Ebbe inizio un’interminabile litania, nella quale le angosce dello spavento si univano alle sofferenze della fame. Frycollin era colpito, nello stesso tempo, nel cervello e nello stomaco. Sarebbe stato difficile stabilire quale di quei due visceri influisse di più sullo stato generale del paziente.

— Frycollin! — esclamò Uncle Prudent.

— Master Uncle!... Master Uncle!... — rispose il negro tra due gemiti lugubri.

— È possibile che noi siamo condannati a morire di fame in questa prigione. Ma siamo decisi a non soccombere se non dopo avere esauriti tutti i mezzi di alimentazione, che possono prolungare la nostra vita...

— Anche mangiarmi! — esclamò Frycollin.

— Come si fa sempre con un negro in simili casi!... Perciò, Frycollin, cerca di farti dimenticare...

— O ti si cucinerà in fry-c-as-se-a! — aggiunse Phil Evans.

E, molto seriamente, Frycollin ebbe paura di servire al prolungamento di due esistenze, evidentemente più preziose della sua. Quindi si limitò a gemere in petto.

Intanto il tempo passava; e ogni tentativo per forzare la porta o la parete rimase infruttuoso. Di che cosa fosse quella parete era impossibile riconoscerlo. Non metallo, non legno, non pietra. Inoltre, l’impiantito della cella sembrava della stessa materia. Battendolo col piede, dava un suono particolare che Uncle Prudent avrebbe avuto difficoltà a classificare nella categoria dei suoni noti. Altra osservazione: sotto questo impiantito sembrava esserci il vuoto; come se non posasse direttamente sul suolo della radura. L’inesplicabile frrrr pareva ne accarezzasse la parte inferiore. Anche questi indizi non erano rassicuranti.

— Uncle Prudent? — disse Phil Evans.

— Phil Evans? — rispose Uncle Prudent.

— Credete che la nostra cella si sia spostata?

— In nessun modo.

— Eppure, al primo istante del nostro imprigionamento, ho potuto distintamente sentire il fresco profumo dell’erba e la fragranza resinosa degli alberi del parco. Adesso, per quanto fiuti, mi pare che questi profumi siano scomparsi…

— È vero!

— Come si spiega la cosa?

— Spieghiamola in qualsiasi modo, Phil Evans, tranne che con l’ipotesi che la cella abbia cambiato posto. Lo ripeto, se noi ci trovassimo sopra un carro in movimento o sopra una nave in viaggio, ce ne accorgeremmo…

Frycollin emise allora un lungo gemito che avrebbe potuto passare per il suo ultimo sospiro, se non fosse stato seguito da molti altri.

— Spero che questo Robur ci farà ben presto comparire davanti a lui, — continuò Phil Evans.

— Anch’io lo spero, — esclamò Uncle Prudent, — e gli dirò…

— Che cosa?

— Che dopo aver debuttato da insolente, ha finito da furfante!

In quel momento, Phil Evans osservò che cominciava a spuntare il giorno. Una luce debole ancora penetrava attraverso la stretta feritoia aperta nella parte superiore della parete di fronte alla porta. Dovevano essere le quattro del mattino, circa, giacché a quest’ora, nel mese di giugno e a questa latitudine, l’orizzonte di Filadelfia si rischiara ai primi raggi dell’alba.

Tuttavia, quando Uncle Prudent fece suonare il suo orologio a ripetizione — capolavoro che proveniva proprio dalla fabbrica del suo collega, — il piccolo campanello indicò soltanto le tre meno un quarto, sebbene l’orologio non si fosse arrestato.

— Strano! — disse Phil Evans. — Alle tre meno un quarto, dovrebbe ancora far notte.

— Allora il mio orologio deve essere in ritardo! — osservò Uncle Prudent.

— Un orologio della Walton Watch Company! — esclamò Phil Evans. Comunque fosse, era proprio il giorno che spuntava. A poco a poco, la feritoia si profilava in bianco nella profonda oscurità della cella. Tuttavia, se l’alba compariva più presto di quanto consente il quarantesimo parallelo, che è quello di Filadelfia, non aveva quella rapidità particolare nelle basse latitudini.

Nuova osservazione di Uncle Prudent a questo proposito; nuovo fenomeno inesplicabile.

