Il “gentleman” s’informò:

Il capitano?

Sono io.

Sir Phileas Fogg, di Londra.

E io Andrew Speedy, inglese di Cardiff.

State per partire?

Fra un’ora.

E andate?

A Bordeaux.

Il vostro carico?

Ciottoli nella stiva. Parto sopra zavorra.

Avete passeggeri?

Nemmeno  per  sogno!  Mai passeggeri sulla mia nave.  Mercanzia che ragiona e che perciò da fastidio.

La vostra nave fila bene?

Caspita,  l’«Henrietta»,  conosciuta da tutti!  Tra gli undici  e  i dodici nodi all’ora.

Mi volete trasportare a Liverpool, me e tre persone?

A Liverpool? E perché non in Cina?

Ho detto Liverpool.

No!

No?

No. Io sono in partenza per Bordeaux, e vado a Bordeaux.

A qualunque costo?

A qualunque costo.

Il capitano aveva parlato con un tono che non ammetteva repliche.

Ma gli armatori dell’«Henrietta»... - riprese Phileas Fogg.

Gli armatori sono io - rispose il capitano. - La nave è mia.

Ve la noleggio.

No.

Ve la compro.

No.

Phileas  Fogg  non  batté  ciglio.  Eppure la situazione si presentava grave. Il capitano della «Henrietta» non era,  ahimè,  come il padrone della  «Tankadère»!  Fino  qui  il denaro del “gentleman” aveva sempre abbattuto gli ostacoli: stavolta nemmeno il denaro otteneva risultato.  Per qualche istante il signor Fogg  stette  soprappensiero.  Bisognava assolutamente   trovare   il  mezzo  di  attraversare  l’Atlantico  in battello...  a meno di non attraversarlo in pallone,  cosa che sarebbe stata molto avventurosa e del resto non realizzabile.  Si  sarebbe detto ad un tratto che il “gentleman” avesse concretato un disegno, poiché disse al capitano:

Ebbene, volete portarmi a Bordeaux?

Nemmeno se mi offriste duecento dollari.

Ve ne offro duemila.

A testa?

A testa.

E siete quattro?

Quattro.

Il capitano Speedy cominciò a grattarsi la fronte. Ottomila dollari da guadagnare senza modificare per nulla la  rotta  prefissa,  non  erano cosa da disprezzarsi.  Valeva la pena, per una volta tanto, mettere da parte l’irriducibile antipatia per ogni sorta di passeggeri: a duemila dollari l’uno non si trattava più di passeggeri,  si trattava di merce preziosa!

Parto alle nove - disse semplicemente il capitano Speedy. - E se voi e i vostri vi fate trovare pronti...

Alle nove saremo a bordo - rispose altrettanto semplicemente Mister Fogg.  Erano in quel momento le otto e mezzo.

Sbarcare  dall’«Henrietta»,   saltare  su   una   carrozza,   giungere l’albergo,  portare via la signora Auda, Passepartout e l’inseparabile Fix,  al quale veniva cortesemente offerto un nuovo passaggio  gratis, furono  cose  compiute  dal  “gentleman”  con  una rapidità e al tempo stesso con una calma da sbalordire.

Tutti erano a bordo al momento in cui l’«Henrietta» levava l’ancora.  Quando Passepartout seppe la cifra del nolo pattuito dal suo  padrone, cacciò  uno  di  quegli  «oh»  che si distendono su tutta la scala dei vocalizzi ascendenti e discendenti.

Fix, per conto proprio, pensava che decisamente la Banca d’Inghilterra se la sarebbe cavata assai magra da quell’affare. Infatti, ammesso che si giungesse sani e salvi a Liverpool,  e ammesso che il  signor  Fogg non  gettasse  imprevedibilmente qualche altra manciata d’oro in mare, dal sacco delle banconote sarebbero mancate intanto già la bellezza di sette mila sterline!

 

 

 

 

33.

PHILEAS FOGG SI MOSTRA ALL’ALTEZZA DELLE CIRCOSTANZE.

Un’ora più tardi,  lo “steamer” «Henrietta» sorpassava  il  Light-boat che  segna l’ingresso dello Hudson,  aggirava la punta di Sandy Hook e si dirigeva in mare aperto.  Nel corso delLa giornata,  costeggiò Long Island,  al  largo  del faro di Fire Island,  e si diresse decisamente verso est.

