Posso dedicarle a questo scopo.

Oh!  Ma voi...  allora...  siete un uomo di cuore,  signor  Fogg!  - balbettò sir Francis Cromarty.

Qualche  volta  -  rispose semplicemente Phileas Fogg.  - Quando ho tempo.

 

13.

PASSEPARTOUT SPERIMENTA UNA VOLTA DI PIU’ CHE LA FORTUNA SORRIDE  AGLI AUDACI.

Il disegno di Phileas Fogg era ardito,  irto di difficoltà, fors’anche inattuabile. Il signor Fogg stava per rischiare la sua vita,  o almeno la sua libertà, e di conseguenza il successo dei suoi progetti, ma non ebbe  esitazione.  Trovò  d’altro  in Sir Francis Cromarty un risoluto ausiliario.

Quanto a Passepartout, era prontissimo, e si poteva disporre di lui.  L’idea generosa  concepita  dal  “gentleman”  lo  esaltava.  Il  bravo giovanotto era felice di avere scoperto un cuore,  un animo sensibile, sotto quell’apparenza glaciale.  Cominciava a  voler  bene  a  Phileas Fogg.

Ai  tre  audaci  restava  ora  da  assicurarsi  sulla posizione che il «mahut» avrebbe presa nella faccenda.  Non era improbabile che egli si lasciasse intenerire per gli indù.  In ogni modo,  in mancanza del suo aiuto bisognava garantirsene almeno la neutralità.  Sir Cromarty decise di esporre francamente la cosa.

Signor ufficiale,  - rispose l’indiano - io  sono  parsì,  e  quella donna è parsì! Contate su di me.

Bravo «mahut»! - disse Phileas Fogg.

L’indiano ripigliò:

Tuttavia è bene lo sappiate: non solo,  noi rischiamo la vita; ma ci esponiamo a supplizi orribili,  se mai dovessimo cadere nelle mani  di quei fanatici. Rifletteteci prima.

E’ bell’e riflettuto - rispose Fogg. - Non ci resta che aspettare la notte per entrare in azione.

Lo penso anch’io - rispose la guida.

Il  buon  indù  diede  allora  qualche  notizia  sulla  vittima.   Era un’indiana celebre per la sua bellezza,  di  razza  parsì,  figlia  di ricchi  commercianti  di  Bombay.   Aveva  ricevuto  in  questa  città un’educazione interamente inglese,  e per le  sue  maniere  e  la  sua istruzione la si sarebbe creduta un’europea. Il suo nome era Auda.  Orfana,  era  stata  sposata  suo  malgrado  a  quel vecchio rajah del Bundelkung.  Tre mesi più tardi era diventata  vedova.  Conoscendo  la sorte che l’attendeva, tentò la fuga, ma fu ripresa immediatamente e i parenti del rajah, che avevano interesse che ella morisse, la votarono al supplizio a cui non pareva più che ella potesse sfuggire.  Questo  racconto non poteva che confermare ancor di più il signor Fogg e i suoi compagni nella loro generosa risoluzione.  Fu deciso  che  il «mahut» avrebbe guidato l’elefante vicino il più possibile alla pagoda di Pillaji.

Mezz’ora  dopo si faceva sosta in un punto della foresta a cinquecento passi dal tempio indiano,  che non si scorgeva  ancora  fra  l’intrico della  macchia,  ma  da  cui  giungevano  le  grida  dei  fakiri certo veglianti a guardia della vittima.

Protetti dall’ombra della selva,  i tre europei  e  l’indiano  tennero consiglio sul modo di raggiungere la donna imprigionata.  Il parsì conosceva bene la pagoda di Pillaji.

