Posso dedicarle a questo scopo.
Oh! Ma voi... allora... siete un uomo di cuore, signor Fogg! - balbettò sir Francis Cromarty.
Qualche volta - rispose semplicemente Phileas Fogg. - Quando ho tempo.
13.
PASSEPARTOUT SPERIMENTA UNA VOLTA DI PIU’ CHE LA FORTUNA SORRIDE AGLI AUDACI.
Il disegno di Phileas Fogg era ardito, irto di difficoltà, fors’anche inattuabile. Il signor Fogg stava per rischiare la sua vita, o almeno la sua libertà, e di conseguenza il successo dei suoi progetti, ma non ebbe esitazione. Trovò d’altro in Sir Francis Cromarty un risoluto ausiliario.
Quanto a Passepartout, era prontissimo, e si poteva disporre di lui. L’idea generosa concepita dal “gentleman” lo esaltava. Il bravo giovanotto era felice di avere scoperto un cuore, un animo sensibile, sotto quell’apparenza glaciale. Cominciava a voler bene a Phileas Fogg.
Ai tre audaci restava ora da assicurarsi sulla posizione che il «mahut» avrebbe presa nella faccenda. Non era improbabile che egli si lasciasse intenerire per gli indù. In ogni modo, in mancanza del suo aiuto bisognava garantirsene almeno la neutralità. Sir Cromarty decise di esporre francamente la cosa.
Signor ufficiale, - rispose l’indiano - io sono parsì, e quella donna è parsì! Contate su di me.
Bravo «mahut»! - disse Phileas Fogg.
L’indiano ripigliò:
Tuttavia è bene lo sappiate: non solo, noi rischiamo la vita; ma ci esponiamo a supplizi orribili, se mai dovessimo cadere nelle mani di quei fanatici. Rifletteteci prima.
E’ bell’e riflettuto - rispose Fogg. - Non ci resta che aspettare la notte per entrare in azione.
Lo penso anch’io - rispose la guida.
Il buon indù diede allora qualche notizia sulla vittima. Era un’indiana celebre per la sua bellezza, di razza parsì, figlia di ricchi commercianti di Bombay. Aveva ricevuto in questa città un’educazione interamente inglese, e per le sue maniere e la sua istruzione la si sarebbe creduta un’europea. Il suo nome era Auda. Orfana, era stata sposata suo malgrado a quel vecchio rajah del Bundelkung. Tre mesi più tardi era diventata vedova. Conoscendo la sorte che l’attendeva, tentò la fuga, ma fu ripresa immediatamente e i parenti del rajah, che avevano interesse che ella morisse, la votarono al supplizio a cui non pareva più che ella potesse sfuggire. Questo racconto non poteva che confermare ancor di più il signor Fogg e i suoi compagni nella loro generosa risoluzione. Fu deciso che il «mahut» avrebbe guidato l’elefante vicino il più possibile alla pagoda di Pillaji.
Mezz’ora dopo si faceva sosta in un punto della foresta a cinquecento passi dal tempio indiano, che non si scorgeva ancora fra l’intrico della macchia, ma da cui giungevano le grida dei fakiri certo veglianti a guardia della vittima.
Protetti dall’ombra della selva, i tre europei e l’indiano tennero consiglio sul modo di raggiungere la donna imprigionata. Il parsì conosceva bene la pagoda di Pillaji.
Vi potremo penetrare da una delle porte - disse, - quando tutte le guardie saranno immerse nei fumi dell’ubriachezza; oppure bisognerà praticare una breccia nel muro. So io quale è il lato più accessibile: verso la grande macchia di felci. La pagoda da quella parte non è mai sorvegliata, poiché non vi sono né porte né finestre. La scelta del punto preciso meglio adatto si farà al momento e sul luogo stesso. Ciò che resta fuor di dubbio è che il ratto dovrà compiersi avanti l’alba, prima cioè che la vittima venga condotta al supplizio. In quegli ultimi frangenti nessun intervento umano varrebbe più a salvarla. Le ombre della notte avvolgevano la foresta quando la coraggiosa pattuglia mosse ad esplorare i dintorni della pagoda, verso le sei. Le grida dei fakiri si erano spente da poco. Certo quei fanatici erano caduti pesantemente addormentati dai fumi dell’”hang”, un oppio liquido, misto a infuso di canapa: il momento poteva essere propizio per penetrare nel tempio.