L’indomani, il 13 dicembre,  a mezzogiorno,  con un magnifico sole che rideva  nel  più puro cobalto del cielo,  un uomo saliva sulla plancia dell’«Henrietta» per rilevare il «punto astronomico».  Ma chi crederebbe che quell’uomo sulla  plancia  dell’«Henrietta»  non era il capitano Speedy?... Era Phileas Fogg.  Speedy  a  quell’ora  si  trovava nientemeno che chiuso a chiave nella propria cabina, e cacciava urli che denotavano una collera spinta fino al parossismo: una collera, del resto, ben perdonabile.  Che cos’era accaduto?  Semplicissimo.  Basterà ricordare  che  Phileas Fogg  voleva  andare  a Liverpool,  e che il capitano Speedy non aveva accondisceso a portarvelo.  Allora il “gentleman” aveva  accettato  di prendere  un  passaggio  per Bordeaux.  Ma,  dopo trenta ore che era a bordo,  aveva così ben manovrato  a  colpi  di  banconote,  che  ormai l’intero  equipaggio - gente un po’ avventuriera,  la quale con Speedy non se la intendeva troppo stava in pugno al nuovo comandante.  Già: Phileas Fogg aveva preso il posto  e  le  funzioni  del  capitano Speedy ed ecco perché il capitano era stato rinchiuso nella sua cabina ed   ecco   infine  perché  l’«Henrietta»  si  stava  dirigendo  verso Liverpool.

E a vederlo manovrare non c’era da mettere in dubbio che  si  trovasse davanti ad un provetto marinaio.

Le  macchine  dell’«Henrietta»  erano state messe sotto pressione e le valvole di sussidio erano state aperte.  «Tra gli undici  e  i  dodici nodi  all’ora»  aveva detto Speedy: ebbene,  Phileas Fogg aveva saputo finora far mantenere alla nave quel massimo di velocità.  E si  poteva sperare di arrivare a Liverpool il 21 dicembre.  E’ vero che c’erano tuttavia ancora molti «se» in aria: se il mare non diventava  agitato,   se  il  vento  non  balzava  nell’est,   se  non sopraggiungeva qualche guasto di macchina...  A Liverpool,  in ultimo, l’affare  del  cambio  di  rotta  dell’«Henrietta»,   annodandosi  con l’affare della Banca,  avrebbe  anche  potuto  causare  indesiderabili complicazioni per il “gentleman”, e portarlo un pochino più lontano di dove voleva arrivare.

Durante   i  primi  giorni,   la  navigazione  avvenne  in  condizioni eccellenti.  Il mare non era troppo «duro»;  il vento sembrava fissato al nord-est;  furono perciò distese le vele e con tutte le sue golette l’«Henrietta» marciò come un vero transatlantico.  Passepartout era incantato. Il risoluto gesto del suo padrone,  di cui si  sforzava di non vedere le conseguenze,  lo riempiva di entusiasmo.