Vi potremo penetrare da una delle porte - disse,  - quando tutte le guardie saranno immerse nei fumi  dell’ubriachezza;  oppure  bisognerà praticare una breccia nel muro. So io quale è il lato più accessibile: verso la grande macchia di felci.  La pagoda da quella parte non è mai sorvegliata,  poiché non vi sono né porte né finestre.  La scelta  del punto preciso meglio adatto si farà al momento e sul luogo stesso. Ciò che resta fuor di dubbio è che il ratto dovrà compiersi avanti l’alba, prima  cioè  che  la  vittima  venga condotta al supplizio.  In quegli ultimi frangenti nessun intervento umano varrebbe più a salvarla.  Le ombre della notte  avvolgevano  la  foresta  quando  la  coraggiosa pattuglia mosse ad esplorare i dintorni della pagoda, verso le sei.  Le grida dei fakiri si erano spente da poco. Certo quei fanatici erano caduti  pesantemente  addormentati  dai  fumi  dell’”hang”,  un  oppio liquido,  misto a infuso di canapa: il momento poteva essere  propizio per penetrare nel tempio.

Il parsì,  guidando i compagni,  avanzava attraverso la foresta con il passo elastico e silenzioso d’un ghepardo alla preda.  Dopo dieci minuti di quella marcia  giunsero  ad  una  spianata  sulla sponda d’un fiume.  Là, al chiaror di alcune torce infisse al suolo su aste di ferro,  la catasta del rogo ergeva il suo profilo lugubre.  Un profumo  acutissimo  emanava  dal  legno  di  sandalo  già  cosparso e imbevuto di essenze.

Sulla piattaforma superiore del rogo era stato deposto  il  corpo  del rajah, in attesa di venire arso insieme con la vedova.  La pagoda biancheggiava a cento passi dalla spianata,  e la sua guglia traforava nell’ombra le chiome degli alberi.

Venite! - disse sottovoce la guida ai compagni.

Raddoppiando le precauzioni,  gli esploratori s’inoltrarono attraverso le alte erbe.

Il silenzio era interrotto soltanto dal sussurro del vento fra i rami.

Al  margine dello spiazzo che antistava la pagoda,  il parsì si fermò.

Anche qui numerose torce rischiaravano il luogo.

Si scorgevano a terra gruppi di dormienti  in  disordinato  abbandono.

Pareva un campo di battaglia cosparso di morti.

I fakiri hanno ceduto all’ubriachezza - disse piano il parsì;- ma le guardie del rajah vegliano!  Si può pensare che altrettanto facciano i sacerdoti all’interno del tempio.

Le torce fumose rischiaravano infatti,  laggiù in fondo allo  spiazzo, la  massa  confusa  del  tempio  di  Pillaji  davanti  alle  cui porte passeggiavano sentinelle con la sciabola sguainata.  Il parsì comprese la difficoltà di forzare l’ingresso della pagoda,  e disse sottovoce ai compagni:

Torniamo indietro.

Gli altri avevano intuito al pari di lui la difficoltà dell’impresa; e lo seguirono senza fiatare.

Ma  rientrata  l’avventurosa  pattuglia  nel  cuore  della selva,  Sir Cromarty si fermò e disse:

Sono appena le otto.  Ed  è  probabile  che  più  tardi  le  guardie soccombano anch’esse al sonno.

E’ probabile infatti - confermò l’indù. - ci conviene aspettare qui, e poi ritentare l’impresa.

Phileas Fogg e i compagni si stesero ai piedi di un albero, e rimasero ad attendere.

Le  ore  scorsero  lente.  Ogni  tanto  l’indù  si  alzava  e andava a esplorare al limitare della selva.

Le guardie del rajah vegliavano sempre al lume delle torce,  e un vago chiarore filtrava attraverso le finestre della pagoda.  Si  aspettò  così  fino  alla  mezzanotte,  senza  che  la  situazione cambiasse.

E’  evidente  che  le  guardie  si  sono  risparmiate  l’ubriachezza dell’”hang”  -  disse  il  parsì.  -  Bisogna  agire  diversamente,  e penetrare per un’apertura che praticheremo noi stessi nei  muri  della pagoda.

Sir Francis osservò:

Rimane  da sapere se i sacerdoti veglino presso la loro vittima con tanta cura quanto i soldati alle porte del tempio!

Penseremo anche a loro - rispose l’indù, e aggiunse con decisione: - E’ meglio partire subito. Seguitemi.

