E perché, disse il buon vecchio, è stato finto da’ poeti che gli eroi solo di sì fatte carni mangiassero? Perché, risposi, son di gran nutrimento, ed essi, come coloro che molto nelle fatiche s’essercitavano, di gran nutrimento avevan bisogno, il quale non posson dare gli uccelli, che molto agevolmente son digeriti; ma le carni degli animali selvaggi, benché sian di gran nutrimento, sono nondimeno sane molto, perché son molto essercitate, e la lor grassezza è molto più naturale che non è quella de’ porci o d’altro animale che studiosamente s’ingrassi, sì che non sì tosto stucca come quella farebbe degli animali domestici. E convenevolmente fu detto da Virgilio: Implentur veteris Bacchi pinguisque ferinae, perché ne mangiavano a corpo pieno senza alcuna noiosa sazietà.

Qui mi taceva io; quando il buon padre di famiglia così cominciò: La menzione che voi avete fatta del vino e de’ tempi eroici mi fa sovvenire di quel che da alcuni osservatori d’Omero ho udito, cioè ch’egli sempre, lo-dando il vino, il chiamava nero e dolce, le quali due condizioni non son molto lodevoli nel vino; e tanto più mi par maraviglioso ch’egli dia sì fatta lode al vino, quanto più mi par d’aver osservato ch’i vini che di Levante a noi sono recati sian di color bianco, come sono le malvagìe e le romanìe e altri sì fatti ch’io in Vinezia ho bevuti: oltre ch’i vini che nel regno di Napoli greci son chiamati, i quali peraventura sortirono questo nome perché le viti di Grecia furono portate, sono bianchi o dorati più tosto di colore, sì come dorato è quel di tutti gli altri de’ quali abbiamo ragionato, e bianchi sono più propriamente i vini del Reno, di Germania e gli altri che nascono in paese freddo ove il sole non ha tanto vigore che possa a fatto maturar l’uve inanzi la stagione della vindemmia, se ben forse il modo ancora, co’ quali son fatti, di quella bianchezza è cagione. Quivi egli taceva; quando io risposi: I vini son da Omero detti dolci con quella maniera di metafora con la quale tutte le cose, o grate a’ sensi o care all’animo, dolci sono addomandate, se ben io non negherò ch’egli il vino alquanto dolcetto non potesse amare, il quale a me ancora suol molto piacere, e questa dolcezza sin a certo termi-Op. Grande biblioteca della letteratura italiana 10

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ne non è spiacevole nel vino; e le malvagìe e i grechi e le romanìe, delle quali abbiam fatta menzione, tutte hanno alquanto del dolce, la qual dolcezza si perde con la vecchiaia: onde si legge: “Ingere mihi calices amariores”, non perch’il poeta desiderasse il vino amaro, ch’alcun non è a cui l’amaritudine nel vino non fosse spiacevole, ma perch’il vin vecchio, per-dendo la dolcezza, acquista quella forza piena d’austerità ch’egli chiama amaritudine. Onde vorrei che così intendeste che da Omero sia chiamato il vin dolce come da Catullo è chiamato amaro: negro poi il chiama Omero, avendo forse riguardo ad alcun vin particolare ch’in quel tempo fosse in pregio come è ora la lacrima, la quale, tutto che sia premuta da quell’uve stesse dalle quali è espresso il greco, è nondimeno di color vermiglio.