    Mai  l’equipaggio  aveva  visto  un  giovanotto   più   gaio   e   più

    intraprendente.   Faceva   amicizia   con   i  singoli  marinai  e  li

meravigliava con tutte le sue manovre. Attribuiva loro i nomi migliori e  distribuiva  le  bevande  più  gustose.   Per  lui,   quei  marinai manovravano  come  dei  “gentleman”  e  i fuochisti poi erano dei veri «eroi». Il suo buon umore, molto comunicativo, si trasmetteva a tutti.  Aveva già scordato il passato, i fastidi,  i pericoli.  Aveva fissa la mente alla meta, e talvolta ribolliva d’impazienza quasi venisse anche lui  riscaldato dalla caldaia dell’«Henrietta».  Spesso,  inoltre,  il giovanotto girava attorno a Fix,  lo guardava in  un  certo  modo  che voleva significare: «Eh, noi la sappiamo lunga!», ma non gli rivolgeva la parola, perché non v’era più alcuna familiarità tra i due ex-amici.  Fix   invece  non  ci  capiva  proprio  nulla.   Quel  colpo  di  mano sull’«Henrietta», la compera dell’equipaggio,  quel Fogg che manovrava come un lupo di mare,  per lui erano cose semplicemente da sbalordire.  E  ci  ragionava  su,  giungendo  a  conclusioni  impressionanti:  «Un “gentleman”  che comincia col rubare 55 mila sterline,  può ben finire col rubare un bastimento! E vuoi vedere che costui non va per niente a Liverpool, ma in qualche parte del mondo dove potrà starsene al sicuro e mettersi impunemente  a  fare  il  pirata?!».  A  questo  punto  del ragionamento,  il  povero  “detective”  cominciava a sudare freddo e a pentirsi amaramente di essersi imbarcato in una simile avventura.  Il capitano Speedy intanto seguitava ad urlare  chiuso  in  cabina.  E Passepartout, incaricato di portare il vitto al prigioniero, assolveva il compito prendendo le sue brave precauzioni.  Per robusto che fosse, non si sentiva troppo sicuro. Il signor Fogg, invece non aveva neanche l’aria di sognarsi che ci fosse un capitano a bordo.  Si giunse ai paraggi insidiosi del banco di Terranova  dove  d’inverno regnano le nebbie e dove i colpi di vento sono formidabili.  Già  la  sera  prima  il  barometro,  abbassatosi bruscamente,  faceva prevedere un prossimo cambiamento nell’atmosfera.  In realtà,  durante la  notte,  la  temperatura  si era modificata,  il freddo divenne più intenso e al medesimo tempo il vento saltò verso il sud-est.  Era  un  serio  contrattempo.  Il  signor  Fogg,  allo  scopo  di  non allontanarsi  dalla rotta che s’era prefissata,  dovette rinserrare le vele e sfruttare maggiormente il vapore.  Ciò  nonostante,  la  marcia dell’imbarcazione  venne  rallentata,  in  considerazione  anche dello stato del  mare,  le  cui  lunghe  ondate  andavano  a  frangersi  sul tagliamare.  Ciò  causava dei movimenti molto violenti di beccheggio e quindi nuoceva alla velocità.  La brezza Si tramutava a poco a poco in uragano  e  già  bisognava  prendere  in  considerazione  il  caso che l’«Henrietta» non riuscisse a mantenersi con la prua verso le  ondate.  Certo che se si fosse dovuto sfuggire ad un uragano, si sarebbe andati verso l’ignoto, con tutte le sue spaventose incertezze.  Il  volto di Passepartout si era rabbuiato al medesimo tempo del cielo e per due giorni il buon  giovanotto  provò  delle  pene  mortali.  Ma Phileas Fogg dava prova di essere un ardito marinaio che sapeva tenere testa al mare, e mantenne incessantemente la rotta, senza neppure fare diminuire  la  pressione  del vapore.  Quando l’«Henrietta» non poteva alzarsi sulle onde,  vi  passava  in  mezzo  e  allora  il  ponte  era letteralmente spazzato da un capo all’altro,  ma la marcia continuava.  Qualche volta una  montagna  d’acqua  sollevava  la  poppa  fuori  dei flutti: allora l’elica emergeva battendo a vuoto l’aria con le braccia affannate; ma l’imbarcazione andava sempre avanti.  Il  vento  tuttavia  non aumentò di intensità quanto si sarebbe potuto temere.  Non era uno di quegli uragani che passano  alla  velocità  di novanta  miglia  all’ora.  Si mantenne in proporzioni accettabili,  ma sfortunatamente continuò a soffiare ostinatamente in direzione sud-est e non consentì di fare ricorso alla velatura. E tuttavia,  come avremo modo di osservare molto presto,  sarebbe stato davvero utile venire in aiuto al vapore!

Il 16 dicembre era il settantacinquesimo giorno che trascorreva  dalla partenza da Londra.  L’«Henrietta» insomma non aveva ancora accumulato un  ritardo  considerevole.  Ormai  si  era  giunti  alla  metà  della traversata e la zona più pericolosa era ormai rimasta alle spalle.  Si fosse  stati  d’estate,  ci  si  sarebbe  già  potuti  rallegrare  del successo.  D’inverno,  però, si era alla mercè della cattiva stagione.  Passepartout continuava a mantenersi incerto.  In fondo,  però,  aveva fiducia  e  si diceva che se il vento si faceva desiderare,  almeno si poteva contare sul vapore.

