Un fiume scorreva tra gli alberi imprigionando sulla sua superficie quella tipica luce fredda del sole e del cielo d’ottobre. Lungo le sue rive si intravedevano a intervalli frequenti gli alti camini delle fabbriche, simili a torri sottili, e ogni tanto delle grandi case simili a Villa Crimsworth, che occupavano le posizioni migliori sulla collina: la campagna appariva, in complesso, allegra, vitale, fertile. Il vapore, il commercio e le macchine l’avevano da tempo sottratta ai romanticismi e all’isolamento. A cinque miglia da lì, tra una serie di colline basse, si apriva una valle in cui s’annidava la grande città di X. Un denso vapore aleggiava costantemente su questa località: là si trovava l’”azienda” di Edward.

Forzai i miei occhi a osservare bene quel panorama, forzai la mia mente a indugiarvi un po’, e vedendo che non suscitava alcuna emozione piacevole al mio cuore – che non accendeva in me nessuna delle speranze che un uomo dovrebbe sentire davanti al possibile scenario della sua futura carriera – mi dissi: «William, tu sei un ribelle senza speranza; sei uno sciocco e non sai quel che vuoi. Hai scelto il commercio e sarai un commerciante. Guarda!», continuavo mentalmente. «Guarda il fumo che si leva denso in quella valle e sappi che quello è il tuo posto! Lì non potrai sognare, meditare né fare congetture, lì andrai a lavorare!».

In tal modo autoistruito, feci ritorno a casa. Mio fratello era nella sala della colazione. Lo salutai con compostezza – non potevo salutarlo con gioia; era in piedi sul tappeto, con le spalle al camino: quante cose gli lessi negli occhi quando mi avvicinai per augurargli il buongiorno e i nostri sguardi si incontrarono: quante cose in contraddizione con la mia natura! Disse «Buongiorno» in modo brusco e chinò la testa; poi, più che prenderlo, afferrò un giornale dal tavolo e iniziò a leggerlo con l’aria del padrone che trova una scusa per evitare il fastidio di parlare con un suo dipendente. Fu un bene che avessi deciso di resistere per un po’, altrimenti quelle maniere avrebbero reso davvero insopportabile il disgusto che mi ripromettevo di tenere sotto controllo. Lo guardai: valutai la sua struttura robusta e le forti proporzioni. Vidi la mia immagine nello specchio sopra il caminetto e mi divertii a paragonare le nostre due figure. Di faccia gli somigliavo, ma non ero bello come lui; avevo tratti meno regolari, occhi più scuri e la fronte più ampia, di corporatura ero più magro, più minuto, non altrettanto alto. Nel fisico era di gran lunga superiore a me; se lo fosse stato altrettanto anche nell’intelligenza, sarei finito per essere uno schiavo, poiché non mi aspettavo in lui la generosità che dimostra il leone verso uno più debole. Gli occhi freddi, avari, la sua durezza, il distacco, dicevano che non mi avrebbe risparmiato. Ero dunque forte abbastanza da tenergli testa? Non lo sapevo; non ero mai stato messo alla prova.

L’entrata della signora Crimsworth mi distolse per un attimo dai miei pensieri. Stava bene, era vestita di bianco, il suo volto e gli abiti luminosi ostentavano una freschezza mattutina e da sposa. La salutai con quel grado di spontaneità che la disinvolta allegria della sera prima sembrava consentirmi; ma lei rispose con freddezza e controllo. Il marito l’aveva istruita: non doveva concedere troppa confidenza a un dipendente.

Appena finita la colazione Crimsworth mi comunicò che stavano portando il calesse alla porta e che dovevo farmi trovare pronto in cinque minuti per accompagnarlo a X.

Non lo feci attendere: di lì a poco eravamo già lanciati a forte velocità lungo la strada. Il cavallo che guidava era lo stesso indomito animale su cui la signora Crimsworth aveva espresso i suoi timori la sera prima. Jack sembrò tirare di lato e farsi recalcitrante un paio di volte, ma un colpo secco e vigoroso di frusta dalla spietata mano del padrone lo costrinse a sottomettersi, e le narici dilatate di Edward esprimevano la sua soddisfazione per quel trionfo. Durante il breve tragitto mi rivolse a malapena la parola, e aprì bocca solo ogni tanto per inveire contro il suo cavallo.

X. era in gran fermento e subbuglio quando arrivammo; lasciammo le strade pulite dove c’erano case e botteghe, chiese e pubblici edifici; lasciammo tutto ciò per avviarci verso una zona di fabbriche e magazzini. Poi, attraverso due grossi cancelli, giungemmo in un grande cortile pavimentato, e ci trovammo nel Bigben Close: la fabbrica era davanti a noi, rigurgitava fuliggine dall’alto camino e vibrava attraverso le spesse mura di mattoni per l’agitazione delle sue viscere di ferro. Gli operai facevano avanti e indietro; un vagone veniva caricato di pezzi. Crimsworth si guardò attorno e parve comprendere al primo sguardo tutto quel che stava accadendo. Scese e, affidati cavallo e calesse alla cura di un uomo che l’aveva raggiunto di corsa per prendergli le redini dalle mani, mi ordinò di seguirlo in ufficio. Entrammo: era molto diverso dalle sale di Villa Crimsworth, era un posto per gli affari, con un semplice pavimento di tavole, una cassaforte, due alte scrivanie e sgabelli e alcune sedie. Dietro una scrivania era seduto un uomo che quando Crimsworth entrò si tolse il berretto per tornare poi subito a concentrarsi sull’operazione di scrivere o far di conto, non so quale.

Crimsworth si levò l’impermeabile e andò a sedersi accanto al camino.