Proprio da ciò era sorta la discussione che
stava finendo con una colazione a Goat-Island. Forse non si trattava né dell’uno
né dell’altro inno patriottico. Ma ciò su cui nessuno poteva dubitare era che
quello strano suono sembrava calare dal cielo sulla terra.
Bisognava pensare a
qualche tromba celeste, suonata da un angelo o da un arcangelo?… O si trattava
forse di allegri aeronauti che suonavano questo sonoro strumento, di cui la
Fama fa un così rumoroso uso?
No! non si trattava né
di palloni né di aeronauti. Un fenomeno straordinario si presentava negli alti
strati dell’atmosfera — fenomeno di cui non si poteva riconoscere né la natura
né l’origine. Oggi appariva sopra l’America, quarantotto ore dopo sopra l’Europa,
otto giorni dopo in Asia, sopra il Celeste Impero. Se quindi la tromba che
segnalava il suo passaggio non era quella del giudizio universale, che tromba
poteva mai essere?
Ne derivava in tutti gli
stati della terra, regni o repubbliche, un certo turbamento che era necessario
calmare. Se vi accadesse di udire nella vostra casa dei rumori bizzarri e
inesplicabili, non cerchereste di scoprirne al più presto la causa, e, se l’inchiesta
non approdasse a nulla, non abbandonereste quella casa per abitarne un’altra?
Sì, senza dubbio. Ma, qui, la casa era il globo terrestre.
Non c’era alcun modo di
abbandonarlo per trasferirsi sulla Luna, su Marte, su Venere, su Giove o su
altri pianeti del sistema solare. Era dunque necessario scoprire quello che
accadeva, non negli spazi infiniti, ma nelle zone atmosferiche. Infatti senza
aria non esiste suono, e, poiché il suono c’era (sempre la famosa tromba!), il
fenomeno doveva aver luogo all’interno dell’atmosfera, la cui densità va
continuamente diminuendo e che non si estende oltre le due leghe tutt’intorno
al nostro pianeta.
Naturalmente migliaia di
giornali si impadronirono di questo argomento, lo esaminarono sotto tutti gli
aspetti, lo rischiararono o lo resero più oscuro, riferirono fatti veri o
falsi, allarmarono o rassicurarono i lettori — nell’interesse più che altro
della tiratura — infine appassionarono le masse già molto turbate. La politica
venne di colpo lasciata in disparte, e perfino gli affari languirono. Ma che
cosa stava accadendo?
Vennero interrogati gli
osservatori di tutto il mondo. Se non sapevano rispondere, a che cosa
servivano? Se gli astronomi, che sdoppiano o dividono per tre delle stelle a
centomila miliardi di leghe, non erano capaci di scoprire l’origine di un fenomeno
cosmico nel raggio di pochi chilometri, a che servono gli astronomi?
Così sarebbe
difficilissimo calcolare quanti telescopi, occhiali o cannocchiali, occhialini,
binocoli e monocoli vennero rivolti verso il cielo durante quelle serene notti
d’estate, e quanti occhi furono incollati agli oculari degli strumenti delle
più svariate portate o dimensioni. Forse centinaia di migliaia, a dir poco.
Dieci, venti volte più di quante stelle si possono contare ad occhio nudo nella
volta celeste! No! Mai eclissi, osservata contemporaneamente da tutti i punti
della terra, aveva attirato un simile interesse.
Gli osservatori
risposero, ma insufficientemente. Ognuno prospettò una ipotesi diversa dall’altra.
Ne nacque una specie di guerra intestina nell’ambiente scientifico durante le
ultime settimane di aprile e le prime di maggio.
L’osservatorio di Parigi
si mostrò molto riservato. Nessuna delle sezioni volle pronunciarsi. La sezione
di astronomia matematica non si era degnata di osservare il fenomeno; quella
delle operazioni meridiane non aveva scoperto nulla; quella delle osservazioni
fisiche non aveva avvistato nulla; l’ufficio geodetico non aveva osservato
nulla; quello meteorologico non aveva intravisto niente, infine al reparto dei
calcoli non si era visto niente. La confessione almeno era franca. La stessa
franchezza ebbero l’osservatorio di Montsouris e la stazione magnetica del
parco Saint Maur. Lo stesso rispetto della verità da parte del Bureau des Longitudes.