Ebbene,  proprio quella  mattina  il  macchinista  salì  sul  ponte  a cercarvi  il signor Fogg,  e i due s’intrattennero a parlare a lungo e con vivacità.

Senza sapere perché ma certamente per un presentimento,  Passepartout, quando  li  vide,  si sentì colto da una strana inquietudine.  Avrebbe dato una delle sue orecchie per udire  con  l’altra  ciò  che  il  suo padrone e il macchinista dicevano.

Poté appena cogliere alcune frasi.

Siete certo di ciò che asserite?

Certissimo,  signore.  E’  dalla  partenza che stiamo scaldando con tutte le macchine accese.  Il carbone  poteva  bastare  per  andare  a piccolo  vapore  da New York a Bordeaux;  ma non ne abbiamo abbastanza per andare a tutto vapore da New York a Liverpool...

Ci penserò - rispose il signor Fogg.

Passepartout aveva capito, e impallidì.

Il carbone stava per mancare!  «Ah,  se il mio padrone rimedia anche a questa  faccenda,  bisogna  dire  che  egli  è  più  che un uomo: è un semidio!» esclamò tra sé il francese.  Ed essendosi  in  quel  momento trovato  fra  i piedi Fix,  non poté trattenersi dall’informarlo della situazione.

E voi  siete  tanto  semplice  da  credere  che  andiamo  proprio  a Liverpool?! - rispose a denti stretti il “detective”.

Diamine!

Imbecille! - ribatté Fix, e se ne andò scrollando le spalle.

Passepartout,   senza   comprendere   la   vera  cagione  dell’epiteto affibbiatogli,  fu lì lì per reagire.  Un pensiero lo fermò:  «Bisogna compatire costui.  Deve avere in corpo una bella dose di malumore. Man mano che si accorge di  avere  così  scioccamente  seguito  una  falsa traccia intorno al globo!».

E per quel momento Passepartout perdonò a Fix.

Phileas Fogg stava intanto prendendo una formidabile decisione.

Alimentate i fuochi - ordinò al macchinista.  - E avanti fin che c’è carbone in macchina!

Di lì a pochi minuti la ciminiera dell’«Henrietta»  vomitava  torrenti di fumo.

Il bastimento filò a tredici nodi all’ora per altri due giorni.  Il 18 dicembre il macchinista annunciò al signor Fogg che il carbone sarebbe mancato in giornata.

Non lasciate spegnere le macchine - fu la risposta.  - Al contrario, le valvole sotto pressione!  Era l’ostinazione d’un pazzo?

Quel  giorno  verso  mezzodì,  dopo  avere rilevato la posizione della nave,  Phileas Fogg chiamò Passepartout e gli diede ordine di andare a liberare di prigione il capitano Speedy.

Fu  come  se  avessero  comandato al buon figliolo d’andare a liberare dalla catena una tigre.  Egli  scese  nel  cassero  a  passi  incerti, borbottando fra i denti:

Il  cielo  ce la mandi buona!  Qualche minuto dopo,  infatti fra un diluvio  d’urli  e  di  bestemmie,   una  bomba  giungeva  sul   ponte dell’«Henrietta».

Era il capitano Speedy.

Dove  siamo?!  -  furono  le  prime  parole  intelligibili che egli pronunciò in mezzo alla soffocazione dell’ira.

Siamo a settecentosettanta miglia da  Liverpool  -  rispose  Phileas Fogg, perfettamente calmo.

Andrew  Speedy,  con  gli  occhi  iniettati di sangue,  parve presso a scoppiare.

Pirata!!! - urlò.

Vi ho fatto venire, signore...

Schiumatore di mare!

Vi ho fatto  venire,  signore  -  ripigliò  il  “gentleman”,  -  per pregarvi di vendermi la vostra nave.

No! per tutti i diavoli. No!!!

Eppure fra poco io sarò costretto a bruciarla.

Bruciare la mia nave?!...

Voglio  dire:  bruciare  almeno  le  soprastrutture.  Manchiamo  di combustibile.

Bruciare la mia nave?! ...  - ripeté Speedy che si sentiva soffocare dalla  collera.  -  Siete  pazzo?!  Una  nave  che  vale cinquantamila dollari!

Eccovene sessantamila - rispose Phileas Fogg,  porgendo al  capitano un fascio di banconote.

