Io non disprezzo i piaceri dei sensi: ho anch’io un palato, che si compiace dei cibi delicati o dei vini deliziosi; ho cuore e occhi, e mi piace contemplare una donna graziosa, mi piace sentire sotto la mano la soda rotondità del suo seno, premere con le mie le sue labbra, attingere la voluttà nei suoi sguardi e spasimare tra le sue braccia. Talora non mi dispiace una partita di piacere, anche un po’ tumultuosa, con gli amici. Tuttavia non vi nasconderò che mi è 26

ancora infinitamente più dolce l’aver soccorso l’infelice, l’aver risolto un affare spinoso, dato un consiglio salutare, fatto una lettura piacevole, una passeggiata con un uomo o con una donna cari al mio cuore, occupato alcune ore nell’educazione dei miei figli, scritto qualcosa di buono, adempiuto ai doveri del mio ufficio, detto a colei che amo cose tenere e dolci che mi attirano le sue braccia intorno al collo. Vi è poi un’azione che vorrei aver compiuta in cambio di tutto ciò che possiedo. Il

“Maometto” è un’opera sublime, eppure io preferirei aver riabilitato la memoria di Calas. Un mio conoscente si era rifugiato a Cartagena; era un cadetto in un paese in cui il costume trasferisce tutto il patrimonio ai primogeniti. Là viene a sapere che il suo fratello primogenito, un ragazzo viziato, dopo aver spogliato il padre e la madre, troppo indulgenti, di tutto quello che possedevano, li aveva scacciati dal loro castello, e che i poveri vecchi languivano in povertà in una piccola città di provincia. Che fa allora questo cadetto, il quale, trattato duramente dai genitori, era andato a cercar fortuna lontano? Manda loro soccorsi; sistema rapidamente i suoi affari; ritorna ricco, riconduce suo padre e sua madre nella loro dimora, dà marito alle sorelle. Ah! mio caro Rameau, quest’uomo considerava quel periodo come il più felice della sua vita. Me ne parlava con le lacrime agli occhi; ed io, mentre vi faccio questo racconto, sento che il cuore mi trema dalla gioia, e il piacere mi impedisce di parlare.

LUI: Siete proprio degli esseri singolari!

IO: E voi siete da compatire, se non riuscite a immaginare che ci si possa elevare al di sopra del proprio destino, e che è impossibile esser infelici all’ombra di due belle azioni come queste.

LUI: Ecco una sorta di felicità con la quale farò fatica a familiarizzarmi, perché la si incontra di rado. Ma, secondo il vostro modo di valutare le cose, si dovrebbe dunque essere onesti?

IO: Per essere felici? Certo.

LUI: Tuttavia io vedo un’infinità di persone oneste che non sono felici, e un’infinità di persone che sono felici senza essere oneste.

IO: Pare a voi così.

LUI: E non è forse a causa di un istante di sincerità e di buon senso che non so dove andare a cena stasera?

IO: Eh, no! E’ piuttosto perché non ne avete avuto sempre, perché non avete capito per tempo che la necessità più urgente era di provvedere a crearvi risorse indipendenti da asservimenti.

LUI: Indipendente o no, la posizione che mi sono fatta è almeno la più comoda.

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IO: E la meno sicura e la meno onesta.

LUI: Ma la più conforme al mio carattere di fannullone, di sciocco, di libertino.

IO: D’accordo.

LUI: E visto che posso fare la mia felicità a mezzo di vizi che mi sono naturali, che ho acquistato senza lavoro, che conservo senza sforzo, che quadrano coi costumi della mia nazione, che vanno a genio ai miei protettori e sono consoni alle loro piccole esigenze individuali, mentre le mie eventuali virtù li metterebbero in imbarazzo, sarebbero una costante accusa, converrete che sarei pazzo a torturarmi come un’anima dannata per evirarmi e farmi diverso da quel che sono; per darmi un carattere estraneo al mio, qualità molto stimabili, ne convengo per non discutere, ma che mi costerebbe molto acquistare e praticare, e che non mi porterebbero a nulla, forse a peggio che nulla, data la costante ironia dei ricchi presso i quali i poveri come me devono cercare la loro sussistenza.

Si loda la virtù, ma la si odia, la si fugge: essa raggela, e in questo mondo bisogna avere i piedi caldi. E poi, mi metterebbe immancabilmente di cattivo umore; perché, infatti, sarebbe così facile trovare tra i devoti tanta gente dura, puntigliosa, insocievole? Accade perché si sono imposti un compito innaturale; soffrono, e quando si soffre si fanno soffrire anche gli altri. Non ci sarebbe alcun vantaggio, né per me né per i miei protettori; io devo mostrarmi gaio, duttile, gradevole, comico, stravagante. La virtù si fa rispettare, e il rispetto è scomodo; la virtù si fa ammirare, e l’ammirazione non è divertente. Io ho a che fare con persone che si annoiano, e ho il dovere di farle ridere. Ora, ciò che fa ridere è il ridicolo, è la pazzia: perciò debbo essere ridicolo e pazzo; e qualora la natura non mi avesse fatto tale, la cosa più sbrigativa sarebbe di apparirlo.

Fortunatamente, non ho bisogno di essere ipocrita; se ne trovano già tanti di ogni colore, senza contare quelli che lo sono con se stessi. Quel cavaliere de La Morlière, che si calca il cappello sull’orecchio, che porta la testa per aria, che guarda il passante al di sopra della spalla, che si fa battere una lunga spada sulla coscia, che ha un insulto sempre pronto per chi non la porta, che sembra rivolgere una sfida al primo venuto, che fa? Tutto quello che può per persuadersi di essere un coraggioso; ma è un vile.

Dategli un pugno proprio sulla punta del naso, e lo incasserà con dolcezza.