Ma ve le ho tanto tormentate, tanto spezzate, tanto rotte… Tu non vuoi andare, ed io, perdio! dico che andrai; e così sarà.
(E così dicendo, con la mano destra si era preso le dita e il polso della mano sinistra, e li rovesciava in su e in giù; l’estremità delle dita toccava il braccio, le giunture scricchiolavano; temevo che le ossa si slogassero).
IO: State attento (gli dissi), vi storpiate.
LUI: Non temete: sono allenate; da dieci anni gliene ho date in ben altra maniera. Ne hanno prese tante, che alla fine si sono abituate, e hanno imparato a poggiarsi sui tasti e a volteggiare sulle corde. Così ora la cosa procede bene.
(Al tempo stesso si mette nella posa di un suonatore di violino; canticchia un allegro di Locatelli; il braccio destro imita il movimento dell’archetto, la mano sinistra e le dita sembrano percorrere la lunghezza del manico; se stona si ferma, aggiusta la corda, la pizzica con l’unghia per assicurarsi che sia a posto, riprende il pezzo dove l’ha lasciato, batte la misura col piede, dimena la testa, i piedi, le mani, le braccia, il corpo; e, come avrete visto talvolta al Concerto spirituale, Ferrari o 14
Chabrian o qualche altro virtuoso, nelle medesime convulsioni, offrirmi l’immagine dello stesso supplizio e causarmi quasi la stessa pena.
Infatti non è forse una cosa penosa vedere il tormento in colui che è intento a rappresentarmi il piacere? Tirate tra quest’uomo e me un sipario che me lo nasconda, se per me esso rappresenta un paziente sottoposto alla tortura. In mezzo alle sue agitazioni ed ai suoi gridi, se si presentava una nota sostenuta, uno di quei luoghi armoniosi in cui l’archetto si muove lentamente su più corde a un tempo, il suo viso prendeva un’aria estatica, la voce si addolciva, egli si ascoltava rapito. E’ certo che gli accordi risuonavano nelle orecchie sue come nelle mie. Poi, rimettendo lo strumento sotto il braccio sinistro con la stessa mano con cui lo teneva, e lasciando cadere la mano destra con l’archetto:) Ebbene (mi diceva), che ne pensate?
IO: Meraviglioso.
LUI: Mi pare che vada: risuona su per giù come gli altri. (E subito si rattrappiva come un musicista che si mette al clavicembalo.) IO: Vi chiedo grazia per voi e per me.
LUI: No, no, poiché siete qui, mi dovete ascoltare. Non so che farmene di un plauso accordato senza sapere perché. Mi loderete con un tono più sicuro, e questo mi procurerà qualche scolaro.
IO: Ho così poche conoscenze: vi affaticherete in pura perdita.
LUI: Non mi affatico mai, io.
(Quando mi accorsi che era inutile aver pietà di lui per il fatto che la suonata sul violino lo aveva immerso in un lago di sudore, presi il partito di lasciarlo fare. Eccolo dunque seduto al clavicembalo, con le gambe piegate, la testa volta al soffitto dove si sarebbe detto che vedesse le note di uno spartito, cantare, preludiare, eseguire un pezzo dell’Alberti o del Galluppi, non so quale dei due. La sua voce andava come il vento, e le dita volteggiavano sui tasti, ora lasciando gli acuti per i bassi, ora abbandonando l’accompagnamento per tornare agli acuti.
Le passioni gli si susseguivano sul viso. Vi si distingueva la tenerezza, la collera, il piacere, il dolore; si sentivano i piano e i forte, e sono sicuro che qualcuno più abile di me avrebbe riconosciuto il pezzo del movimento, dal carattere, dalle espressioni, e da qualche brano di canto che gli sfuggiva ad intervalli. Ma la cosa bizzarra, è che di tanto in tanto andava a tentoni, si riprendeva come avesse sbagliato, e si arrabbiava di non aver più il pezzo tra le dita.) Vedete bene (disse raddrizzandosi e asciugandosi le gocce di sudore che gli scendevano lungo le gote), che anche noi sappiamo collocare un tritono o una quinta eccedente, e che il concatenamento delle dominanti ci è familiare. Questi passaggi enarmonici per cui il caro zio ha fatto tanto rumore, non sono poi una cosa così terribile: noi riusciamo a cavarcela.
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IO: Vi siete dato molta pena per mostrarmi di essere assai abile; ma io ero uomo da credervi in parola.
LUI: Assai abile? Oh, no! Quanto al mio mestiere, lo conosco in modo approssimativo, ed è più di quel che occorra; perché, in questo paese si è forse costretti a sapere quel che si finge di sapere?
IO: Non più che sapere quel che si insegna.
LUI: E’ giusto, perdio! è molto giusto. Signor filosofo, mettetevi una mano sulla coscienza, parlate schietto: vi è stato un tempo nel quale voi non eravate così ben messo come ora?
IO: Non lo sono ancora abbastanza.
LUI: Ma non andreste più al giardino del Lussemburgo, d’estate…
Vi ricordate?
IO: Lasciamo andare; sì, me ne ricordo.
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