Il parsì, guidando i compagni, avanzava attraverso la foresta con il passo elastico e silenzioso d’un ghepardo alla preda. Dopo dieci minuti di quella marcia giunsero ad una spianata sulla sponda d’un fiume. Là, al chiaror di alcune torce infisse al suolo su aste di ferro, la catasta del rogo ergeva il suo profilo lugubre. Un profumo acutissimo emanava dal legno di sandalo già cosparso e imbevuto di essenze.
Sulla piattaforma superiore del rogo era stato deposto il corpo del rajah, in attesa di venire arso insieme con la vedova. La pagoda biancheggiava a cento passi dalla spianata, e la sua guglia traforava nell’ombra le chiome degli alberi.
Venite! - disse sottovoce la guida ai compagni.
Raddoppiando le precauzioni, gli esploratori s’inoltrarono attraverso le alte erbe.
Il silenzio era interrotto soltanto dal sussurro del vento fra i rami.
Al margine dello spiazzo che antistava la pagoda, il parsì si fermò.
Anche qui numerose torce rischiaravano il luogo.
Si scorgevano a terra gruppi di dormienti in disordinato abbandono.
Pareva un campo di battaglia cosparso di morti.
I fakiri hanno ceduto all’ubriachezza - disse piano il parsì;- ma le guardie del rajah vegliano! Si può pensare che altrettanto facciano i sacerdoti all’interno del tempio.
Le torce fumose rischiaravano infatti, laggiù in fondo allo spiazzo, la massa confusa del tempio di Pillaji davanti alle cui porte passeggiavano sentinelle con la sciabola sguainata. Il parsì comprese la difficoltà di forzare l’ingresso della pagoda, e disse sottovoce ai compagni:
Torniamo indietro.
Gli altri avevano intuito al pari di lui la difficoltà dell’impresa; e lo seguirono senza fiatare.
Ma rientrata l’avventurosa pattuglia nel cuore della selva, Sir Cromarty si fermò e disse:
Sono appena le otto. Ed è probabile che più tardi le guardie soccombano anch’esse al sonno.
E’ probabile infatti - confermò l’indù. - ci conviene aspettare qui, e poi ritentare l’impresa.
Phileas Fogg e i compagni si stesero ai piedi di un albero, e rimasero ad attendere.
Le ore scorsero lente. Ogni tanto l’indù si alzava e andava a esplorare al limitare della selva.
Le guardie del rajah vegliavano sempre al lume delle torce, e un vago chiarore filtrava attraverso le finestre della pagoda. Si aspettò così fino alla mezzanotte, senza che la situazione cambiasse.
E’ evidente che le guardie si sono risparmiate l’ubriachezza dell’”hang” - disse il parsì. - Bisogna agire diversamente, e penetrare per un’apertura che praticheremo noi stessi nei muri della pagoda.
Sir Francis osservò:
Rimane da sapere se i sacerdoti veglino presso la loro vittima con tanta cura quanto i soldati alle porte del tempio!
Penseremo anche a loro - rispose l’indù, e aggiunse con decisione: - E’ meglio partire subito. Seguitemi.
Fu compiuto un giro abbastanza lungo per portarsi alle spalle della pagoda, e si poté raggiungerla senza avere incontrato nessuno. Come aveva detto il parsì, da quella parte non era stabilita alcuna sorveglianza dato che non vi esistevano ne porte né finestre. La notte si era fatta cupa. La luna, al suo ultimo quarto, era già tramontata dal cielo che cumuli minacciosi ingombravano all’orizzonte. Il fitto degli alberi altissimi accresceva l’oscurità. Non era però sufficiente aver raggiunto la base del muro. Era necessario riuscire a praticarci un apertura. Per questa operazione, Phileas Fogg e i suoi compagni non disponevano d’altri strumenti che dei loro coltelli da tasca. Per fortuna i muri del tempio erano d’un misto di mattoni e di legno che non opponeva enorme resistenza. Tolto che fosse il primo mattone, gli altri si sarebbero smossi facilmente, fino ad ottenere un apertura larga almeno due piedi. Il lavoro procedeva ed era già a buon punto. Quelle otto mani robuste, animate da un’ansia generosa, allargavano a poco a poco la breccia, cercando di fare il minimo rumore possibile. Ma ad un tratto nell’interno della pagoda echeggiò un grido a cui altre voci risposero dall’esterno.