Fu compiuto un giro abbastanza lungo per portarsi  alle  spalle  della pagoda,  e  si poté raggiungerla senza avere incontrato nessuno.  Come aveva detto il  parsì,  da  quella  parte  non  era  stabilita  alcuna sorveglianza dato che non vi esistevano ne porte né finestre.  La  notte si era fatta cupa.  La luna,  al suo ultimo quarto,  era già tramontata dal cielo che cumuli minacciosi ingombravano all’orizzonte.  Il fitto degli alberi altissimi accresceva l’oscurità.  Non era  però  sufficiente  aver  raggiunto  la  base  del  muro.  Era necessario  riuscire a praticarci un apertura.  Per questa operazione, Phileas Fogg e i suoi compagni non disponevano d’altri  strumenti  che dei  loro coltelli da tasca.  Per fortuna i muri del tempio erano d’un misto di mattoni e di legno che non opponeva enorme resistenza.  Tolto che fosse il primo mattone,  gli altri si sarebbero smossi facilmente, fino ad ottenere un apertura larga almeno due piedi.  Il lavoro procedeva ed era già a buon punto. Quelle otto mani robuste, animate da un’ansia generosa,  allargavano a poco a poco  la  breccia, cercando di fare il minimo rumore possibile.  Ma  ad  un  tratto  nell’interno  della pagoda echeggiò un grido a cui altre voci risposero dall’esterno.

I quattro uomini sospesero il lavoro e si guardarono senza fiatare.  I loro  occhi esprimevano un identico pensiero: qualcuno aveva udito,  i sacerdoti avevano dato l’allarme!

La prudenza consigliava di allontanarsi immediatamente.  Strisciando fra le erbe,  il parsì e i compagni si  cacciarono  in  un nascondiglio nella macchia di felci. Là si disposero ad attendere, con la speranza che l’allarme cessasse, pronti a riprendere in questo caso la loro opera.

Ma  alcune guardie non tardarono ad apparire alle spalle della pagoda, e la circondarono in modo da rendere  impossibile  l’avvicinarsi.  Non rimaneva  più  speranza  alcuna  di  giungere alla vittima.  I quattro audaci lo compresero istantaneamente.

Maledizione!  E adesso come  la  salveremo?  -  sibilò  Sir  Francis serrando i pugni.

Passepartout  era  fuori  di sé;  e il «mahut» aveva un gran da fare a calmarlo.  Imperturbabile,  Phileas Fogg aspettava senza manifestare i propri sentimenti.

Non ci rimane che andarcene - consigliò infine il parsì.

Aspettate  -  disse  allora  Phileas  Fogg.  -  Basta  ch’io sia ad Allahabad domani prima di mezzodì.

Ma che sperate ancora, signor Fogg?! - chiese Sir Francis.

Fra qualche ora spunterà il sole, e...

L’occasione  propizia  che  adesso  ci  sfugge  può   ripresentarsi all’ultimo momento.

L’ufficiale   avrebbe   pagato   per   poter   leggere   negli   occhi imperscrutabili di  quel  freddo  inglese.  Era  forse  intenzione  di Phileas Fogg precipitarsi, al momento del supplizio, sopra i carnefici e  strappare  dalle loro mani la giovane donna?  Ciò sarebbe stato una follia; e come ammettere che il “gentleman” fosse pazzo a tal punto?  Nondimeno Sir  Francis  accettò  con  condiscendenza  di  rimanere  ad assistere alla terribile scena del rogo.

La guida intanto non lasciò i compagni dove si erano rifugiati,  ma li condusse  nel  bosco  di  fronte  alla  pagoda.   Là,   da  un  ottimo nascondiglio naturale, essi avrebbero potuto osservare quanto avveniva sulla spianata del tempio.

