Non coltivare dunque la speranza di raccogliere il miele dell’amicizia da una pianta tanto spinosa. Ehi, Crimsworth! Ma verso quali lidi si spingono i tuoi pensieri? Abbandoni l’idea di Hunsden come un’ape lascerebbe una roccia o un uccello il deserto, e le tue aspirazioni stendono grandi ali verso una terra di visioni dove in questo momento, alla luce crescente del giorno – la luce di X. –, ti azzardi a sognare intesa, armonia, unione! Sono tre cose che non troverai mai in questo mondo: sono angeli. Le anime dei giusti le troveranno in cielo, ma la tua non sarà mai l’anima di un giusto. Rintoccano le otto, hai le mani sciolte, mettiti a lavorare».

«Lavorare? Perché dovrei lavorare?», dissi risentito. «Non posso essere contento lavorando come uno schiavo». «Lavora, lavora!», ripeteva la voce interiore. «Posso anche lavorare, ma non servirà a niente», brontolai; ma non di meno tirai fuori un pacco di lettere e misi mano al mio compito, un compito ingrato e amaro come quello dell’israelita che arrancava nei campi bruciati dal sole d’Egitto in cerca di paglia con cui poter ricavare il giusto numero di mattoni.

Intorno alle dieci sentii il calesse di Crimsworth che girava nel cortile e, dopo uno o due minuti, quest’ultimo entrò in ufficio. Aveva l’abitudine di lanciare un’occhiata a Steighton e a me, appendere il soprabito, stare un minuto in piedi dando le spalle al camino e poi uscire. Quel giorno non si discostò dalle abitudini, l’unica differenza fu che, quando guardò me, la fronte, invece di essere semplicemente dura, era arcigna. Gli occhi, invece di essere freddi, erano feroci. Mi studiò per un minuto o due più del solito, ma uscì in silenzio.

Arrivarono le dodici, suonò la campana per la pausa dal lavoro. Gli operai andarono a pranzo, anche Steighton si allontanò e mi chiese di chiudere la porta dell’ufficio e portarmi via la chiave. Stavo ordinando una pila di carte e sistemandole al loro posto ed ero pronto a chiudere la scrivania, quando Crimsworth ricomparve sulla porta e, entrando, la richiuse dietro di sé.

«Devi restare qui un momento», disse con voce profonda, brusca, con le narici che si dilatavano e una scintilla minacciosa negli occhi.

Rimasto solo con Edward, mi ricordai della nostra parentela, e, ricordando quella, dimenticai le nostre diverse posizioni. Lasciai da parte ogni deferenza e attenzione nel modo di rivolgermi a lui: risposi in modo semplice e conciso.

«È ora di andare a casa», dissi, chiudendo a chiave la scrivania.

«Tu resterai qui», ripeté. «E lascia quella chiave! Lasciala nella serratura».

«Perché?», domandai. «Per quale ragione dovrei cambiare le mie abitudini?».

«Fa’ come dico», rispose, «senza fare domande! Sei al mio servizio: obbediscimi, dunque. Che cosa hai fatto...», stava parlando così, senza neanche fermarsi a respirare, quando una brusca pausa mi disse che la rabbia doveva aver avuto la meglio sulla capacità di articolare altre parole.

«Puoi vedere tu stesso, se ci tieni a saperlo», risposi. «Ecco la scrivania aperta ed ecco le carte».

«Al diavolo la tua insolenza! Che cosa hai fatto?».

«Il tuo lavoro, e l’ho fatto bene».

«Ipocrita e bugiardo! Faccia di bronzo, moccioso, corno di grasso!» (quest’ultimo attributo credo sia tipico dello **shire e si riferisce al corno di grasso di balena, nero e rancido, che si vede appeso alle ruote dei carri e viene usato per ungerle).

«Forza, Edward Crimsworth, basta! È ora che noi due la facciamo finita. Ho lavorato tre mesi in prova al tuo servizio ed è stata la più nauseante schiavitù al mondo. Cercati un altro impiegato. Io non rimango un minuto di più».

«Come? Osi licenziarti? Aspetta almeno di prendere il tuo stipendio». Afferrò la pesante frusta del calesse appesa accanto al suo soprabito.

Mi concessi di ridere con un certo grado di disprezzo, che non mi disturbai a mitigare o dissimulare. La sua rabbia esplose e dopo una serie di insulti empi e volgari – senza comunque azzardarsi ad alzare la frusta – continuò:

«Ti ho smascherato, misero, lagnoso leccapiedi. Cosa vai raccontando in giro per X. sul mio conto? Rispondi!».

«Sul tuo conto? Non ho alcuna voglia né tentazione di parlare di te!».

«Bugiardo! Non fai che parlare di me, invece, ti lamenti continuamente in pubblico del trattamento che ricevi da me. Sei andato a raccontare a tutti che ti do uno stipendio da fame e ti tratto come un cane. Magari fossi un cane! Mi darei subito da fare, senza muovermi di qui prima di averti staccato ogni lembo di carne dalle ossa con questa frusta».

Brandì l’arma. La punta mi sfiorò la fronte. Sentii un caldo fremito eccitarmi le vene, il sangue parve fare un balzo e mettersi a correre veloce e caldo nei suoi canali.