I quattro uomini sospesero il lavoro e si guardarono senza fiatare. I loro occhi esprimevano un identico pensiero: qualcuno aveva udito, i sacerdoti avevano dato l’allarme!
La prudenza consigliava di allontanarsi immediatamente. Strisciando fra le erbe, il parsì e i compagni si cacciarono in un nascondiglio nella macchia di felci. Là si disposero ad attendere, con la speranza che l’allarme cessasse, pronti a riprendere in questo caso la loro opera.
Ma alcune guardie non tardarono ad apparire alle spalle della pagoda, e la circondarono in modo da rendere impossibile l’avvicinarsi. Non rimaneva più speranza alcuna di giungere alla vittima. I quattro audaci lo compresero istantaneamente.
Maledizione! E adesso come la salveremo? - sibilò Sir Francis serrando i pugni.
Passepartout era fuori di sé; e il «mahut» aveva un gran da fare a calmarlo. Imperturbabile, Phileas Fogg aspettava senza manifestare i propri sentimenti.
Non ci rimane che andarcene - consigliò infine il parsì.
Aspettate - disse allora Phileas Fogg. - Basta ch’io sia ad Allahabad domani prima di mezzodì.
Ma che sperate ancora, signor Fogg?! - chiese Sir Francis.
Fra qualche ora spunterà il sole, e...
L’occasione propizia che adesso ci sfugge può ripresentarsi all’ultimo momento.
L’ufficiale avrebbe pagato per poter leggere negli occhi imperscrutabili di quel freddo inglese. Era forse intenzione di Phileas Fogg precipitarsi, al momento del supplizio, sopra i carnefici e strappare dalle loro mani la giovane donna? Ciò sarebbe stato una follia; e come ammettere che il “gentleman” fosse pazzo a tal punto? Nondimeno Sir Francis accettò con condiscendenza di rimanere ad assistere alla terribile scena del rogo.
La guida intanto non lasciò i compagni dove si erano rifugiati, ma li condusse nel bosco di fronte alla pagoda. Là, da un ottimo nascondiglio naturale, essi avrebbero potuto osservare quanto avveniva sulla spianata del tempio.
Passepartout con agilità acrobatica andò subito ad appollaiarsi fra i rami. Rimuginava un’idea germogliatagli chi sa come nel cervello e piantatasi lì ostinatamente. Chi avesse potuto ascoltare l’intimo soliloquio del francese, si sarebbe stupito di pensieri come questi:
«Quale pazzia! ... Ma perché no, alla fin fine? E’ una possibilità, forse la sola. Con simili fanatici non si scherza!...». A poco a poco, Passepartout cominciò a lasciarsi scivolare fino ai rami più bassi che si curvavano verso il suolo. Lì continuò le sue riflessioni, scrutando attentamente il paesaggio intorno. Le ore trascorsero. Si annunciarono infine le prime tinte dell’alba; tuttavia l’oscurità era ancora profonda.
Vi fu come una risurrezione improvvisa in quella folla assopita. I gruppi di dormienti sulla spianata della pagoda si animarono, sorsero in piedi. Il «tam-tam» tornò a rullare lugubremente. Canti e grida scoppiarono all’interno ed al di fuori del tempio. Era giunta l’ora in cui la vittima doveva morire. Infatti le porte della pagoda si spalancarono. Ne uscì un fiotto di luce vivida. E in quel chiarore apparve ben visibile il gruppo dei sacerdoti indù che trascinavano la giovane donna, ora non più inerte come il giorno innanzi. Pareva che, scuotendo l’intorpidimento fatale dell’oppio, con un supremo istinto di conservazione l’infelice tentasse di sfuggire ai suoi carnefici.
Sir Francis Cromarty afferrò convulsamente la mano di Sir Phileas Fogg: e sentì che quella mano impugnava un coltello con la lama scoperta. La folla ondeggiò, si compose in processione e mosse dietro ai bramini i quali presero il sentiero verso il fiume. La giovane donna era ricaduta nel torpore. Passò, scortata dai fakiri che cantavano lente salmodie.
Phileas Fogg e i compagni, confondendosi tra gli ultimi gruppi della folla, seguirono il tragico corteo.
Sulla riva del fiume dove esso si fermò, poterono portarsi ad una cinquantina di passi dal rogo. Videro, fra l’incerto crepuscolo, la vittima bella assolutamente inerte, stesa accanto al cadavere del vecchio rajah.