Passepartout  con agilità acrobatica andò subito ad appollaiarsi fra i rami.  Rimuginava un’idea germogliatagli chi sa come  nel  cervello  e piantatasi    ostinatamente.  Chi  avesse  potuto ascoltare l’intimo soliloquio del francese,  si sarebbe stupito di pensieri come  questi:

«Quale pazzia!  ...  Ma perché no,  alla fin fine? E’ una possibilità, forse la sola. Con simili fanatici non si scherza!...».  A poco a poco,  Passepartout cominciò a lasciarsi  scivolare  fino  ai rami  più  bassi  che si curvavano verso il suolo.  Lì continuò le sue riflessioni, scrutando attentamente il paesaggio intorno.  Le ore trascorsero.  Si annunciarono infine le prime tinte  dell’alba; tuttavia l’oscurità era ancora profonda.

Vi  fu  come  una risurrezione improvvisa in quella folla assopita.  I gruppi di dormienti sulla spianata della pagoda si animarono,  sorsero in  piedi.  Il  «tam-tam» tornò a rullare lugubremente.  Canti e grida scoppiarono all’interno ed al di fuori del tempio.  Era giunta l’ora in cui la vittima doveva morire.  Infatti le porte della pagoda si spalancarono.  Ne uscì un  fiotto  di luce  vivida.  E  in  quel chiarore apparve ben visibile il gruppo dei sacerdoti indù che trascinavano la giovane donna,  ora non più  inerte come il giorno innanzi.  Pareva che, scuotendo l’intorpidimento fatale dell’oppio,   con  un  supremo  istinto  di  conservazione  l’infelice tentasse di sfuggire ai suoi carnefici.

Sir  Francis  Cromarty  afferrò  convulsamente  la mano di Sir Phileas Fogg: e sentì che quella  mano  impugnava  un  coltello  con  la  lama scoperta.  La folla ondeggiò, si compose in processione e mosse dietro ai bramini i quali presero il sentiero verso il fiume.  La giovane donna era ricaduta nel torpore. Passò,  scortata dai fakiri che cantavano lente salmodie.

Phileas  Fogg e i compagni,  confondendosi tra gli ultimi gruppi della folla, seguirono il tragico corteo.

Sulla riva del fiume dove esso si  fermò,  poterono  portarsi  ad  una cinquantina di passi dal rogo.  Videro,  fra l’incerto crepuscolo,  la vittima bella assolutamente inerte,  stesa  accanto  al  cadavere  del vecchio rajah.

Una  torcia  fu  avvicinata  alla catasta: la fiamma divampò e crepitò sinistramente sul legno asperso d’olio e di resine.  Sir Francis Cromarty e l’indù dovettero faticare a trattenere  Phileas Fogg  che  in  un  impeto  di generosità si slanciava verso la catasta ardente.

Il “gentleman” li respinse;  e già stava per  svincolarsi,  quando  la scena mutò d’improvviso.

Grida  altissime  lacerarono  l’aria.  Tutta quella folla si prostrò a terra spaventata, tremante.

Il vecchio rajah non era dunque morto!  Infatti  ognuno  aveva  potuto vederlo  rizzarsi  ad  un  tratto,  sollevare sulle braccia la giovane donna,  e,  spettrale,  simile ad un’apparizione d’oltretomba  fra  le spire di fumo e le lingue di fuoco che gli danzavano intorno, scendere dal rogo.

I fakiri,  le guardie, i bramini, colti da un sacro terrore, senza più osar alzare gli occhi sullo spaventoso prodigio,  stavano là,  con  la faccia a terra.  I loro dorsi incurvati facevano l’effetto di un campo di spighe piegate dal soffio dell’uragano.  E la  vittima  inanimata  avanzava,  sulle  braccia  vigorose  che  la reggevano come se avesse la levità d’una piuma.  Anche il parsì aveva chinato la fronte al suolo. Soltanto Phileas Fogg e Sir Cromarty erano rimasti in piedi.

Quel  risuscitato  fendé senza ostacoli la calca genuflessa,  e giunse vicino ai due inglesi.

Via! Diamocela a gambe! - sibilò.

Era Passepartout in persona.

Egli aveva strappato la giovane donna  alla  morte.  Fortunato  quanto audace, passava ora sicuro in mezzo allo spavento generale. Un istante dopo,  i rapitori con la preda sparivano nella selva;  e l’elefante li portava via al trotto.