Così diceva io; e avendo la prima volta co’ melloni assaggiato d’un vin bianco assai generoso, invitato da lui bevvi un’altra volta d’un claretto molto dilicato, e traponendo tra ‘l mangiare alcuna parola, la lieta cena quasi al suo fine conducemmo; per che, levate le carni e i manicaretti di tavola, vi furono posti frutti d’ogni sorte in molta copia, de’ quali poi ch’alquanti ebbe il buon vecchio solamente gustati, così a ragionar cominciò: Io ho molte fiate udito questionar della nobiltà delle stagioni e ho due lettere vedute che stampate si leggono, del Muzio l’una e del Tasso l’altra, nelle quali tra ‘l verno e la state di nobiltà si contende; ma a me pare che niuna stagione all’autunno possa paragonarsi, percioché la state e ‘l verno co ‘l soverchio del freddo e del caldo sono altrui tanto noiose che né l’una co’ frutti né l’altra co’ giuochi e con gli spettacoli può la sua noia temperare: e sono impedimento non solo al nocchiero, che nel verno non ardisce uscir del porto, e al peregrino e al soldato e al cacciatore, ch’or sotto un’ombra, or sotto un tetto d’una chiesa tra’ boschi dirupata sono necessitati di ripararsi da gli ardori intolerabili e da’ nembi e dalle pioggie e dalle procelle che sopragiungono all’improvviso; ma al padre di famiglia eziandio, che non può senza molto suo discommodo i suoi campi andar visitando. L’una stagion poi è tutta piena di fatica e di sudore, né gode de’ frutti ch’ella raccoglie se non in picciola parte; l’altra, pigra e neghittosa, tra l’ozio e la crapula ingiu-stamente consuma e disperde quel che dalle fatiche altrui l’è stato acquista-to. La quale ingiustizia si conosce egualmente nella disegualità delle notti e de’ giorni, percioché nel verno il giorno, che per natura è di degnità superiore, cede alla notte, dalla quale è irragionevole ch’egli sia superato, e breve e freddo e nubiloso non concede a gli uomini convenevole spazio d’operare o Op. Grande biblioteca della letteratura italiana 11

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di contemplare, sì che l’operazioni e le contemplazioni sono nella notte riserbate: tempo all’une e all’altre poco opportuno, come quello in cui i sensi, che son ministri dell’intelletto, non possono intieramente il loro ufficio essercitare. Ma nella state il giorno divien vincitore non come giusto signore, ma come tiranno, il qual s’usurpa molto più della parte conveniente, non lassando alla notte pure tanto spazio ch’ella possa a bastanza ristorare i corpi risoluti dal soverchio caldo e afflitti dalle fatiche del giorno; della cui brevità non solo gli amanti, che lunghissime le vorrebbono, soglion lamentarsi, ma la buona madre di famiglia ancora, ch’in quell’ora che nelle braccia del marito vorrebbe di nuovo addormentarsi, è da lui desta e abbandonata.

Così diceva il buon padre, con un cotal sorriso lieto riguardando la sua donna, ch’a quelle parole, tinta alquanto di vergogna, chinò gli occhi; e poi seguitò: Queste sono le noie e gli incommodi, se non m’inganno, del verno e della state, delle quali la primavera e l’autunno son privi, e son pieni di mille diletti: e in loro il sole, giustissimo signore, rende così eguali le notti al giorno che l’uno dell’altro con ragion non può lamentarsi. Ma se vorremo anco della primavera e dell’autunno far paragone, troveremo che tanto la primavera dell’autunno dee esser giudicata inferiore, quanto è ragionevole che cedano le speranze a gli effetti e i fiori a’ frutti, de’ quali ricchissimo oltre tutte l’altre stagioni è l’autunno, conciosia cosa che tutti quelli che ha prodotti la state durano ancora in lui, e molti ancora egli n’ha, che sono proprissimi della sua stagione: della quale è propria ancor la vindemmia, ch’è la maggior cura e la più nobil che possa avere il padre di famiglia; percioché, s’egli da’ villani è ingannato nelle raccolte de’ frumenti, ne sente alcun incommodo e alcun danno solamente, ma s’egli nel fare i vini usa trascuraggine alcuna, non solo danno ne sente, ma vergogna eziandio, quando aviene che nell’occasione d’alcun oste, ch’onori la sua casa, egli non possa onorar la sua cena con buoni vini, senza i quali non sol Venere è fredda, ma insipide son tutte le vivande che potesse condire il più eccelente cuoco ch’abbia il duca. Concludo dunque che l’autunno sia la nobilissima e l’ottima de le stagioni, e quella ch’al buon padre di famiglia più di tutte l’altre suole esser grata: e mi sovviene d’aver udito dir da mio padre, dal quale ancora alcuna delle cose dette udii dire, il qual fu uomo, se ‘l vero di lui fu creduto, della naturale e moral filosofia e degli studî dell’eloquenza più che mediocremente intendente, ch’in questa stagione ebbe principio il mondo, s’in alcuna ebbe principio, come per fede certissimamente tener debbiamo ch’avesse.