Una torcia fu avvicinata alla catasta: la fiamma divampò e crepitò sinistramente sul legno asperso d’olio e di resine. Sir Francis Cromarty e l’indù dovettero faticare a trattenere Phileas Fogg che in un impeto di generosità si slanciava verso la catasta ardente.
Il “gentleman” li respinse; e già stava per svincolarsi, quando la scena mutò d’improvviso.
Grida altissime lacerarono l’aria. Tutta quella folla si prostrò a terra spaventata, tremante.
Il vecchio rajah non era dunque morto! Infatti ognuno aveva potuto vederlo rizzarsi ad un tratto, sollevare sulle braccia la giovane donna, e, spettrale, simile ad un’apparizione d’oltretomba fra le spire di fumo e le lingue di fuoco che gli danzavano intorno, scendere dal rogo.
I fakiri, le guardie, i bramini, colti da un sacro terrore, senza più osar alzare gli occhi sullo spaventoso prodigio, stavano là, con la faccia a terra. I loro dorsi incurvati facevano l’effetto di un campo di spighe piegate dal soffio dell’uragano. E la vittima inanimata avanzava, sulle braccia vigorose che la reggevano come se avesse la levità d’una piuma. Anche il parsì aveva chinato la fronte al suolo. Soltanto Phileas Fogg e Sir Cromarty erano rimasti in piedi.
Quel risuscitato fendé senza ostacoli la calca genuflessa, e giunse vicino ai due inglesi.
Via! Diamocela a gambe! - sibilò.
Era Passepartout in persona.
Egli aveva strappato la giovane donna alla morte. Fortunato quanto audace, passava ora sicuro in mezzo allo spavento generale. Un istante dopo, i rapitori con la preda sparivano nella selva; e l’elefante li portava via al trotto.
Ma quasi subito echeggiarono grida e clamori. Un’orda di guardie si slanciò all’inseguimento dei fuggitivi. Rintronò una scarica; e una palla forò il cappello di Phileas Fogg.
Il rapimento era stato scoperto. Difatti adesso sul rogo si vedeva spiccare il corpo del vecchio rajah.
Ma troppo tardi i sacerdoti indù si erano riavuti dal loro sacro terrore: Kiunì, incitato dal bravo «mahut», correndo attraverso la foresta portava ormai fuori dal tiro delle palle e delle frecce la signora Auda e i suoi salvatori.
14.
PHILEAS FOGG PERCORRE TUTTA L’AMMIREVOLE VALLE DEL GANGE SENZA NEPPURE PENSARE A GUARDARLA.
Il coraggioso rapimento era dunque riuscito. Un’ora più tardi, Passepartout rideva ancora del proprio successo. Sir Francis Cromarty aveva stretto la mano al coraggioso giovane. Il suo padrone gli aveva detto: «Bene», il che, sulla bocca di questo “gentleman” equivaleva a una solenne approvazione. E Passepartout aveva risposto che tutto l’onore della faccenda andava al suo padrone. Da parte sua, egli aveva avuto soltanto un’idea «stramba» e sorrideva pensando che per qualche istante lui, Passepartout, ex-ginnasta ed ex-sergente dei pompieri era stato il vedovo di una donna meravigliosa, un vecchio rajah imbalsamato!
Quanto alla giovane indiana, lei non si era neppure accorta di quanto era successo. Avviluppata nelle coperte da viaggio riposava in una delle sedie adattate al fianco dell’elefante. Tuttavia l’elefante, guidato con molta sicurezza dal parsì, correva rapidamente nella foresta ancora immersa nell’oscurità. Un’ora dopo avere lasciato la pagoda di Pillaji, si slanciò per una pianura smisurata. Alle sette, si fece una sosta. La giovane era sempre in uno stato di prostrazione completa. La guida le fece bere alcune gocce d’acqua e di “brandy”, ma gli effetti dello stupefacente che l’accasciavano dovevano durare ancora un po’ di tempo. Sir Francis Cromarty, che conosceva gli effetti dell’ubriachezza prodotta dall’inalazione del fumo della canapa, non nutriva alcuna inquietudine nei suoi confronti.
