Oltre di ciò i padri dovrebbon sempre eccedere i lor figliuoli almeno di ventiotto o di trent’anni, conciosia cosa che, di meno eccedendoli, son anco nel vigor dell’età quando la giovinezza de’ figliuoli comincia a fiorire; onde né essi hanno sopite ancora tutte quelle voglie le quali, se non per altro, almeno per essempio de’ figliuoli debbon moderare, né lor da’ figliuoli è portato a Op. Grande biblioteca della letteratura italiana 8
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pieno quel rispetto che si dee al padre, ma quasi compagni e fratelli son molte fiate nel conversare, e talora, il ch’è più disdicevole, rivali e competi-tori nell’amore. Ma se di molto maggiore numero d’anni eccedessero, non potrebbono i padri ammaestrare i figliuoli e sarebbon vicini alla decrepità quando i figliuoli fossero ancor nella infanzia o nella prima fanciulezza, né da lor potrebbono quell’aiuto attendere e quella gratitudine che tanto dalla natura è desiderata. E in questo proposito mi ricordo che, leggendo Lucrezio, ho considerata quella leggiadra forma di parlare ch’egli usa: “Natis munire senectam”; percioch’i figliuoli sono per natura difesa e fortezza del padre, né tali potrebbon essere s’in età ferma e vigorosa non fossero quando i padri alla vecchiaia sono arrivati; alla quale voi essendo già vicino, mi par che non meno dell’età che delle altre condizioni de’ vostri figliuoli debbiate esser sodisfatto e rimaner parimente che ‘l vostro maggior figliuolo oltre il piacere, che ragionevole certo è molto, non cerchi di piacervi nel prender moglie, la quale fra dieci o dodici anni assai a tempo prenderà.
Io m’accorgeva, mentre queste cose diceva, che più al figliuolo ch’al padre il mio ragionamento era grato; ed egli, del mio accorgere accorgen-dosi, con volto ridente disse: Non in tutto indarno sarò oggi uscito fuori alla caccia, poiché non solo ho fatto preda, ma, quel ch’anco non isperai, così buono avocato nella mia causa ho ritrovato. Così dicendo, mi mise su
‘l piattello alcune parti più delicate del capriolo, che parte era stato arrostito e parte condito in una maniera di manicaretti assai piacevole al gusto. Venne co ‘l capriolo compartito in due piatti alquanto di cinghiaro, concio secondo il costume della mia patria in brodo lardiero, e in due altri due paia di piccioni, l’uno arrosto e l’altro lesso; e il padre di famiglia disse allora: Il cinghiaro è preda d’un gentiluomo nostro amico e vicino, il qual con mio figliuolo suole il più delle volte accomunar le prede, e i piccioni sono stati presi da una colombaia: e in queste poche vivande sarà ristretta la nostra cena, perch’il bue si porta più tosto per un cotal riempimento delle mense che perché da alcuno in questa stagione ancor calda sia gustato. A me basterà, dissi io, se pur non è soverchio, il mangiar delle due sorti di carni salvatiche, e mi parrà d’essere a cena con gli eroi, al tempo de’ quali non si legge che si mangiasse altra carne che di bue, di porco e di cervo o d’altri somiglianti: percioché i conviti d’Agamennone, come si legge in Omero, tutto che per opinion di Luciano meritasser d’aver Nestore quasi per parasito, non eran d’altre vivande composti; e i compagni d’Ulisse non per cupidità di fagiani o di pernici, ma per mangiare i buoi del sole sopportarono tante Op. Grande biblioteca della letteratura italiana 9
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sciagure. Vergilio parimente, per non dilungarsi da questo costume, introduce Enea che nell’Africa uccide sette cervi: ove per altro non di cervi, ma d’alcuna sorte d’augelli doveva far preda, perciò che nell’Africa non nascono cervi; ma mentre egli volle aver riguardo alla convenevolezza e al costume degli eroi, si dimenticò, o dimenticar si volle, di quel ch’era proprio di quella provincia. E perché, disse il buon vecchio, è stato finto da’ poeti che gli eroi solo di sì fatte carni mangiassero? Perché, risposi, son di gran nutrimento, ed essi, come coloro che molto nelle fatiche s’essercitavano, di gran nutrimento avevan bisogno, il quale non posson dare gli uccelli, che molto agevolmente son digeriti; ma le carni degli animali selvaggi, benché sian di gran nutrimento, sono nondimeno sane molto, perché son molto essercitate, e la lor grassezza è molto più naturale che non è quella de’ porci o d’altro animale che studiosamente s’ingrassi, sì che non sì tosto stucca come quella farebbe degli animali domestici. E convenevolmente fu detto da Virgilio: Implentur veteris Bacchi pinguisque ferinae, perché ne mangiavano a corpo pieno senza alcuna noiosa sazietà.
