E questo vale per molte pagine del Mondo, in cui metafore ricche di significato vengono adoperate come se designassero “cose vere”.

Il risultato ambiguo che emerge ci mostra il filosofo che, da un lato, si rivolge ai desideri umani perché sono più interessanti e ci fanno “capire meglio come va il mondo”, rispetto per esempio alle leggi della fisica, e che, da un altro, pretende di fare dei desideri la “sostanza” segreta del mondo. La volontà viene infatti, con un passaggio alquanto scorretto, ritrovata in tutti gli eventi dell’universo, anche in quelli della natura: la volontà è l’essenza del mondo. Solo nei Supplementi Schopenhauer accetterà che una considerazione può essere importante anche se non si appoggia ad una essenza assoluta, e potrà finalmente restringere il suo discorso sulla volontà alla volontà umana – restituendo agli individui la responsabilità – ed affermando che la volontà nella natura si può solo ipotizzare (cfr. Cap. 18 Della conoscibilità della cosa in sé).

Non a caso, il passaggio scorretto che da un desiderio soggettivo deduce l’esistenza della volontà come essenza del mondo, Schopenhauer lo fa precedere da una trattazione sul solipsismo (par. 19), definito come una follia inconfutabile, che l’uomo sano di mente tralascia. Egli trae questo argomento da Hume, ma dimentica di mettere a fuoco che il solipsismo, secondo il filosofo scozzese, si può tralasciare quando si adotta una conoscenza pragmatica e di senso comune. Schopenhauer invece pretende di sorvolare l”inconfutabile” solipsismo mantenendo fermo il concetto tradizionale di verità. Non se la sente, insomma, di privilegiare filosoficamente i desideri e le esperienze umane senza appoggiarli ad una verità oggettiva. E come non capirlo, se pensiamo che anche Freud è molto attento quando parla di emozioni, ben consapevole che esse vanno trattate con un altro paradigma di scienza? E anche oggi la storia continua: per ansia di oggettività si rischia di perdere il contatto con il complicato territorio delle emozioni.

Nel passaggio cruciale del Mondo – dalla questione gnoseologica alle esperienze della vita – Schopenhauer appare come frenato dal turbamento che c’è nella sua mente: se privilegia le emozioni e i desideri si ritrova in un mondo empirico, popolato di individui, i cui pensieri difficilmente possono essere “oggettivi”. Se invece privilegia la verità oggettiva è costretto a fare della volontà una sorta di essenza cosale del mondo, e quindi a marginalizzare l’esistenza dei singoli individui, con i loro pensieri e i loro desideri.

La tentazione di sfuggire ad un mondo frammentato sacrificando gli individui e i loro pensieri ad una essenza che anche se insensata è tuttavia totale, è forte, ma certamente anche in conflitto con l’interesse di Schopenhauer per le cose umane: la volontà totale – punto di origine del dionisiaco di Nietzsche – che divora se stessa e si agita senza fine e senza meta, è così nel Mondo oggetto insieme di attrazione e di repulsione.

3. Quando parla dell’arte, nel terzo libro, Schopenhauer sembra mettere da parte la verità assoluta, e scrive pagine molto belle, nelle quali percorre vie che passano attraverso la ricchezza del sentire e la preziosità delle metafore, fino a culminare in quel racconto del tumulto delle emozioni che è per lui la musica (par. 52).

A proposito dell’arte emerge un motivo che avrà poi nei Supplementi la sua piena espressione: la differenza tra la volontà rozza e primitiva propria dei bisogni e quella più raffinata che si esprime nei sentimenti. L’autore parla infatti dell’arte come di una «conoscenza della volontà», e questa appare tutta diversa da quella conoscenza logico-quantitativa criticata nel primo libro. È una conoscenza, questa, che non risponde alla domanda «è vero o è falso ?» ma piuttosto alla domanda «è soddisfacente, è emotivamente ricco, è bello?». Essa emerge quando ci si è staccati dalla volontà più rozza. Non può che intendersi così l’affermazione di Schopenhauer secondo la quale la conoscenza artistica deve «staccarsi» dalla volontà: se non si trattasse di una conoscenza di tipo affettivo, come potrebbe l’arte avere il suo culmine nella musica, che è per lui il racconto del tumulto delle emozioni? Lui stesso nota che un’arte senza emozioni sarebbe insignificante (par. 43).

E così il chiaroscuro comincia a trovare il suo spazio nella filosofia di Schopenhauer, sfumando quella luce accecante della verità assoluta che a volte lui cerca perfino nelle opere d’arte, ostentando, specialmente nella pittura e nella scultura, un gusto iperclassico che forse stava già mettendo in crisi.