Se però il ristabilimento della giovane indiana non poneva degli interrogativi al buon brigadiere generale, egli si mostrava molto meno sicuro riguardo al futuro della ragazza. Non esitò a dire a Phileas Fogg che la signora Auda, se fosse rimasta in India, sarebbe ricaduta inevitabilmente nelle mani dei suoi carnefici. Quegli energumeni erano presenti in tutta la penisola indiana e certamente, nonostante la polizia inglese, avrebbero saputo riprendersi quella vittima, anche se si fosse rifugiata a Madras, a Bombay o a Calcutta. E a sostegno del suo timore, Sir Francis Cromarty citava un fatto analogo verificatosi qualche tempo prima. Secondo lui, la giovane sarebbe stata veramente al sicuro solo dopo avere lasciato l’India. Phileas Fogg rispose che avrebbe tenuto conto di queste osservazioni e che avrebbe provveduto.
Verso le dieci, la guida annunciava che stavano arrivando alla stazione di Allahabad. Riprendeva in quella città la via interrotta della ferrovia, mediante la quale i treni collegavano Allahabad a Calcutta con un viaggio che durava meno di un giorno e una notte. Phileas Fogg avrebbe dovuto arrivare in tempo perciò a prendere il piroscafo che doveva partire solo l’indomani, 25 ottobre, a mezzogiorno, per Hong Kong.
La giovane indiana venne fatta accomodare in una sala della stazione. Passepartout venne incaricato di andarle a comprare diversi oggetti di “toilette”, vestiti, scialli, pellicce eccetera, quello che avrebbe trovato. Il suo padrone gli accordava una fiducia completa. Passepartout partì immediatamente e percorse in gran fretta le vie della città. Allahabad è la città di Dio, una delle più venerate dell’India, perché è edificata alla confluenza di due fiumi sacri, il Gange e la Jumna, le cui acque attirano pellegrini da tutta la penisola. E’ noto d’altronde che, secondo le leggende del Ramayana, il Gange ha le sue sorgenti nel cielo, da cui, grazie a Brahma, discende sulla terra.
Pur impegnato nelle sue compere, Passepartout prese ben presto visione della città, difesa in altri tempi da un magnifico forte divenuto poi prigione statale. In quella città, un tempo piena d’industrie e di commerci, industrie e commerci sono spariti. Passepartout, che cercava invano un salone delle novità, come se fosse stato in Regent Street, a pochi passi da Farmer et Co., trovò solo presso un vecchio mercante ebreo pieno di pretese quello che gli serviva: un vestito di stoffa scozzese, un pesante mantello e una magnifica pelliccia di lontra che non esitò a pagare 75 sterline. Poi, tutto trionfante, fece ritorno alla stazione.
La signora Auda cominciava a tornare in sé. Mano mano che svaniva l’effetto dello stupefacente a cui l’avevano sottoposta i sacerdoti di Pillaji, i suoi begli occhi riacquistavano tutta la loro dolcezza indiana. Quando il re poeta Ushaf Uddaul celebra le bellezze della regina di Ahmadgnagar, si esprime in questo modo: «La sua lucente capigliatura, regolarmente divisa in due parti, inquadra i contorni armoniosi delle due guance delicate e avoriate, brillanti di pulizia e di freschezza. Le sue sopracciglia nere come l’ebano hanno la forma e la potenza dell’arco di Kama, il dio dell’amore, e sotto le sue lunghe ciglia di seta, nella nera pupilla dei suoi grandi occhi limpidi, navigano come nei laghi sacri dell’Himalaia i riflessi più puri della luce celeste. Fini, eguali e bianchissimi risplendono i suoi denti tra le sorridenti labbra, come gocce di rugiada all’interno di un fiore semiaperto di melograno. Le sue minuscole orecchie dalle curve simmetriche, le sue mani vermiglie, i suoi piedini incurvati e teneri come le gemme del loto, brillano dello splendore delle più belle perle dello Sri Lanka e dei più bei diamanti di Colgond. La sua cintura minuscola e leggera, che una sola mano riesce a stringere, mette in risalto l’elegante curvatura dei fianchi arrotondati e la floridezza del petto sul quale la fiorente giovinezza dispiega i suoi tesori più splendenti e sotto le pieghe di seta della tunica sembra sia stata modellata in argento puro dalla mano divina di Vicvacarma, l’eterno scultore».