Qui mi taceva io; quando il buon padre di famiglia così cominciò: La menzione che voi avete fatta del vino e de’ tempi eroici mi fa sovvenire di quel che da alcuni osservatori d’Omero ho udito, cioè ch’egli sempre, lo-dando il vino, il chiamava nero e dolce, le quali due condizioni non son molto lodevoli nel vino; e tanto più mi par maraviglioso ch’egli dia sì fatta lode al vino, quanto più mi par d’aver osservato ch’i vini che di Levante a noi sono recati sian di color bianco, come sono le malvagìe e le romanìe e altri sì fatti ch’io in Vinezia ho bevuti: oltre ch’i vini che nel regno di Napoli greci son chiamati, i quali peraventura sortirono questo nome perché le viti di Grecia furono portate, sono bianchi o dorati più tosto di colore, sì come dorato è quel di tutti gli altri de’ quali abbiamo ragionato, e bianchi sono più propriamente i vini del Reno, di Germania e gli altri che nascono in paese freddo ove il sole non ha tanto vigore che possa a fatto maturar l’uve inanzi la stagione della vindemmia, se ben forse il modo ancora, co’ quali son fatti, di quella bianchezza è cagione. Quivi egli taceva; quando io risposi: I vini son da Omero detti dolci con quella maniera di metafora con la quale tutte le cose, o grate a’ sensi o care all’animo, dolci sono addomandate, se ben io non negherò ch’egli il vino alquanto dolcetto non potesse amare, il quale a me ancora suol molto piacere, e questa dolcezza sin a certo termi-Op. Grande biblioteca della letteratura italiana 10
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ne non è spiacevole nel vino; e le malvagìe e i grechi e le romanìe, delle quali abbiam fatta menzione, tutte hanno alquanto del dolce, la qual dolcezza si perde con la vecchiaia: onde si legge: “Ingere mihi calices amariores”, non perch’il poeta desiderasse il vino amaro, ch’alcun non è a cui l’amaritudine nel vino non fosse spiacevole, ma perch’il vin vecchio, per-dendo la dolcezza, acquista quella forza piena d’austerità ch’egli chiama amaritudine. Onde vorrei che così intendeste che da Omero sia chiamato il vin dolce come da Catullo è chiamato amaro: negro poi il chiama Omero, avendo forse riguardo ad alcun vin particolare ch’in quel tempo fosse in pregio come è ora la lacrima, la quale, tutto che sia premuta da quell’uve stesse dalle quali è espresso il greco, è nondimeno di color vermiglio.