Ma quasi subito echeggiarono grida e clamori.  Un’orda di  guardie  si slanciò  all’inseguimento dei fuggitivi.  Rintronò una scarica;  e una palla forò il cappello di Phileas Fogg.

Il rapimento era stato scoperto.  Difatti adesso sul  rogo  si  vedeva spiccare il corpo del vecchio rajah.

Ma  troppo  tardi  i  sacerdoti  indù  si erano riavuti dal loro sacro terrore: Kiunì,  incitato dal bravo «mahut»,  correndo  attraverso  la foresta  portava  ormai  fuori  dal tiro delle palle e delle frecce la signora Auda e i suoi salvatori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

14.

PHILEAS FOGG PERCORRE TUTTA L’AMMIREVOLE VALLE DEL GANGE SENZA NEPPURE PENSARE A GUARDARLA.

Il  coraggioso  rapimento  era  dunque  riuscito.  Un’ora  più  tardi, Passepartout rideva ancora del proprio successo.  Sir Francis Cromarty aveva stretto la mano al coraggioso giovane.  Il suo padrone gli aveva detto: «Bene»,  il che, sulla bocca di questo “gentleman” equivaleva a una solenne approvazione.  E Passepartout  aveva  risposto  che  tutto l’onore della faccenda andava al suo padrone. Da parte sua, egli aveva avuto  soltanto un’idea «stramba» e sorrideva pensando che per qualche istante lui, Passepartout, ex-ginnasta ed ex-sergente dei pompieri era stato  il  vedovo  di  una  donna  meravigliosa,   un  vecchio   rajah imbalsamato!

Quanto alla giovane indiana,  lei non si era neppure accorta di quanto era successo.  Avviluppata nelle coperte da viaggio  riposava  in  una delle sedie adattate al fianco dell’elefante.  Tuttavia  l’elefante,  guidato con molta sicurezza dal parsì,  correva rapidamente nella foresta ancora immersa  nell’oscurità.  Un’ora  dopo avere  lasciato  la  pagoda  di  Pillaji,  si  slanciò per una pianura smisurata. Alle sette, si fece una sosta. La giovane era sempre in uno stato di prostrazione completa.  La guida le fece  bere  alcune  gocce d’acqua  e  di  “brandy”,   ma  gli  effetti  dello  stupefacente  che l’accasciavano dovevano durare ancora un po’ di tempo.  Sir Francis  Cromarty,  che  conosceva  gli  effetti  dell’ubriachezza prodotta  dall’inalazione  del  fumo della canapa,  non nutriva alcuna inquietudine nei suoi confronti.

Se però il ristabilimento  della  giovane  indiana  non  poneva  degli interrogativi al buon brigadiere generale, egli si mostrava molto meno sicuro  riguardo  al futuro della ragazza.  Non esitò a dire a Phileas Fogg che la signora Auda, se fosse rimasta in India,  sarebbe ricaduta inevitabilmente nelle mani dei suoi carnefici. Quegli energumeni erano presenti  in  tutta  la  penisola indiana e certamente,  nonostante la polizia inglese, avrebbero saputo riprendersi quella vittima, anche se si fosse rifugiata a Madras,  a Bombay o a Calcutta.  E a sostegno del suo timore,  Sir Francis Cromarty citava un fatto analogo verificatosi qualche tempo prima.  Secondo lui,  la giovane sarebbe stata veramente al sicuro solo dopo avere lasciato l’India.  Phileas Fogg rispose che avrebbe tenuto conto di queste osservazioni e che avrebbe provveduto.

Verso  le  dieci,  la  guida  annunciava  che  stavano  arrivando alla stazione di Allahabad.  Riprendeva in quella città la  via  interrotta della  ferrovia,  mediante  la  quale  i treni collegavano Allahabad a Calcutta con un viaggio che durava meno di un giorno e una notte.  Phileas Fogg avrebbe dovuto arrivare in tempo  perciò  a  prendere  il piroscafo   che  doveva  partire  solo  l’indomani,   25  ottobre,   a mezzogiorno, per Hong Kong.