L’effetto di quelle carte su Andrew Speedy fu prodigioso.  Quando si è Americani,  la visione di sessantamila dollari vi causa di  certo  una notevole emozione.  Ira,  dispetto,  risentimento per l’incarcerazione dei passati giorni,  tutto sbollì in un attimo per lasciare  luogo  ad una certa emozione.

«La   mia   nave  ha  più  di  vent’anni  di  mare»,   pensava  Speedy improvvisamente ammutolito. «Qui si tratta d’un affare d’oro!».  La bomba non poteva più scoppiare: Phileas Fogg ne aveva strappata  la miccia.

E  lo  scafo  in  ferro  mi  rimarrà?  -  chiese Speedy con un tono raddolcito.

Lo scafo e la macchina, s’intende. Affare concluso?

Affare concluso.

Il capitano ghermì il fascio delle banconote, facendole immediatamente scomparire nelle sue tasche.

Passepartout e il “detective”, che assistevano alla scena, sbiancarono in volto.

«Altre ventimila sterline!...  Il mio  premio  sta  per  andarsene  in fumo»,  fu  il  pensiero di Fix.  «E questo Fogg lascia inoltre al suo venditore lo scafo e la macchina,  vale a dire quasi il valore  totale dell’imbarcazione!  E’ vero però che la somma rubata alla Banca era di ben cinquantacinquemila sterline!».

Phileas Fogg intanto spiegava ad Andrew Speedy:

Capitano,  la cosa non deve  sorprendervi.  Sappiate  che  io  perdo ventimila sterline se non sono di ritorno a Londra il 21 dicembre alle ore  8  e 45 di sera.  Ora avendo perduto il piroscafo da New York,  e siccome voi rifiutaste di condurmi a Liverpool...

E feci bene,  per tutti i diavoli  dell’inferno!  Ci  ho  guadagnato almeno 40 mila dollari!...  Sapete?  - soggiunse,  quindi,  Speedy più pacatamente; - devo dirvi una cosa, capitano...

Fogg.

Capitano Fogg, c’e dello «yankee» in voi!

E il rozzo marinaio,  dopo questa specie di  complimento,  strinse  la mano al suo passeggero. Poi fece per andarsene.  Ma il “gentleman” lo trattenne.

Un momento: questa nave dunque mi appartiene?

Certo! Dalla chiglia alla punta degli alberi... per tutto quel che è legno, s’intende.

Allora  a  bordo  dell’«Henrietta»  la  voce  energica di Phileas Fogg lanciò il più bizzarro comando che mai capitano abbia dato:

Si demoliscano tutte le parti in legno della nave.  E  coi  rottami, fuoco nella macchina!

Quel  giorno il casseretto,  le cabine,  gli alloggi,  il falso-ponte, tutto fu ridotto in cenere.

L’indomani, 19 dicembre,  furono bruciate le alberature,  le dare,  le pennole. Quei tronchi giganteschi venivano atterrati, spaccati a colpi di  ascia.  Era  una  febbre di demolizione a cui partecipava l’intero equipaggio: Passepartout  a  capo,  tagliando,  frantumando,  segando, facendo il lavoro di dieci uomini.

Al terzo giorno si passò a sacrificare le impavesate, le opere morte e buona  parte  della tolda.  Lo scafo dell’«Henrietta» era ridotto raso come un pontone.

Ma intanto si era giunti in vista della costa d’Irlanda, e del faro di Fastenet.  Alle dieci di sera tuttavia l’isola non  era  stata  ancora sorpassata  e  l’«Henrietta»  si  trovava  esattamente  all’altezza di Queenstown a cui volgeva il babordo.

Non rimanevano a Phileas  Fogg  che  ventiquattr’ore  per  portarsi  a Londra  nei termini della scommessa.  Altrettante ne sarebbero occorse invece all’«Henrietta» per arrivare soltanto a Liverpool,  quand’anche avesse filato a tutto vapore.  E il combustibile stava per finire;  la pressione del vapore nella macchina calava inesorabilmente.  Speedy,  che ormai si interessava ai progetti del suo passeggero,  gli si avvicinò.

Signor  Fogg,  -  gli disse,  - vi compiango davvero!  Siamo appena davanti a Queenstown.