Così diceva io; e avendo la prima volta co’ melloni assaggiato d’un vin bianco assai generoso, invitato da lui bevvi un’altra volta d’un claretto molto dilicato, e traponendo tra ‘l mangiare alcuna parola, la lieta cena quasi al suo fine conducemmo; per che, levate le carni e i manicaretti di tavola, vi furono posti frutti d’ogni sorte in molta copia, de’ quali poi ch’alquanti ebbe il buon vecchio solamente gustati, così a ragionar cominciò: Io ho molte fiate udito questionar della nobiltà delle stagioni e ho due lettere vedute che stampate si leggono, del Muzio l’una e del Tasso l’altra, nelle quali tra ‘l verno e la state di nobiltà si contende; ma a me pare che niuna stagione all’autunno possa paragonarsi, percioché la state e ‘l verno co ‘l soverchio del freddo e del caldo sono altrui tanto noiose che né l’una co’ frutti né l’altra co’ giuochi e con gli spettacoli può la sua noia temperare: e sono impedimento non solo al nocchiero, che nel verno non ardisce uscir del porto, e al peregrino e al soldato e al cacciatore, ch’or sotto un’ombra, or sotto un tetto d’una chiesa tra’ boschi dirupata sono necessitati di ripararsi da gli ardori intolerabili e da’ nembi e dalle pioggie e dalle procelle che sopragiungono all’improvviso; ma al padre di famiglia eziandio, che non può senza molto suo discommodo i suoi campi andar visitando. L’una stagion poi è tutta piena di fatica e di sudore, né gode de’ frutti ch’ella raccoglie se non in picciola parte; l’altra, pigra e neghittosa, tra l’ozio e la crapula ingiu-stamente consuma e disperde quel che dalle fatiche altrui l’è stato acquista-to. La quale ingiustizia si conosce egualmente nella disegualità delle notti e de’ giorni, percioché nel verno il giorno, che per natura è di degnità superiore, cede alla notte, dalla quale è irragionevole ch’egli sia superato, e breve e freddo e nubiloso non concede a gli uomini convenevole spazio d’operare o Op. Grande biblioteca della letteratura italiana 11
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di contemplare, sì che l’operazioni e le contemplazioni sono nella notte riserbate: tempo all’une e all’altre poco opportuno, come quello in cui i sensi, che son ministri dell’intelletto, non possono intieramente il loro ufficio essercitare. Ma nella state il giorno divien vincitore non come giusto signore, ma come tiranno, il qual s’usurpa molto più della parte conveniente, non lassando alla notte pure tanto spazio ch’ella possa a bastanza ristorare i corpi risoluti dal soverchio caldo e afflitti dalle fatiche del giorno; della cui brevità non solo gli amanti, che lunghissime le vorrebbono, soglion lamentarsi, ma la buona madre di famiglia ancora, ch’in quell’ora che nelle braccia del marito vorrebbe di nuovo addormentarsi, è da lui desta e abbandonata.
Così diceva il buon padre, con un cotal sorriso lieto riguardando la sua donna, ch’a quelle parole, tinta alquanto di vergogna, chinò gli occhi; e poi seguitò: Queste sono le noie e gli incommodi, se non m’inganno, del verno e della state, delle quali la primavera e l’autunno son privi, e son pieni di mille diletti: e in loro il sole, giustissimo signore, rende così eguali le notti al giorno che l’uno dell’altro con ragion non può lamentarsi. Ma se vorremo anco della primavera e dell’autunno far paragone, troveremo che tanto la primavera dell’autunno dee esser giudicata inferiore, quanto è ragionevole che cedano le speranze a gli effetti e i fiori a’ frutti, de’ quali ricchissimo oltre tutte l’altre stagioni è l’autunno, conciosia cosa che tutti quelli che ha prodotti la state durano ancora in lui, e molti ancora egli n’ha, che sono proprissimi della sua stagione: della quale è propria ancor la vindemmia, ch’è la maggior cura e la più nobil che possa avere il padre di famiglia; percioché, s’egli da’ villani è ingannato nelle raccolte de’ frumenti, ne sente alcun incommodo e alcun danno solamente, ma s’egli nel fare i vini usa trascuraggine alcuna, non solo danno ne sente, ma vergogna eziandio, quando aviene che nell’occasione d’alcun oste, ch’onori la sua casa, egli non possa onorar la sua cena con buoni vini, senza i quali non sol Venere è fredda, ma insipide son tutte le vivande che potesse condire il più eccelente cuoco ch’abbia il duca. Concludo dunque che l’autunno sia la nobilissima e l’ottima de le stagioni, e quella ch’al buon padre di famiglia più di tutte l’altre suole esser grata: e mi sovviene d’aver udito dir da mio padre, dal quale ancora alcuna delle cose dette udii dire, il qual fu uomo, se ‘l vero di lui fu creduto, della naturale e moral filosofia e degli studî dell’eloquenza più che mediocremente intendente, ch’in questa stagione ebbe principio il mondo, s’in alcuna ebbe principio, come per fede certissimamente tener debbiamo ch’avesse.
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