63), da un punto di vista morale non deve rivendicare il suo diritto, ma piuttosto pensare che l’offesa ricade anche sull’offensore, perché la volontà non è frammentata tra gli individui, ma è unica. La giusta esigenza di umanizzare una giustizia troppo rigida e fredda, rischia però di ribaltarsi in tal modo in una cancellazione dei diritti e anche della dignità degli individui. E se la rinunzia al proprio diritto può essere un gusto lecito, il problema esplode quando sono in ballo i diritti di terzi; e come si può concepire in positivo un’azione compiuta in nome della volontà unica?
Solo un paio di volte Schopenhauer prova a pensare ad un’azione individuale positiva compiuta da chi si sente rappresentante del Tutto (par. 54, par. 64): ma probabilmente ne è talmente inorridito, che imbocca solo la via negativa della rinunzia: teorizza quindi che l’amore imperfetto (sul quale peraltro scrive pagine molto belle, par. 66) sia sostituito dalla compassione, il cui tratto caratteristico non consiste, come avverrà nei Supplementi, nella comprensione di un altro essere vivente, ma piuttosto in una meditazione sul dolore della vita, e quindi in una preparazione al distacco totale da essa, realizzato nell’ascesi.
Tralascio i riferimenti al brahmanesimo e al buddhismo, che sono immensi continenti, nei quali si trovano molti modi di intendere l’ascesi. Mi pare più importante cercare di capire perché Schopenhauer è stato così attratto da questo vissuto. In linea con quanto il filosofo dice nell’estetica, l’ascesi potrebbe rappresentare quel punto di svolta in cui ci si stacca dall’elemento “primario” (direbbe Freud) della psiche – nel quale impera il bisogno elementare e primitivo, bisogno che nei Supplementi verrà chiamato il «sultano sul divano», che comanda: sì o no (Cap. 19) – per fare spazio ad un desiderio capace di raffinarsi, di pensarsi, di comunicare con altre menti. Nei Supplementi l’ascesi assumerà queste caratteristiche, e sarà vista come la capacità di staccarsi dalla immediatezza del bisogno egoista, guadagnando in ampiezza e in libertà. Un’ascesi così intesa potrà essere utilizzata nella vita, nell’arte, nella convivenza umana, e perfino nell’amore sessuale: quante volte, scrive Schopenhauer nel lungo e bellissimo capitolo sull’amore sessuale (Cap. 44) l’innamorato sacrifica la sua sopravvivenza per seguire una grande emozione?
Se nel Mondo l’ascesi è invece rappresentata come distacco da tutto, lo si deve alla ansia di assoluto del filosofo, che anche se fa leva su un’attività umana – la capacità di pensare – la deve configurare come una struttura “totale”. Che questa totalità sia però vista solo in negativo, ci mostra che Schopenhauer l’ha già messa in crisi, e che, seguendo la sua ispirazione più autentica, sempre più si concentra sulle esperienze degli individui. Alcune delle quali – la ricchezza emotiva dell’arte, la commossa e partecipata descrizione del dolore e della infelicità, e timidamente anche l’amore – già sono apparse nel loro significato profondo e vitale, anche se sono solo pensieri, e non hanno altra forza che la capacità di persuadere.
MARCELLA D’ABBIERO
Nota biobibliografica
LA VITA
Arthur Schopenhauer nasce il 22 febbraio 1788 a Danzica, importante città della Lega Anseatica, dall’agiato commerciante Heinrich Floris Schopenhauer, e da Johanna Henriette Trosiener. La famiglia, di origine olandese, si fregia del motto araldico: «Point de bonheur sans liberté» («Non vi è felicità senza libertà»), che ben si addice al carattere indipendente ed orgoglioso del filosofo, di cui Nietzsche dirà: «Niemandem war er untertan!» («Egli non fu soggetto a nessuno!»). Caduta la città sotto il dominio prussiano, il padre, di sentimenti repubblicani, si trasferisce per protesta ad Amburgo, insieme con la famiglia e la ditta. Nel 1797, nasce la sorella Louise Adelaide (Adele) e Arthur è inviato per due anni a Le Havre, allo scopo di apprendere il francese. Tornato ad Amburgo nel 1799 entra, contro voglia, nella scuola di avviamento commerciale del Dr. Runge. Dopo un viaggio di tre mesi a Karlsbad e a Praga nel 1800, negli anni 1803-1804 si reca con i genitori in Olanda, Inghilterra, Francia, Svizzera ed Austria, fissando nei diari le sue impressioni e dichiarando di preferire al vacuo suono delle parole la conoscenza acquistata mediante l’osservazione diretta della realtà, onde non incorrere nel pericolo di scambiare le parole per le cose. Al suo ritorno ad Amburgo nel 1805, riprende la sua formazione commerciale presso la ditta Jenisch. Il 20 aprile muore il padre, forse suicida. La madre, liquidata la ditta, si trasferisce con Adele a Weimar, dove intrattiene un salotto letterario frequentato da Goethe e da molti intellettuali, ed inizia una fervida attività di scrittrice di saggi, romanzi, relazioni di viaggio e biografie, riportando un notevole successo. Nel 1807, interrotti gli studi commerciali, frequenta privatamente il ginnasio a Gotha e a Weimar. Nel 1809, divenuto maggiorenne, entra in possesso dell’eredità paterna, e si iscrive all’università di Göttingen, dapprima nella facoltà di medicina, quindi in quella filosofica, nutrendo al tempo stesso un vivo interesse per discipline quali la fisica, la chimica, la botanica, la fisiologia, l’anatomia. Il filosofo Gottlob Ernst Schulze lo esorta allo studio di Platone e di Kant, che si riveleranno per lui di fondamentale importanza, al pari delle Upanishad, sulle cui pagine era solito meditare prima di recarsi a letto. Dal 1811 al 1813 frequenta l’università di Berlino, dove l’iniziale ammirazione per Fichte e Schleiermacher si viene tramutando in disistima per il loro pensiero. Ivi prosegue ed estende i suoi studi di scienze naturali, ma le agitazioni guerresche lo costringono a presentare la sua tesi di dottorato a Jena, dove il 18 ottobre 1813 si laurea in filosofia. A Weimar incontra spesso Goethe, intento alla sua teoria dei colori. Separatosi dalla madre, a lui sempre invisa, nel 1814 si trasferisce a Dresda, frequentando i circoli letterari della città, i suoi musei e le sue biblioteche.
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