.
Passepartout aveva capito, e impallidì.
Il carbone stava per mancare! «Ah, se il mio padrone rimedia anche a questa faccenda, bisogna dire che egli è più che un uomo: è un semidio!» esclamò tra sé il francese. Ed essendosi in quel momento trovato fra i piedi Fix, non poté trattenersi dall’informarlo della situazione.
E voi siete tanto semplice da credere che andiamo proprio a Liverpool?! - rispose a denti stretti il “detective”.
Diamine!
Imbecille! - ribatté Fix, e se ne andò scrollando le spalle.
Passepartout, senza comprendere la vera cagione dell’epiteto affibbiatogli, fu lì lì per reagire. Un pensiero lo fermò: «Bisogna compatire costui. Deve avere in corpo una bella dose di malumore. Man mano che si accorge di avere così scioccamente seguito una falsa traccia intorno al globo!».
E per quel momento Passepartout perdonò a Fix.
Phileas Fogg stava intanto prendendo una formidabile decisione.
Alimentate i fuochi - ordinò al macchinista. - E avanti fin che c’è carbone in macchina!
Di lì a pochi minuti la ciminiera dell’«Henrietta» vomitava torrenti di fumo.
Il bastimento filò a tredici nodi all’ora per altri due giorni. Il 18 dicembre il macchinista annunciò al signor Fogg che il carbone sarebbe mancato in giornata.
Non lasciate spegnere le macchine - fu la risposta. - Al contrario, le valvole sotto pressione! Era l’ostinazione d’un pazzo?
Quel giorno verso mezzodì, dopo avere rilevato la posizione della nave, Phileas Fogg chiamò Passepartout e gli diede ordine di andare a liberare di prigione il capitano Speedy.
Fu come se avessero comandato al buon figliolo d’andare a liberare dalla catena una tigre. Egli scese nel cassero a passi incerti, borbottando fra i denti:
Il cielo ce la mandi buona! Qualche minuto dopo, infatti fra un diluvio d’urli e di bestemmie, una bomba giungeva sul ponte dell’«Henrietta».
Era il capitano Speedy.
Dove siamo?! - furono le prime parole intelligibili che egli pronunciò in mezzo alla soffocazione dell’ira.
Siamo a settecentosettanta miglia da Liverpool - rispose Phileas Fogg, perfettamente calmo.
Andrew Speedy, con gli occhi iniettati di sangue, parve presso a scoppiare.
Pirata!!! - urlò.
Vi ho fatto venire, signore...
Schiumatore di mare!
Vi ho fatto venire, signore - ripigliò il “gentleman”, - per pregarvi di vendermi la vostra nave.
No! per tutti i diavoli. No!!!
Eppure fra poco io sarò costretto a bruciarla.
Bruciare la mia nave?!...
Voglio dire: bruciare almeno le soprastrutture. Manchiamo di combustibile.
Bruciare la mia nave?! ... - ripeté Speedy che si sentiva soffocare dalla collera. - Siete pazzo?! Una nave che vale cinquantamila dollari!
Eccovene sessantamila - rispose Phileas Fogg, porgendo al capitano un fascio di banconote.
L’effetto di quelle carte su Andrew Speedy fu prodigioso. Quando si è Americani, la visione di sessantamila dollari vi causa di certo una notevole emozione. Ira, dispetto, risentimento per l’incarcerazione dei passati giorni, tutto sbollì in un attimo per lasciare luogo ad una certa emozione.
«La mia nave ha più di vent’anni di mare», pensava Speedy improvvisamente ammutolito. «Qui si tratta d’un affare d’oro!». La bomba non poteva più scoppiare: Phileas Fogg ne aveva strappata la miccia.
E lo scafo in ferro mi rimarrà? - chiese Speedy con un tono raddolcito.
Lo scafo e la macchina, s’intende. Affare concluso?
Affare concluso.
Il capitano ghermì il fascio delle banconote, facendole immediatamente scomparire nelle sue tasche.
Passepartout e il “detective”, che assistevano alla scena, sbiancarono in volto.
«Altre ventimila sterline!... Il mio premio sta per andarsene in fumo», fu il pensiero di Fix. «E questo Fogg lascia inoltre al suo venditore lo scafo e la macchina, vale a dire quasi il valore totale dell’imbarcazione! E’ vero però che la somma rubata alla Banca era di ben cinquantacinquemila sterline!».
Phileas Fogg intanto spiegava ad Andrew Speedy:
Capitano, la cosa non deve sorprendervi. Sappiate che io perdo ventimila sterline se non sono di ritorno a Londra il 21 dicembre alle ore 8 e 45 di sera. Ora avendo perduto il piroscafo da New York, e siccome voi rifiutaste di condurmi a Liverpool...
E feci bene, per tutti i diavoli dell’inferno! Ci ho guadagnato almeno 40 mila dollari!... Sapete? - soggiunse, quindi, Speedy più pacatamente; - devo dirvi una cosa, capitano...
Fogg.
