Volete fargli abbassare il tono? Alzate il vostro.
Mostrategli il bastone, affibbiategli un calcio fra le natiche: tutto stupito di scoprirsi vile, vi domanderà come lo avete scoperto, da chi lo avete appreso. Lui stesso lo ignorava un attimo prima; la lunga finzione lo aveva suggestionato: aveva tanto scimmiottato il coraggio, che credeva di averne davvero.
E quella donna che si mortifica, che visita le prigioni, che assiste a tutte le riunioni di carità, che cammina con gli occhi bassi, che non ardirebbe guardare in faccia un uomo; sempre in guardia 28
contro la seduzione dei sensi; malgrado tutto questo, può far sì che il suo cuore non bruci, che non le sfuggano sospiri, che il suo temperamento non prenda fuoco, che i desideri non l’ossessionino, e che la sua immaginazione non le rappresenti, notte e giorno, le scene del “Portiere dei Certosini” e le oscenità dell’Aretino? Che cosa diviene, allora? Che ne pensa la sua cameriera quando si alza in camicia e vola al soccorso della padrona in deliquio? Giustina, tornate a coricarvi; la vostra padrona non chiama voi, nel suo delirio.
E l’amico Rameau, se si mettesse un giorno a mostrare disprezzo per la fortuna, le donne, la buona tavola, l’ozio, a fare il Catone, che cosa diverrebbe? Un ipocrita. Rameau deve restare quello che è: un furfante felice in compagnia di furfanti ricchi, e non un fanfarone della virtù o anche un uomo virtuoso, che rosicchia una crosta di pane, solo, o in compagnia di pezzenti…
Per tagliar corto, io non sono per nulla d’accordo con la vostra felicità, né con quella di alcuni altri visionari come voi.
IO: Vedo, mio caro, che voi ignorate cosa sia, e che non siete neppure fatto per apprenderlo.
LUI: Tanto meglio, perdio! Tanto meglio! Il saperlo mi farebbe crepar di fame, di noia e forse di rimorso.
IO: Da quel che dite, il solo consiglio che ho da darvi è di rientrare al più presto nella casa dalla quale vi siete imprudentemente fatto cacciare.
LUI: E di far ciò che voi non disapprovate in senso proprio, e che a me ripugna un po’ in senso figurato.
IO: E’ la mia opinione.
LUI: Al di fuori di questa metafora; che mi dispiace in questo istante, e che mi dispiacerà in un altro.
IO: Che stranezza!
LUI: Non vi è nulla di strano. Voglio essere abietto, ma voglio esserlo senza costrizione. Voglio ben discendere dalla mia dignità… Voi ridete?
IO: Sì, la vostra dignità mi suscita il riso.
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LUI: Ognuno ha la sua. Voglio volentieri dimenticare la mia, ma per mia scelta, non per ordine di un altro. Occorre proprio che mi si dica: “Striscia!”, e che io sia costretto a strisciare? E’ l’andatura del verme, la mia: tanto io che lui l’assumiamo, se ci lasciano in pace, ma ci raddrizziamo appena ci pestano la coda. Mi hanno pestato la coda, e io mi raddrizzerò. Inoltre, non avete idea di che gabbia di matti si trattasse. Immaginate un personaggio malinconico e tetro, distrutto dai nervi, avvolto in due o tre vesti da camera, che dispiace a se stesso, e al quale tutto dispiace, che si riesce a far sorridere appena, storcendo l’anima e il corpo in cento modi diversi, che considera con freddezza le smorfie divertenti del mio viso e quelle ancor più spiritose del mio ingegno; perché, sia detto tra noi, quel padre Noël, quell’antipatico benedettino così famoso per le sue smorfie, malgrado i successi a corte, senza vantarmi, non è in confronto a me che un pulcinella di legno. Ho un bel tormentarmi nello sforzo di attingere le maggiori sommità della follia: non c’è niente da fare.
Riderà? Non riderà? Ecco quel che sono costretto a chiedermi nel mezzo alle contorsioni; e voi potete giudicare quanto questa incertezza sia dannosa al talento. Quell’ipocondriaco, con la testa ficcata dentro un berretto da notte che gli copre gli occhi, ha l’aria di un idolo immobile, al quale fosse stato attaccato un filo che dal mento calasse giù sotto la poltrona. Si aspetta che il filo venga tirato, e il filo non viene tirato affatto, o, se capita che la mascella si schiuda, è per articolare una parola desolante, una parola che vi informa che voi non siete neppure stato visto, e che tutte le vostre smorfie sono sprecate. E questa parola è una risposta alla domanda che gli avrete fatto quattro giorni prima; pronunciata questa parola, il muscolo della mascella si distende e la mascella si richiude…
(Poi si mise a contraffare l’uomo di cui parlava. Si era seduto su una seggiola, con la testa immobile, il cappello calato fino alle palpebre, gli occhi semichiusi, le braccia penzoloni, muovendo la mascella come un automa, e dicendo: “Sì, avete ragione, signorina.
Occorre un po’ di finezza”.) E’ quel che sentenzia, quel che sentenzia sempre, e senza appello, la sera, la mattina, alla toeletta, a pranzo, al caffè, al gioco, a teatro, a cena, a letto, e, Dio mi perdoni, credo anche nelle braccia della propria amante. Non sono in grado di ascoltare queste ultime sentenze, ma sono diabolicamente stanco delle altre.
Triste, oscuro e categorico come il destino, tale è il nostro padrone.
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