Sembra insomma che nella mente di Schopenhauer l’attenzione ai risvolti dell’animo umano sempre più prevalga sulla ricerca della verità oggettiva; ed è proprio in questo caso che la sua grandezza ci travolge: perché allora può far uso della metafora, e può accettare che il pensiero, l’immaginazione, la fantasia abbelliscono la vita, anche se esse sono qualità solo soggettive, e forse solo un raffinamento dei nostri bisogni elementari.

Tutto il materiale e tutti i pensieri si riversano poi nel quarto libro, il più importante per Schopenhauer, perché tratta del comportamento umano. Anche qui, come nel resto dell’opera, ci imbattiamo in sprazzi di profonda umanità e vitalità, accanto a luoghi più mortiferi nei quali sembra prevalere l’adesione ad una “volontà oggettiva” che non ha cura degli individui, e nella quale la forza sembra avere la meglio sulla difficile ricerca del significato.

L’aporia di fondo, ora che Schopenhauer si sofferma sulle possibilità di una vita buona, diventa ancora più stridente: privilegiare la volontà come un soggetto totale, significa infatti non interessarsi più alla sorte dei miseri individui, i quali accettano il loro destino, senza temere né dolore né morte, perché hanno già rinunziato a se stessi. Ma questa prospettiva ripugna al pensatore che tanto valore ha dato alla vita emotiva, per il quale la parte pregevole dell’esistenza consiste proprio nella capacità degli esseri umani di sentire e provare emozioni, come ci ha mostrato nelle pagine dedicate all’arte.

Il discorso del quarto libro è particolarmente spinoso: sottomettere gli individui ad un “tutto che è” può forse rassicurare il filosofo sul fatto che il mondo, per quanto caotico e privo di fini, abbia tuttavia una sua unità, non scalfita da punti di vista. Ma Schopenhauer, per la sua formazione liberale e anche perché apprezza molto i sentimenti, non si esime – come farà invece Nietzsche, e molti altri al suo seguito – dal delibare le possibili conseguenze etiche ed esistenziali di una soluzione di questo tipo.

Si tratta di scegliere: o si privilegia la oggettività, ma si calpestano i diritti umani (intesi in senso ampio, come capacità), oppure si dà spazio agli individui, e allora si deve lavorare su una base frammentaria ed imperfetta, a partire dalla quale i legami vanno faticosamente costruiti. Come vedremo, è da questo groviglio che viene fuori la prospettiva dell’ascesi.

Liberale convinto, Schopenhauer non può fare a meno di teorizzare che lo stato è stato di diritto, nato da un contratto sociale, il quale, lungi dalle intromissioni dello stato etico, si limita a garantire la libertà negativa (cfr. par. 62). E tuttavia, con la sua sensibilità esistenziale, un discorso sulla convivenza umana che si limitasse a questo, gli sarebbe sembrato riduttivo. Prova così a teorizzare anche una libertà positiva, capace di coinvolgere i desideri dell’individuo in qualche grande ideale. Gli preme insomma che il discorso non riguardi solo il diritto, ma anche la morale.

La giustizia dovrebbe essere integrata dall’amore, prova a pensare Schopenhauer. Ma un amore che parte da individui i cui diritti vengono così fortemente tutelati, quali garanzie potrebbe dare? Non sarà, un amore di questo tipo, inquinato dall’egoismo sempre pronto a riemergere? E se anche qualcuno talvolta si apre al suo prossimo, non sarà questa un’operazione sempre provvisoria e imperfetta?

Schopenhauer, in questa fase delle sue meditazioni, non riesce a concepire come ci si possa infiammare per un ideale imperfetto. Il rapporto con gli altri sarà invero sempre poco valutato dal filosofo (il quale si toglie così una delle possibilità più valide che si aprono per gli individui finiti di dare un senso a sé e alla propria vita). Ma ora il problema è quasi strutturale, perché per lui ogni soluzione umana e finita non può che soggiacere al celebre pendolo tra desiderio e noia.

La sua ansia di assoluto gli fa così preferire, alla fine, una morale nella quale il punto saliente non è la rinunzia al proprio egoismo e l’apertura agli altri, ma una morale la quale – in modo altamente aporetico, invero, perché senza intersoggettività esistono solo gusti – esige la rinunzia al principium individuationis, e l’adesione ad una ideologia in cui non si tiene conto del punto di vista degli individui, ma solo di quello del “Tutto”.

Chi subisce un torto, opina Schopenhauer (par.