Capitano Fogg, c’e dello «yankee» in voi!
E il rozzo marinaio, dopo questa specie di complimento, strinse la mano al suo passeggero. Poi fece per andarsene. Ma il “gentleman” lo trattenne.
Un momento: questa nave dunque mi appartiene?
Certo! Dalla chiglia alla punta degli alberi... per tutto quel che è legno, s’intende.
Allora a bordo dell’«Henrietta» la voce energica di Phileas Fogg lanciò il più bizzarro comando che mai capitano abbia dato:
Si demoliscano tutte le parti in legno della nave. E coi rottami, fuoco nella macchina!
Quel giorno il casseretto, le cabine, gli alloggi, il falso-ponte, tutto fu ridotto in cenere.
L’indomani, 19 dicembre, furono bruciate le alberature, le dare, le pennole. Quei tronchi giganteschi venivano atterrati, spaccati a colpi di ascia. Era una febbre di demolizione a cui partecipava l’intero equipaggio: Passepartout a capo, tagliando, frantumando, segando, facendo il lavoro di dieci uomini.
Al terzo giorno si passò a sacrificare le impavesate, le opere morte e buona parte della tolda. Lo scafo dell’«Henrietta» era ridotto raso come un pontone.
Ma intanto si era giunti in vista della costa d’Irlanda, e del faro di Fastenet. Alle dieci di sera tuttavia l’isola non era stata ancora sorpassata e l’«Henrietta» si trovava esattamente all’altezza di Queenstown a cui volgeva il babordo.
Non rimanevano a Phileas Fogg che ventiquattr’ore per portarsi a Londra nei termini della scommessa. Altrettante ne sarebbero occorse invece all’«Henrietta» per arrivare soltanto a Liverpool, quand’anche avesse filato a tutto vapore. E il combustibile stava per finire; la pressione del vapore nella macchina calava inesorabilmente. Speedy, che ormai si interessava ai progetti del suo passeggero, gli si avvicinò.
Signor Fogg, - gli disse, - vi compiango davvero! Siamo appena davanti a Queenstown.
Ah! - fece il “gentleman”. - E’ Queenstown quella città di cui si scorgono i fuochi?
Sì.
Possiamo entrare nel porto?
Non prima che siano passate tre ore: all’alta marea.
Aspettiamo.
Sul volto del “gentleman” non trasparì per nulla il lampo di suprema ispirazione con cui egli era in procinto di vincere ancora una volta la sorte avversa.
Phileas Fogg sapeva infatti che Queenstown è un porto della costa d’Irlanda a cui i transatlantici provenienti dagli Stati Uniti fanno breve scalo per il servizio postale. Da Queenstown la posta è inoltrata a Dublino per mezzo di treni espressi che si susseguono in partenza con serrato orario; e da Dublino a Liverpool l’allacciamento postale è completato con piroscafi celerissimi. Talché, seguendo questo itinerario, si sopravvanzano di dodici ore circa i più rapidi camminatori della linea transatlantica.
Pertanto il signor Fogg decise con matematica precisione:
«Le dodici ore che guadagna così il corriere d’America, le guadagnerò io pure. Invece di giungere con l’ “Henrietta” domani sera a Liverpool, seguendo l’altro itinerario ci sarò a mezzodì: avrò il tempo di arrivare a Londra prima che scada l’ora fatidica». Verso l’una del mattino con il favore dell’alta marea l’«Henrietta» entrava nel porto di Queenstown.
Il “gentleman”, dopo aver ricevuto una vigorosa stretta di mano dal capitano Speedy, lo lasciava sullo scafo raso della sua nave la quale pur ridotta così rappresentava ancora un discreto capitale: la metà della cifra che Speedy si era fatta pagare. I passeggeri sbarcarono subito.
In quel momento Fix sentì una voglia feroce di arrestare la sua vittima.
Non lo fece. Perché? Quale lotta avveniva dentro di lui? Si era egli forse ricreduto sul conto del “gentleman”? Capiva finalmente d’essersi ingannato?... Mistero per lui stesso.
Ma Fix non abbandonò Phileas Fogg. Con lui, con la signora Auda e con Passepartout che non trovava più il tempo per respirare, si cacciò in uno scompartimento del direttissimo per Dublino. A Dublino sul far del giorno tutti s’imbarcarono su uno di quegli “steamers” della Compagnia Inglese i quali somigliano a fusi d’acciaio e hanno macchine potentissime.
A mezzogiorno meno venti minuti, il 21 dicembre, Phileas Fogg sbarcava infine a Liverpool. Egli non era ormai che a sei ore da Londra. Ma in quel momento Fix gli si avvicinò, gli posò una mano sulla spalla e mostrando il mandato disse:
Il signore Phileas Fogg?
Sì, io in persona.
In nome della Regina: siete in arresto!
34.
PASSEPARTOUT HA L’OCCASIONE DI FARE UN GIOCO DI PAROLE ATROCE MA FORSE INCONSUETO.