La giovane indiana venne fatta accomodare in una sala della  stazione.  Passepartout venne incaricato di andarle a comprare diversi oggetti di “toilette”,  vestiti,  scialli,  pellicce eccetera, quello che avrebbe trovato. Il suo padrone gli accordava una fiducia completa.  Passepartout partì immediatamente e percorse in  gran  fretta  le  vie della  città.  Allahabad  è  la  città di Dio,  una delle più venerate dell’India, perché è edificata alla confluenza di due fiumi sacri,  il Gange  e  la  Jumna,  le  cui  acque  attirano  pellegrini da tutta la penisola. E’ noto d’altronde che, secondo le leggende del Ramayana, il Gange ha le sue sorgenti nel cielo, da cui, grazie a Brahma,  discende sulla terra.

Pur impegnato nelle sue compere, Passepartout prese ben presto visione della città,  difesa in altri tempi da un magnifico forte divenuto poi prigione statale.  In quella città,  un tempo piena d’industrie  e  di commerci, industrie e commerci sono spariti. Passepartout, che cercava invano un salone delle novità, come se fosse stato in Regent Street, a pochi  passi  da Farmer et Co.,  trovò solo presso un vecchio mercante ebreo pieno di pretese quello che gli serviva: un  vestito  di  stoffa scozzese,  un pesante mantello e una magnifica pelliccia di lontra che non esitò a pagare 75 sterline.  Poi,  tutto trionfante,  fece ritorno alla stazione.

La  signora  Auda  cominciava  a tornare in sé.  Mano mano che svaniva l’effetto dello stupefacente a cui l’avevano sottoposta i sacerdoti di Pillaji,  i suoi begli occhi riacquistavano  tutta  la  loro  dolcezza indiana.  Quando  il  re  poeta Ushaf Uddaul celebra le bellezze della regina di Ahmadgnagar,  si esprime in questo  modo:  «La  sua  lucente capigliatura,  regolarmente  divisa in due parti,  inquadra i contorni armoniosi delle due guance delicate e avoriate, brillanti di pulizia e di freschezza.  Le sue sopracciglia nere come l’ebano hanno la forma e la potenza dell’arco di Kama, il dio dell’amore, e sotto le sue lunghe ciglia  di  seta,  nella  nera  pupilla dei suoi grandi occhi limpidi, navigano come nei laghi sacri dell’Himalaia i riflessi più puri  della luce celeste. Fini, eguali e bianchissimi risplendono i suoi denti tra le  sorridenti  labbra,  come gocce di rugiada all’interno di un fiore semiaperto  di  melograno.  Le  sue  minuscole  orecchie  dalle  curve simmetriche,  le sue mani vermiglie, i suoi piedini incurvati e teneri come le gemme del loto, brillano dello splendore delle più belle perle dello Sri Lanka e dei più bei diamanti  di  Colgond.  La  sua  cintura minuscola  e leggera,  che una sola mano riesce a stringere,  mette in risalto l’elegante curvatura dei fianchi arrotondati e  la  floridezza del  petto sul quale la fiorente giovinezza dispiega i suoi tesori più splendenti e sotto le pieghe di seta della  tunica  sembra  sia  stata modellata  in  argento puro dalla mano divina di Vicvacarma,  l’eterno scultore».

Ma anche senza tutte queste amplificazioni,  è sufficiente dire che la signora  Auda,  la  vedova  del rajah del Bundelkund era una splendida donna in tutta l’accezione  europea  di  questo  complimento.  Parlava l’inglese con grande precisione e la guida non aveva affatto esagerato affermando   che   questa   giovane   parsì   era   stata  trasformata dall’educazione ricevuta.

Il treno intanto stava ormai per lasciare la stazione di Allahabad. Il parsì rimaneva in attesa.  Il signor Fogg gli consegnò il salario  che aveva convenuto,  senza un solo centesimo in più.  Questo sconcertò un poco Passepartout,  che ben sapeva tutto ciò che il suo padrone doveva alla  devozione  di  quella  guida.  Questi  infatti  aveva  rischiato volontariamente la vita nell’affare di Pillaji e se più tardi gli indù ne fossero venuti a conoscenza egli sarebbe ben difficilmente sfuggito alla loro vendetta.