Ah!  - fece il “gentleman”.  - E’ Queenstown quella città di cui  si scorgono i fuochi?

Sì.

Possiamo entrare nel porto?

Non prima che siano passate tre ore: all’alta marea.

Aspettiamo.

Sul  volto  del “gentleman” non trasparì per nulla il lampo di suprema ispirazione con cui egli era in procinto di vincere ancora  una  volta la sorte avversa.

Phileas  Fogg  sapeva  infatti  che  Queenstown è un porto della costa d’Irlanda a cui i transatlantici provenienti dagli Stati  Uniti  fanno breve  scalo  per  il  servizio  postale.  Da  Queenstown  la  posta è inoltrata a Dublino per mezzo di treni espressi che si  susseguono  in partenza con serrato orario;  e da Dublino a Liverpool l’allacciamento postale è  completato  con  piroscafi  celerissimi.  Talché,  seguendo questo  itinerario,  si sopravvanzano di dodici ore circa i più rapidi camminatori della linea transatlantica.

Pertanto il signor Fogg decise con matematica precisione:

«Le dodici ore che guadagna così il corriere d’America,  le guadagnerò io  pure.  Invece  di  giungere  con  l’  “Henrietta”  domani  sera  a Liverpool,  seguendo l’altro itinerario ci sarò  a  mezzodì:  avrò  il tempo di arrivare a Londra prima che scada l’ora fatidica».  Verso  l’una  del  mattino con il favore dell’alta marea l’«Henrietta» entrava nel porto di Queenstown.

Il “gentleman”,  dopo aver ricevuto una vigorosa stretta di  mano  dal capitano Speedy,  lo lasciava sullo scafo raso della sua nave la quale pur ridotta così rappresentava ancora un discreto  capitale:  la  metà della cifra che Speedy si era fatta pagare.  I passeggeri sbarcarono subito.

In  quel  momento  Fix  sentì  una  voglia  feroce di arrestare la sua vittima.

Non lo fece. Perché?  Quale lotta avveniva dentro di lui?  Si era egli forse ricreduto sul conto del “gentleman”? Capiva finalmente d’essersi ingannato?... Mistero per lui stesso.

Ma Fix non abbandonò Phileas Fogg.  Con lui, con la signora Auda e con Passepartout che non trovava più il tempo per respirare,  si cacciò in uno scompartimento del direttissimo per Dublino.  A  Dublino  sul  far  del  giorno tutti s’imbarcarono su uno di quegli “steamers” della Compagnia Inglese i quali somigliano a fusi d’acciaio e hanno macchine potentissime.

A mezzogiorno meno venti minuti, il 21 dicembre, Phileas Fogg sbarcava infine a Liverpool. Egli non era ormai che a sei ore da Londra.  Ma in quel momento Fix gli si avvicinò, gli posò una mano sulla spalla e mostrando il mandato disse:

Il signore Phileas Fogg?

Sì, io in persona.

In nome della Regina: siete in arresto!

 

 

 

 

 

 

 

34.

PASSEPARTOUT HA L’OCCASIONE DI FARE UN GIOCO DI PAROLE ATROCE MA FORSE INCONSUETO.

Phileas Fogg era finito in gattabuia. Era stato rinchiuso nel posto di guardia della Dogana di Liverpool, in attesa di venire trasferito alle carceri di Londra.

Fix lo aveva arrestato poiché il suo dovere glielo imponeva,  fosse il “gentleman” colpevole o no. La Giustizia avrebbe deciso.  Al   momento   dell’arresto   c’era   voluto  l’intervento  di  alcuni «policemen» per togliere  il  troppo  solerte  agente  dalle  mani  di Passepartout, il quale gli si era avventato contro come una belva.  La  signora  Auda,  spaventata dalla brutalità del fatto,  non sapendo nulla,  non riusciva a capacitarsi.  Fu il francese a  spiegarle  ogni cosa.  Allora  copiose  lacrime  sgorgarono  dagli occhi della giovane indiana,  mentre il suo cuore batteva in un tumulto  di  sdegno  e  di dolore.