Phileas Fogg era finito in gattabuia. Era stato rinchiuso nel posto di guardia della Dogana di Liverpool, in attesa di venire trasferito alle carceri di Londra.
Fix lo aveva arrestato poiché il suo dovere glielo imponeva, fosse il “gentleman” colpevole o no. La Giustizia avrebbe deciso. Al momento dell’arresto c’era voluto l’intervento di alcuni «policemen» per togliere il troppo solerte agente dalle mani di Passepartout, il quale gli si era avventato contro come una belva. La signora Auda, spaventata dalla brutalità del fatto, non sapendo nulla, non riusciva a capacitarsi. Fu il francese a spiegarle ogni cosa. Allora copiose lacrime sgorgarono dagli occhi della giovane indiana, mentre il suo cuore batteva in un tumulto di sdegno e di dolore.
Il signor Fogg, l’onesto e coraggioso “gentleman”, a cui debbo la vita, arrestato come ladro?! Ah, è un’infamia, una cosa inconcepibile! Davanti alle lacrime della signora Auda, più che mai terribile si riaffacciò allora alla mente di Passepartout, il pensiero che egli era la causa di quella sciagura. Perché s’era preso la responsabilità di non avvertire il suo padrone il giorno che Fix gli aveva svelato la propria qualità di agente di polizia e la missione di cui era incaricato? Il signor Fogg, messo sull’avviso, avrebbe senza dubbio dato a Fix, le prove d’essere innocente, gli avrebbe dimostrato il suo errore. Ad ogni modo non avrebbe scorrazzato a spese del “gentleman”, quel dannato poliziotto la cui prima cura era stata di arrestarlo appena messo piede in Inghilterra!
«Imperdonabile imprudenza è stata la mia, proprio da uomo balordo che sta a pensare a sciocchi riguardi!», continuava a ripetersi Passepartout. E piangeva. Faceva pena: voleva dar la testa nel muro. La signora Auda riuscì adagio adagio a calmarlo. Erano rimasti sotto il porticato della Dogana. Né l’uno né l’altra si decidevano a muoversi di là: intendevano rivedere il signor Fogg. «Chi sa in che stato d’animo si troverà il mio padrone comprendendo di essere ormai irrimediabilmente rovinato!», pensava con angoscia il fido servo.
Chi invece fosse entrato in quel momento nel posto di guardia della Dogana di Liverpool vi avrebbe trovato il “gentleman” seduto sopra una panca, olimpicamente tranquillo ad aspettare... Che cosa? Serbava egli qualche speranza? Credeva ancora alla riuscita della sua impresa, pure in simili condizioni? Oppure che si fosse addensato in lui uno di quei furori segreti, compressi, terribili, che non appaiono, ma che per ciò appunto scoppiano poi ad un dato punto con una forza irresistibile? Comunque sia, il signor Fogg aveva tratto con mossa pacata il suo orologio dal taschino, lo aveva posato sopra la tavola e ne guardava girare le sfere.
Non una parola gli sfuggiva dalle labbra; ma il suo sguardo aveva una fissità singolare.
La situazione di quell’uomo era certo assai critica. E chi non poteva leggere nella sua coscienza l’avrebbe riassunta così: se innocente, Phileas Fogg era ad ogni modo rovinato; se colpevole, era perso. Ebbe egli in quel momento il pensiero di salvarsi? Pensò a cercare se vi fosse nella guardina una possibile via d’uscita? Non è da escludersi, poiché a un dato momento il “gentleman” fece il giro della stanza. Ma la porta era sprangata dal di fuori e le finestre erano munite di solide sbarre.
Phileas Fogg tornò a sedere ed estrasse dal portafogli il suo itinerario di viaggio.
Sulla linea dove erano scritte queste ultime parole: «21 dicembre, sabato - Liverpool» egli aggiunse: «Ottantesimo giorno, ore 11 e 40 del mattino». E si ridispose in attitudine di chi tranquillo aspetta. Suonò l’una all’orologio della torre. Il signor Fogg verificò che il suo orologio avanzava di due minuti rispetto a quello della torre e lo regolò. Suonarono le due!
La fronte di Sir Phileas Fogg si corrugò lievemente. Certo egli pensava che salendo in quel momento sopra un direttissimo avrebbe potuto giungere a Londra, al Club della Riforma, prima dello scoccar dell’ora fatale.
Il ticchettio dell’orologio in quella lugubre prigione piena di silenzio pareva la voce d’una condanna inesorabile. Alle due e trentatrè minuti, fuori della porta suonò un rumore di passi, poi uno stridore di catenacci smossi. Si sentiva la voce di Passepartout, si sentiva la voce di Fix.
Lo sguardo di Phileas Fogg brillò per un istante. La porta del posto di guardia si aperse: la signora Auda, Passepartout e Fix si precipitarono incontro al “gentleman”. Fix era trafelato, aveva i capelli scomposti: non riusciva a parlare.
Signore... - balbettò, - signore...
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