Decisamente «francese» equivale a «franco».
La provincia uscì un
pochino da questo prudente riserbo. Nella notte dal 6 al 7 maggio si era forse
veduta una luce d’origine elettrica, la cui durata non aveva superato i venti secondi.
Al Pic du Midi, questa luce era apparsa tra le nove e le dieci di sera. All’osservatorio
meteorologico di Puy-de-Dôme era stata scorta tra l’una e le due del mattino;
al monte Ventoux, in Provenza, fra le due e le tre; a Nizza, fra le tre e le
quattro; infine a Semnoz-Alpes, tra Annecy, il lago Bourget e il lago Lemano,
nel momento in cui l’alba rischiarava lo zenit.
Evidentemente, non era
il caso di respingere in massa queste osservazioni. Senza dubbio la luce era
stata osservata da diversi punti — successivamente — con un intervallo di poche
ore. Dunque, o essa era prodotta da parecchi fuochi, che si spostavano
attraverso l’atmosfera terrestre, oppure se proveniva da un fuoco solo, doveva
muoversi con una rapidità non inferiore ai duecento chilometri all’ora.
Ma, durante il giorno,
non s’era mai notato nulla di anormale nell’aria?
Mai.
La tromba, almeno, s’era
fatta sentire attraverso gli strati atmosferici?
Nessuno squillo era
stato udito dall’alba al tramonto.
Nel Regno Unito si rimase
molto perplessi. Gli osservatori non riuscirono ad accordarsi. Greenwich non
poté intendersi con Oxford, benché entrambi sostenessero «che non c’era nulla».
— Illusione ottica! —
diceva l’uno.
— Illusione acustica! —
rispondeva l’altro.
E disputarono su questo
punto. In ogni caso, illusione!
All’osservatorio di
Berlino, a quello di Vienna, per poco la discussione minacciò di condurre a
complicazioni internazionali. Ma la Russia, tramite il direttore del suo
osservatorio di Pulkowa, provò loro che entrambi avevano ragione; dipendeva dal
diverso punto di vista dal quale avevano cercato di chiarire la natura del
fenomeno, impossibile in teoria, possibile in pratica.
In Svizzera, all’osservatorio
di Saütis, nel cantone di Appenzel, al Righi, al Gabris, agli osservatori del
San Gottardo, del San Bernardo, dello Julier, del Sempione, di Zurigo, di Somblick
nelle Alpi tirolesi, si diede prova di una grande riservatezza a proposito di
un fatto che nessuno aveva potuto verificare — il che dimostra grande buon
senso.
Ma, in Italia, alle
stazioni meteorologiche del Vesuvio, all’osservatorio dell’Etna stabilito nell’ex
Casa Inglese, sul Monte Cavo, gli astronomi non esitarono ad ammettere l’effettiva
esistenza del fenomeno, giacché avevano potuto vederlo, un giorno, sotto l’aspetto
di una lieve nuvoletta di vapore, e, una notte, sotto l’apparenza di una stella
filante. Ma di che cosa si trattasse non erano assolutamente in grado di dirlo.
Veramente questo mistero
cominciava ad affaticare gli scienziati, mentre continuava ad appassionare, e
persino a intimorire, gli umili e gli ignoranti, che hanno formato, formano e
formeranno la immensa maggioranza su questa terra, grazie ad una delle più
sagge leggi della natura.
Gli astronomi e i
meteorologi avrebbero dunque rinunciato ad occuparsene, se, nella notte dal 26
al 27, all’osservatorio di Kantokeino, nel Finmark, in Norvegia, e nella notte
dal 28 al 29, a quello di Isfjord, nello Spitzberg, i norvegesi da un lato e
gli svedesi dall’altro non si fossero trovati d’accordo su questo punto: in
mezzo ad un’aurora boreale era apparso una specie di grosso uccello, di mostro
aereo. Se non era stato possibile determinarne la struttura, era però certo che
aveva proiettato intorno a sé dei corpuscoli che esplodevano come bombe.
In Europa, non si volle
mettere in dubbio quella osservazione delle stazioni del Finmark e dello
Spitzberg.
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