Il signor Fogg,  l’onesto e coraggioso “gentleman”,  a cui debbo la vita, arrestato come ladro?! Ah, è un’infamia, una cosa inconcepibile!  Davanti alle lacrime della signora Auda,  più  che  mai  terribile  si riaffacciò allora alla mente di Passepartout, il pensiero che egli era la  causa di quella sciagura.  Perché s’era preso la responsabilità di non avvertire il suo padrone il giorno che Fix gli  aveva  svelato  la propria  qualità  di  agente  di  polizia  e  la  missione  di cui era incaricato?  Il signor Fogg,  messo sull’avviso,  avrebbe senza dubbio dato a Fix, le prove d’essere innocente, gli avrebbe dimostrato il suo errore.  Ad ogni modo non avrebbe scorrazzato a spese del “gentleman”, quel dannato poliziotto la cui prima  cura  era  stata  di  arrestarlo appena messo piede in Inghilterra!

«Imperdonabile imprudenza è stata la mia,  proprio da uomo balordo che sta  a  pensare  a  sciocchi  riguardi!»,   continuava   a   ripetersi Passepartout.  E piangeva.  Faceva pena: voleva dar la testa nel muro.  La signora Auda riuscì adagio adagio a calmarlo.  Erano rimasti  sotto il  porticato  della  Dogana.    l’uno    l’altra  si decidevano a muoversi di là: intendevano rivedere il signor Fogg.  «Chi sa in che stato d’animo si troverà il mio padrone comprendendo di essere ormai irrimediabilmente rovinato!»,  pensava  con  angoscia  il fido servo.

Chi  invece  fosse  entrato in quel momento nel posto di guardia della Dogana di Liverpool vi avrebbe trovato il “gentleman” seduto sopra una panca, olimpicamente tranquillo ad aspettare... Che cosa? Serbava egli qualche speranza? Credeva ancora alla riuscita della sua impresa, pure in simili condizioni? Oppure che si fosse addensato in lui uno di quei furori segreti, compressi, terribili, che non appaiono, ma che per ciò appunto scoppiano poi ad un dato punto con una forza irresistibile?  Comunque sia,  il signor Fogg aveva tratto con  mossa  pacata  il  suo orologio  dal taschino,  lo aveva posato sopra la tavola e ne guardava girare le sfere.

Non una parola gli sfuggiva dalle labbra;  ma il suo sguardo aveva una fissità singolare.

La situazione di quell’uomo era certo assai critica.  E chi non poteva leggere nella sua coscienza l’avrebbe riassunta  così:  se  innocente, Phileas Fogg era ad ogni modo rovinato; se colpevole, era perso.  Ebbe egli in quel momento il pensiero di salvarsi?  Pensò a cercare se vi fosse nella guardina una possibile via d’uscita?  Non è da escludersi,  poiché a un dato momento il “gentleman” fece  il giro  della  stanza.  Ma  la  porta  era  sprangata  dal di fuori e le finestre erano munite di solide sbarre.

Phileas Fogg  tornò  a  sedere  ed  estrasse  dal  portafogli  il  suo itinerario di viaggio.

Sulla  linea  dove  erano  scritte queste ultime parole: «21 dicembre, sabato - Liverpool» egli aggiunse: «Ottantesimo giorno,  ore 11  e  40 del mattino». E si ridispose in attitudine di chi tranquillo aspetta.  Suonò  l’una all’orologio della torre.  Il signor Fogg verificò che il suo orologio avanzava di due minuti rispetto a quello della torre e lo regolò. Suonarono le due!

La fronte di Sir  Phileas  Fogg  si  corrugò  lievemente.  Certo  egli pensava  che  salendo  in  quel  momento sopra un direttissimo avrebbe potuto giungere a Londra,  al Club della Riforma,  prima dello scoccar dell’ora fatale.

Il  ticchettio  dell’orologio  in  quella  lugubre  prigione  piena di silenzio pareva la voce d’una condanna inesorabile.  Alle due e trentatrè minuti,  fuori della porta  suonò  un  rumore  di passi,  poi  uno  stridore di catenacci smossi.  Si sentiva la voce di Passepartout, si sentiva la voce di Fix.

Lo sguardo di Phileas Fogg brillò per un istante.  La porta del posto di guardia si aperse: la signora Auda, Passepartout e Fix si precipitarono incontro al  “gentleman”.  Fix  era  trafelato, aveva i capelli scomposti: non riusciva a parlare.

Signore...  - balbettò, - signore...