Non si era temuto di andarli ad
attaccare perfino nella loro sede. A quei fanatici del «Più leggero dell’aria»
un non meno fanatico del «Più pesante» aveva detto cose decisamente spiacevoli.
Poi, nel momento in cui stavano per trattarlo come si meritava, egli si era
eclissato.
La cosa chiedeva
vendetta. Per lasciare simili ingiurie impunite, bisognerebbe non avere sangue
americano nelle vene! Dei figli d’Amerigo trattati da figli di Caboto! Non era
un insulto, tanto più imperdonabile, in quanto coglieva giusto — storicamente?
I membri del club si
sparsero dunque in vari gruppi in Walnut-Street, poi nelle vie vicine, poi per
tutto il quartiere. Svegliarono gli abitanti. Li costrinsero a lasciar perquisire
le loro case, pronti ad indennizzarli in seguito del torto fatto alla vita
privata di ciascuno, che è particolarmente rispettata presso i popoli di
origine anglosassone. Robur non si trovò in alcun luogo. Nessuna traccia di
lui. Se fosse partito col Go a head, il pallone del Weldon-Institute,
non avrebbe potuto essere più introvabile. Dopo un’ora di perquisizioni, si
dovette rinunciare, e i colleghi si separarono, non senza promettersi di
estendere le proprie ricerche a tutto il territorio delle due Americhe che formano
il Nuovo Continente.
Verso le undici, la
calma si era pressoché ristabilita nel quartiere. Filadelfia poteva ripiombare
in quell’ottimo sonno, di cui le città che hanno la fortuna di non essere
industriali, hanno l’invidiabile privilegio. I diversi membri del club si
preoccuparono solo di rientrare alle rispettive abitazioni. Per ricordare solo
alcuni fra i soci più notevoli, William T. Forbes si diresse dalla parte della
sua grande raffineria di zucchero, dove miss Doll e miss Mat gli avevano
preparato il tè della sera, zuccherato col glucosio di sua fabbricazione; Truk
Milnor prese anche lui la via che conduceva alla sua fabbrica, la cui pompa a
vapore sbuffava giorno e notte nel più remoto dei sobborghi. Il tesoriere Jem
Cip, pubblicamente accusato di avere un piede di intestino più di quanto non
comporti la macchina umana, raggiunse la sala da pranzo dove l’attendeva la sua
minestra vegetale.
Due fra i più importanti
pallonisti — due soli — non sembravano preoccuparsi di rientrare così presto a
casa. Essi avevano approfittato dell’occasione per discutere con maggiore acrimonia
del solito. Erano gli irriconciliabili Uncle Prudent e Phil Evans, il
presidente e il segretario del Weldon-Institute.
Alla porta del club, il
domestico Frycollin aspettava Uncle Prudent, suo padrone.
Si mise a seguirlo,
senza preoccuparsi dell’argomento che inaspriva i due colleghi.
È per eufemismo che è
stato usato il verbo «discutere» per esprimere l’azione cui si abbandonavano il
presidente ed il segretario del club. In realtà litigavano con una energia che
prendeva origine dalla loro antica rivalità.
— No, signore, no! —
ripeteva Phil Evans. — Se io avessi avuto l’onore di presiedere il
Weldon-Institute, mai, proprio mai sarebbe avvenuto un simile scandalo!
— E che cosa avreste
fatto, se aveste avuto questo onore? — domandò Uncle Prudent.
— Avrei tolto la parola
a quel pubblico insultatore, ancora prima che aprisse la bocca!
— Mi pare che per
toglier la parola, occorra almeno aver lasciato parlare.
— Non in America,
signore, non in America!
E continuando a
scambiarsi repliche più agre che dolci, questi due personaggi imboccavano delle
vie che li allontanavano sempre più dalle loro case; attraversavano dei
quartieri la cui posizione li avrebbe obbligati a fare un lungo giro per
tornare indietro.
Frycollin li seguiva
sempre, ma non si sentiva molto rassicurato vedendo che il suo padrone si
cacciava in luoghi già deserti. Non amava quelle strade, il domestico
Frycollin, soprattutto poco prima di mezzanotte. Infatti l’oscurità era
profonda, e la luna nella fase crescente iniziava appena il suo cammino di ventotto
giorni.
Frycollin guardava a
destra e a sinistra, se delle ombre sospette li seguissero. E davvero egli
credette di vedere cinque o sei spilungoni che sembravano non perderli di
vista.
Istintivamente Frycollin
si avvicinò al suo padrone; ma, per nulla al mondo, egli avrebbe osato
interromperlo nel mezzo di una conversazione, per timore di sentirne qualche
ripercussione.
Insomma, il caso fece sì
che il presidente e il segretario del Weldon-Institute si dirigessero, senza
immaginarselo, verso Fairmont-Park. Là, nel più vivo della disputa,
attraversarono il fiume Schuylkill sul famoso ponte metallico; non incontrarono
che pochi passanti in ritardo e si trovarono infine in mezzo a quei vasti
terreni, alcuni sviluppati in prati immensi, altri ombreggiati da begli alberi,
che fanno di questo parco una proprietà unica al mondo.
Là i terrori del
domestico Frycollin crebbero più che mai, tanto più che le cinque o sei ombre
erano scivolate dietro di loro, lungo il ponte dello Schuylkill. Egli aveva le
pupille degli occhi così enormemente dilatate che si ingrandivano fino alla circonferenza
dell’iride. E, nello stesso tempo, tutto il suo corpo rimpiccioliva, si
ritirava, come se fosse dotato di quella contrattilità specifica dei molluschi
e di certi animali articolati.
Il fatto è che il
domestico Frycollin era un gran pauroso.
Un vero negro della
Carolina del Sud, con una testa da imbecille sopra un corpo da mezza cartuccia.
Aveva giusto ventun anni, il che voleva dire che non era mai stato schiavo, nemmeno
dalla nascita; ma non valeva molto di più. Smorfioso, goloso, ozioso e di una
vigliaccheria incredibile. Da tre anni, era al servizio di Uncle Prudent. Cento
volte aveva corso il pericolo di farsi mettere alla porta; lo avevano tenuto,
per il timore di trovare peggio. E, tuttavia, partecipe della vita di un
padrone sempre disposto a lanciarsi nelle più audaci imprese, Frycollin doveva
aspettarsi numerose occasioni nelle quali la sua vigliaccheria sarebbe stata
messa a dura prova. Ma c’erano dei vantaggi. Non lo si tormentava troppo per la
sua gola, e anche meno per la sua pigrizia.
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