«Sarà ben disposto ad accettare qualcosa da bere, dopo aver camminato chissà quanto in una sera come questa; ma non si aspetti che sia un brandy allungato né una bottiglia di porto, o di sherry. Non tengo simili veleni. Per me ho del vino del Reno, a lei la scelta tra questo e il caffè».

Anche qui Hunsden mi piacque. Se c’era un’abitudine che detestavo più d’ogni altra era quella di bere liquori e vini molto forti. Non mi andava comunque quel suo aspro nettare tedesco, ma il caffè mi piaceva, quindi gli risposi:

«Vorrei del caffè, signor Hunsden».

Vidi che la mia risposta dovette piacergli; si aspettava sicuramente di vedermi raggelato dal fermo annuncio che non mi avrebbe offerto vino né liquori; mi lanciò giusto uno sguardo indagatore per capire se la mia tranquillità era autentica o una mera finzione di cortesia. Sorrisi, perché lo capivo; e, se da un lato ammiravo la sua coscienziosa fermezza, la sua diffidenza mi divertiva. Sembrò soddisfatto, suonò il campanello e chiese il caffè, che fu subito portato; lui si accontentò di un grappolo d’uva e un quarto di quel liquido aspro.

Il caffè era squisito, glielo dissi e gli espressi anche il brivido di compassione che mi ispirava quella sua cena da anacoreta. Non rispose, non credo avesse neppure sentito il mio commento. Una delle momentanee eclissi cui alludevo sopra gli oscurava il volto, spegnendo il suo sorriso e scambiando lo sguardo solitamente acuto e beffardo con un’espressione vaga ed estraniata. Approfittai di quell’intervallo di silenzio per esaminare rapidamente la sua fisionomia.

Non l’avevo mai osservato da vicino prima; ed essendo molto miope, avevo del suo aspetto generale solo una vaga idea. Ora, guardandolo meglio, mi meravigliai di quanto fossero minuti e persino femminili i suoi lineamenti. La costituzione slanciata, i ricci lunghi e scuri, la voce e i modi mi avevano fatto immaginare qualcosa di potente e massiccio; nient’affatto; i miei stessi lineamenti erano fusi in uno stampo più duro e robusto dei suoi. Ragionai che doveva esserci un certo contrasto tra interiorità ed esteriorità, conflitti, anche. Sospettavo che l’anima di quell’uomo avesse più risolutezza e ambizione di quanto la sua costituzione avesse fibra e muscoli. Forse il segreto di tali crisi di malinconia risiedeva in questa incompatibilità tra “fisico” e “morale”; voleva, ma non poteva, e la sua mente atletica disdegnava il suo più fragile compagno. Quanto al fascino, mi sarebbe piaciuto avere l’opinione di una donna; a me pareva che potesse suscitare, su una donna, lo stesso effetto che un volto femminile molto vispo e interessante, ma poco grazioso, avrebbe su un uomo. Ho accennato ai riccioli scuri: li portava di lato, su una fronte bianca e piuttosto ampia, le guance mostravano una vitale freschezza; i lineamenti sarebbero stati bene su una tela, ma altrettanto bene sul marmo: erano plastici. Il carattere metteva su ciascuno di questi la sua impronta; l’espressione li riorganizzava a suo piacimento e produceva strane metamorfosi, dandogli ora l’aspetto di un toro arrabbiato, ora quello di una fanciulla maliziosa e indisponente. Spesso le due fattezze si mescolavano in una strana, complessa fisionomia.

Scuotendosi dal suo silenzio, disse:

«William, lei è davvero uno sciocco a vivere in quella cupa casa della signora King quando potrebbe venire qui in Grove Street e avere un giardino come il mio!».

«Mi allontanerei troppo dalla fabbrica».

«E che importa? Le farebbe bene fare su e giù a piedi due o tre volte al giorno; è a tal punto un fossile da non desiderare mai di vedere un fiore o una foglia verde?».

«Non sono un fossile».

«E che cos’è allora? Se ne resta seduto dietro quella scrivania nell’ufficio di Crimsworth, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, a passare la penna sul foglio come un automa. Non si alza mai, non dice mai di essere stanco, non chiede mai una vacanza, non si distrae né si rilassa, non si concede eccessi la sera, non frequenta licenziose compagnie e non indulge nell’alcol».

«Lei lo fa, signor Hunsden?».

«Non pensi di mettermi a disagio con queste domande dirette; le nostre due situazioni sono molto diverse e non ha alcun senso confrontarle. Per come la vedo io, quando un uomo sopporta pazientemente ciò che gli dovrebbe essere insopportabile, è un fossile».

«E come fa a dire che io sono paziente?».

«Perché, amico mio, lei pensa di essere tanto misterioso? L’altra sera mi è parso sorpreso che fossi a conoscenza delle sue origini familiari; ora si stupisce che io la definisca paziente. A cosa crede che mi servano gli occhi e le orecchie? Mi sono trovato spesso nel suo ufficio quando Crimsworth la trattava come un cane. Ad esempio le chiedeva un libro e se lei gli dava quello sbagliato – o quello che lui voleva considerare sbagliato – quasi glielo tirava in faccia, o le ordinava di chiudere e aprire la porta come un lacchè. Per non dire della sua posizione alla festa, un mese fa, senza un posto né una compagna, ma vagante da una parte all’altra come un miserabile parassita. E com’è sempre stato paziente in tutte queste situazioni!».

«Bene, Hunsden, e dunque?».

«E dunque posso dirle ben poco; la conclusione da trarre circa il suo carattere dipende da quali sono i motivi che determinano il suo comportamento. Se è paziente perché ha in testa di ricavare qualcosa da Crimsworth, malgrado la sua tirannia, o magari proprio attraverso quest’ultima, allora lei è quel che il mondo definisce un arrivista e un mercenario, ma forse molto saggio. Se è paziente perché ritiene doveroso reagire agli insulti con la sottomissione, allora non è che uno stolto e ben lontano dall’andarmi a genio. Se è paziente perché la sua natura è calma, piatta, ineccitabile e incapace di sollevarsi e opporre resistenza, allora Dio l’ha fatta per essere asservito e oppresso in ogni circostanza, perché la valanga la travolga!».

La dialettica di Hunsden non era, evidentemente, fluida e scorrevole. Non mi piaceva affatto sentirlo parlare. Avevo l’impressione di ravvisare in lui uno di quei caratteri che, pur sensibili nei confronti di se stessi, sono egoisticamente impietosi nei confronti degli altri.