Ma anche senza tutte queste amplificazioni, è sufficiente dire che la signora Auda, la vedova del rajah del Bundelkund era una splendida donna in tutta l’accezione europea di questo complimento. Parlava l’inglese con grande precisione e la guida non aveva affatto esagerato affermando che questa giovane parsì era stata trasformata dall’educazione ricevuta.
Il treno intanto stava ormai per lasciare la stazione di Allahabad. Il parsì rimaneva in attesa. Il signor Fogg gli consegnò il salario che aveva convenuto, senza un solo centesimo in più. Questo sconcertò un poco Passepartout, che ben sapeva tutto ciò che il suo padrone doveva alla devozione di quella guida. Questi infatti aveva rischiato volontariamente la vita nell’affare di Pillaji e se più tardi gli indù ne fossero venuti a conoscenza egli sarebbe ben difficilmente sfuggito alla loro vendetta.
Restava pure la questione di Kiunì. Che cosa avrebbero fatto di un elefante pagato a così caro prezzo?
Ma Phileas Fogg aveva già preso una decisione a questo proposito.
Parsì, - disse il “gentleman” alla guida, - sei stato un amico fedele. Ho pagato il tuo servizio, ma non la tua devozione. Vuoi codesto elefante? Tienilo è tuo.
Gli occhi del «mahut» brillarono.
Oh, vostro onore mi regala una fortuna! - balbettò.
Accettala, «mahut»; e sarò ancora io tuo debitore.
Così sì che va bene! - applaudì allora Passepartout. - Amico parsì, è giusto che l’elefante resti a te. Oh, tienilo caro: Kiunì è un bravo e coraggioso animale!
E avvicinatosi al bestione, il francese gli porse una manciata di zollette di zucchero. L’elefante le gustò ghiottamente; poi, emessa una specie di grugnito di soddisfazione, prese il giovane per la vita circondandolo con la proboscide e lo sollevò all’altezza della propria testa.
Passepartout, niente affatto spaventato, fece una lunga carezza all’animale, il quale piano piano lo ripose a terra. E qui il bravo giovanotto si accomiatò da Kiunì stringendogli la proboscide, proprio come avrebbe scambiato con un amico una vigorosa stretta di mano. Qualche istante dopo, Phileas Fogg, Sir Francis Cromarty e Passepartout, installati in un comodo scompartimento in cui la signora Auda occupava il posto migliore, correvano a tutto vapore verso Benares. Ottanta miglia al massimo separano questa città da Allahabad e questa distanza venne percorsa in due ore. Durante questo tragitto, gli effetti dell’”hang” erano cessati. La giovane si ridestava a mente sgombra da un sonno profondo quasi quanto il sonno della morte; e fu enorme la sua meraviglia nel trovarsi su di un treno in corsa, coperta di vestimenti all’europea, in mezzo a viaggiatori che le erano assolutamente sconosciuti. I suoi compagni le prodigarono ancora molte premure e la rianimarono con qualche goccia di liquore. Quindi Sir Cromarty le raccontò l’avventura di cui essa era stata la protagonista senza saperlo. L’ufficiale insistette sull’abnegazione di Phileas Fogg che non aveva esitato a porre in gioco la propria vita nel tentativo di salvataggio; e concluse narrando come tutto si fosse risolto grazie all’audace stratagemma di Passepartout.
Il signor Fogg lasciava dire senza proferir parola. Il servo, con sincera modestia, si preoccupava di ripetere:
Niente, niente! Io non ho avuto che un’idea burlesca.
Gli splendidi occhi della signora Auda colmi di lacrime espressero più delle labbra la riconoscenza che ella provava per i suoi salvatori. Improvvisamente, ricondotta col pensiero alla scena del “sutty”, la giovane, lasciando errare lo sguardo sulla terra indiana dove tanti pericoli ancora la minacciavano, fu colta da un brivido di terrore. Phileas Fogg comprese quel che passava nella mente della signora Auda; e al fine di rassicurarla le offrì, molto freddamente peraltro, di condurla a Hong Kong dove essa avrebbe potuto rimanere finché si fosse spenta l’eco della vicenda.
La signora Auda, parlando correttamente in lingua inglese, rispose che accettava con riconoscenza l’offerta. Proprio a Hong Kong viveva un parente di lei, anch’egli di razza parsì, un certo dottor Jejeeh, ricchissimo mercante di quella città, che è interamente inglese anche se è appena un puntino sulla costa cinese. A mezzogiorno e mezzo il treno si fermava alla stazione di Benares.
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