— Ci potremmo sollevare sino alla feritoia, — osservò Phil Evans, — e cercare di vedere dove ci troviamo?

— Possiamo farlo, — rispose Uncle Prudent. E, rivolgendosi a Frycollin:

— Andiamo, Fry, presto, in piedi! Il negro si alzò.

— Appoggia la schiena contro questa parete, — continuò Uncle Prudent, — e voi, Phil Evans, montate sulle spalle di questo giovanotto, mentre io lo sosterrò affinché non vacilli sotto il peso.

— Volentieri, — rispose Phil Evans.

Un istante dopo, inginocchiato sulle spalle di Frycollin, egli si trovava con gli occhi all’altezza della feritoia.

Questa feritoia era chiusa non con un vetro lenticolare, come quello del portellino sulle navi, ma con un semplice vetro. Quantunque non fosse molto spesso, impediva lo sguardo di Phil Evans il cui raggio di vista era eccessivamente limitato.

— Ebbene, rompete il vetro, — disse Uncle Prudent, — e vedrete meglio!

Phil Evans col manico del suo bowie-knife diede un colpo violento sul vetro, che emise un suono argentino, ma non si ruppe. Secondo colpo più violento. Medesimo risultato.

— Bene! — esclamò Phil Evans, — del vetro infrangibile.

Infatti, quella finestra doveva essere di vetro temperato coi processi dell’inventore Siemens, giacché, malgrado replicati colpi, rimase intatta.

Tuttavia lo spazio era ormai abbastanza illuminato per permettere allo sguardo di vedere un po’ al di fuori, almeno nel limite del campo di visione che corrispondeva all’ampiezza dell’apertura.

— Che vedete? — chiese Uncle Prudent.

— Nulla.

— Come? Non una massa d’alberi?

— Nulla, vi ripeto.

— Nemmeno le più alte cime?

— Nemmeno.

— Non ci troviamo dunque più nel centro della radura?

— Né nella radura né nel parco.

— Scorgete almeno dei tetti, delle cime di monumenti? — disse Uncle Prudent, il cui disappunto misto a furore non smetteva di crescere.

— Né case né cime.

— Che! neppure un’asta di bandiera, non un campanile, non la ciminiera di qualche opificio?

— Non vedo che lo spazio.

Proprio in quel momento, la porta della cella s’aprì. Un uomo comparve sulla soglia.

Era Robur.

— Onorevoli pallonisti, — egli disse con voce grave, — ora voi siete liberi di andare e venire…

— Liberi! — esclamò Uncle Prudent.

— Sì… nei limiti dell’Albatros.

Uncle Prudent e Phil Evans si precipitarono fuori della cella. E che cosa videro?

A milleduecento o milletrecento metri al disotto, videro la superficie di un paese, che tentarono invano di riconoscere.

CAPITOLO SESTO

 

Che gli ingegneri, i tecnici e altri dotti faranno

forse bene a sorvolare

 

 

 

— In quale epoca l’uomo cesserà di strisciare nei bassifondi per vivere nell’azzurro e nella pace del cielo?

A questa domanda di Camille Flammarion, la risposta è facile; nel tempo in cui i progressi della meccanica avranno permesso di risolvere il problema dell’aviazione. E da alcuni anni — lo si prevedeva — l’impiego dell’elettricità doveva condurre alla soluzione del problema.

Nel 1783, molto prima che i fratelli Montgolfier costruissero la prima mongolfiera, e il fisico Charles il suo primo pallone, alcuni spiriti avventurosi avevano vagheggiata la conquista dello spazio per mezzo di apparecchi meccanici. I primi inventori non avevano dunque pensato ad apparecchi più leggeri dell’aria, che la fisica di quel tempo non avrebbe permesso d’immaginare. Era agli apparecchi più pesanti, alle macchine volanti, fatte ad imitazione degli uccelli che essi domandavano di realizzare la locomozione aerea.

È precisamente quello che aveva fatto quel pazzo di Icaro, figlio di Dedalo, le cui ali, attaccate con la cera, si staccarono avvicinandosi al sole.

Ma, senza risalire sino ai tempi mitologici, senza parlare di Archita di Taranto, dei tentativi di Dante di Perugia, di Leonardo da Vinci, di Guidotti, si trova già l’idea di macchine destinate a muoversi nel mezzo dell’atmosfera.