Restava pure la questione di Kiunì.  Che cosa avrebbero  fatto  di  un elefante pagato a così caro prezzo?

Ma Phileas Fogg aveva già preso una decisione a questo proposito.

Parsì,  -  disse  il  “gentleman” alla guida,  - sei stato un amico fedele.  Ho pagato il tuo servizio,  ma non  la  tua  devozione.  Vuoi codesto elefante? Tienilo è tuo.

Gli occhi del «mahut» brillarono.

Oh, vostro onore mi regala una fortuna! - balbettò.

Accettala, «mahut»; e sarò ancora io tuo debitore.

Così sì che va bene!  - applaudì allora Passepartout. - Amico parsì, è giusto che l’elefante resti a te. Oh, tienilo caro: Kiunì è un bravo e coraggioso animale!

E avvicinatosi al bestione,  il francese gli  porse  una  manciata  di zollette di zucchero.  L’elefante le gustò ghiottamente;  poi,  emessa una specie di grugnito di soddisfazione,  prese il giovane per la vita circondandolo con la proboscide e lo sollevò all’altezza della propria testa.

Passepartout,  niente  affatto  spaventato,  fece  una  lunga  carezza all’animale,  il quale piano piano lo ripose a terra.  E qui il  bravo giovanotto si accomiatò da Kiunì stringendogli la proboscide,  proprio come avrebbe scambiato con un amico una vigorosa stretta di mano.  Qualche  istante  dopo,   Phileas  Fogg,   Sir  Francis   Cromarty   e Passepartout, installati in un comodo scompartimento in cui la signora Auda  occupava  il  posto  migliore,  correvano  a  tutto vapore verso Benares.  Ottanta miglia al massimo separano questa città da Allahabad e questa distanza venne percorsa in due ore.  Durante  questo  tragitto,  gli effetti dell’”hang” erano cessati.  La giovane si ridestava a mente sgombra da un sonno profondo quasi quanto il sonno della morte; e fu enorme la sua meraviglia nel trovarsi su di un treno in corsa,  coperta di  vestimenti  all’europea,  in  mezzo  a viaggiatori che le erano assolutamente sconosciuti.  I  suoi  compagni le prodigarono ancora molte premure e la rianimarono con qualche  goccia  di  liquore.  Quindi  Sir  Cromarty  le  raccontò l’avventura  di  cui  essa  era  stata  la protagonista senza saperlo.  L’ufficiale insistette sull’abnegazione di Phileas Fogg che non  aveva esitato a porre in gioco la propria vita nel tentativo di salvataggio; e  concluse  narrando  come  tutto  si fosse risolto grazie all’audace stratagemma di Passepartout.

Il signor Fogg lasciava dire senza  proferir  parola.  Il  servo,  con sincera modestia, si preoccupava di ripetere:

Niente, niente! Io non ho avuto che un’idea burlesca.

Gli splendidi occhi della signora Auda colmi di lacrime espressero più delle  labbra  la  riconoscenza che ella provava per i suoi salvatori.  Improvvisamente,  ricondotta col pensiero alla scena del  “sutty”,  la giovane,  lasciando  errare  lo sguardo sulla terra indiana dove tanti pericoli ancora la minacciavano,  fu colta da un brivido  di  terrore.  Phileas Fogg comprese quel che passava nella mente della signora Auda; e  al  fine di rassicurarla le offrì,  molto freddamente peraltro,  di condurla a Hong Kong dove essa avrebbe potuto rimanere finché si fosse spenta l’eco della vicenda.

La signora Auda, parlando correttamente in lingua inglese, rispose che accettava con riconoscenza l’offerta.  Proprio a Hong Kong  viveva  un parente  di  lei,  anch’egli  di razza parsì,  un certo dottor Jejeeh, ricchissimo mercante di quella città,  che è interamente inglese anche se è appena un puntino sulla costa cinese.  A mezzogiorno e mezzo il treno si fermava alla stazione di Benares.