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Cotesta, diss’io allora, è stata opinion d’alcuni dottori ebrei e cristiani di gran grido, della quale, poi ch’ella non è articol di fede, ciascun può credere a suo modo. E io per me son un di coloro che son di contraria opinione; e mi par più verisimile che, se ‘l mondo ebbe principio, come si dee supporre, l’avesse la primavera: il che così mi sforzerò di provare. Dovete sapere ch’il cielo è ritondo e ha tutte le sue parti sì uniformi che non si può assignare in lui né principio né fine, né destro né sinistro, né sovra né sotto, né inanzi né dietro, che sono le sei posizioni del luogo, se non forse solo in rispetto del moto, percioché destra è quella parte dalla quale ha principio il movimento; ma perch’il movimento del sole va contra il movimento del primo mobile, dubitar si potrebbe se queste sei differenze del luogo si debbano principalmente prendere secondo il moto del primo mobile o secondo il moto del sole: nondimeno, perché tutte le cose di questo nostro mondo alterabile e corruttibile dipendono dal movimento principalmente, il quale è cagione della generazione e della corruzione e padre degli animali, è ragionevole ch’il moto del sole ditermini le differenze del luogo. Secondo il moto del sole dunque il nostro polo è il superiore, il qual secondo il movimento del primo mobile sarebbe l’inferiore; stante questo fondamento, se noi vorremo investigare da quale stagione è ragionevole che

‘l mondo abbia avuto principio, vedremo ch’è molto ragionevole ch’egli l’abbia avuto in quella nella quale il sole, movendosi, non s’allontana da noi, ma a noi s’avvicina e comincia la generazione e non la coruzione: perché secondo l’ordin della natura le cose prima si generano e poi si corrompono. Ma il sole, movendosi dall’Ariete, a noi s’avvicina e alla generazion delle cose dà principio; è ragionevol dunque che, quando il mondo ebbe principio, il sole fosse in Ariete: il che senza alcun dubbio così vedrà essere chi diligentemente considererà le cose che nel Timeo di Platone da Iddio padre son dette agli dei minori. Ben è vero che chi volesse prender le posizion del luogo dal movimento del primo mobile, ne seguirebbe ch’il polo antar-tico fosse il soprano per natura e che ‘l mondo dovesse avere avuto principio in quella stagione nella quale il sole, movendosi, s’avvicina a’ nostri antipodi e comincia la generazione in quelle parti dell’altro mondo che sono opposte a queste: il che chi concedesse, più ragionevol sarebbe ch’il moto avesse avuto principio nell’equinozio autunnale, quando il sole era in Libra. Tutta volta ne seguirebbe anco ch’egli avuto l’avesse nella primavera, perché questo, ch’è autunno a noi, è primavera a coloro in rispetto de’ quali Op. Grande biblioteca della letteratura italiana 13

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il principio del moto si prenderebbe. Ma la prima opinione, sì come per ragion naturale è più ragionevole, così anco più commodamente dalle per-suasioni può esser accompagnata, perciò ch’il nostro mondo fu degnato della presenza del vero figliuol d’Iddio, il quale elesse di morire in Gierusalemme, che secondo alcuni è nel mezzo del nostro emisperio: oltre di ciò egli volle morir la primavera per riscuotere l’umana generazione in quel tempo ch’egli prima l’aveva creata.

Qui mi taceva io; quando il buon padre di famiglia, mosso da queste mie parole, con maggiore attenzione cominciò a risguardarmi e disse: A maggior ospite ch’io non credeva conosco d’aver dato ricetto, e voi sete uno peraventura del quale alcun grido è arrivato in queste nostre parti, il quale, per alcuno umano errore caduto in infelicità, è altrettanto degno di perdono per la cagione del suo fallire, quanto per altro di lode e di maraviglia. E

io: Quella fama che peraventura non poteva derivar dal mio valore, del quale voi sete troppo cortese lodatore, è derivata dalle mie sciagure; ma, qualunque io mi sia, io mi son uno che parlo anzi per ver dire che per odio o per disprezzo d’altrui o per soverchia animosità d’opinioni.