Una diceva: “William, la tua vita è insopportabile”. L’altra: “Cosa puoi fare per cambiarla?”.

Camminavo a passo svelto perché era una gelida sera di gennaio. Avvicinandomi a casa, passai da quelle considerazioni generali circa le mie questioni personali a domandarmi più specificamente se il mio camino si fosse spento: guardando la finestra del soggiorno non vedevo infatti alcun confortante riverbero rosso.

«Quella sbadata della cameriera se n’è scordata come al solito», mi dissi. «Non troverò che pallide ceneri al rientro. È una bella sera stellata, farò altri due passi».

Era davvero una bella serata e le strade erano asciutte e persino pulite per X. Accanto al campanile della chiesa si vedeva una mezzaluna crescente e centinaia di stelle brillavano di luce intensa in tutto il cielo.

Mi incamminai senza rendermene conto verso la campagna; ero arrivato a Grove Street e cominciavo a godermi la vista di alcuni alberi ombrosi più in fondo, presso una casa di periferia, quando dal cancello di ferro di uno dei giardini delle graziose abitazioni che si trovavano in quella strada, qualcuno mi rivolse la parola mentre passavo lì davanti a passo svelto. «Quanta fretta! È così che Lot deve aver lasciato Sodoma, prima che vi piovesse sopra fuoco da nuvole in fiamme».

Mi fermai di colpo e mi volsi verso colui che aveva parlato. Sentii l’odore e vidi la punta rossa di un sigaro; e anche il profilo scuro di un uomo che si sporgeva dall’altra parte del cancello.

«Vede, io medito in campagna al tramonto», proseguì quell’ombra. «E Dio sa quanta pazienza ci vuole! Specialmente se al posto di Rebecca sulla gobba di un cammello, con bracciali alle braccia e un anello al naso, il Destino mi manda un semplice impiegato in mantello di tweed grigio».

Quella voce mi era familiare, e la seconda battuta mi permise di indovinare l’identità del mio interlocutore.

«Signor Hunsden, buonasera!».

«Buonasera, sì! Ma lei sarebbe passato senza riconoscermi se non fossi stato così educato da parlare io per primo».

«Non l’avevo riconosciuta!».

«Una scusa banale. Avrebbe dovuto, invece; io l’ho riconosciuta anche se marciava come una macchina a vapore. La sta forse inseguendo la polizia?».

«Non ne varrebbe la pena; non sono abbastanza importante!».

«Ahimè, povero pastore! Accidenti e accipicchia. Quanta amarezza, e come deve essere depresso a giudicare dal tono della voce. Ma giacché non fugge dalla polizia, da chi è che sta fuggendo? Dal demonio?».

«Tutt’altro, sto affrettandomi a raggiungerlo».

«Oh, ottimo, lei è proprio fortunato. Oggi è martedì e ci sono diversi carretti e calessi da mercato che tornano a Dinneford stasera. E il demonio, o qualcuno dei suoi, ha sempre un posticino lì sopra; perciò se entra in casa e resta una mezz’ora a sedere nel mio salotto da scapolo, riuscirà facilmente ad acchiapparlo quando passa. Tuttavia, forse sarebbe meglio lasciarlo stare per stasera, avrà tanti clienti a cui badare. Il martedì è il suo giorno di lavoro a X. e Dinneford; ma entri, in ogni caso».

E così parlando aprì il cancello.

«Davvero desidera che entri?», chiesi.

«Se le va. Sono da solo e la sua compagnia per un’ora o due mi farebbe piacere, ma se non ha tanta voglia di favorirmi, non insisterò. Detesto infastidire le persone».

Mi stava bene accettare l’invito così come stava bene a Hunsden formularlo. Superai il cancello e lo seguii fino alla porta di ingresso, che egli aprì: attraversammo poi un corridoio ed entrammo nel salotto. Chiusa la porta, mi indicò una poltrona vicino al caminetto. Sedetti e mi guardai attorno.

Era una stanza accogliente, confortevole e bella al tempo stesso; la grata era inondata da un autentico fuoco dello **shire, rosso, chiaro e pieno, altro che quei miseri tizzoni ammucchiati in un angolo che si vedono nel Sud dell’Inghilterra. Da sopra un tavolo una lampada diffondeva una luce calda, piacevole e regolare; l’arredamento era sfarzoso per un giovane scapolo, compresi anche un divano e due comode poltrone. Ai due lati del camino c’erano delle librerie ben fornite e perfettamente ordinate. La precisione di quella stanza si addiceva al mio gusto, detesto la negligenza e le sciatterie. Da quel che vidi dedussi che le idee di Hunsden in quel caso corrispondevano alle mie. Mentre lui spostava alcuni opuscoli e riviste dal centro del tavolo alla credenza, osservai gli scaffali della libreria più vicina. C’erano soprattutto opere francesi e tedesche, i vecchi drammaturghi francesi, vari autori moderni, Thiers, Villemain, Paul de Kock, George Sand, Eugène Sue; in tedesco Goethe, Schiller, Jean Paul Richter; in inglese c’erano lavori di economia politica. Non vidi altro perché Hunsden richiamò la mia attenzione.

«Deve prendere qualcosa», disse.