Ricordatelo».

«Sì, come vedrai ho buona memoria».

Non aggiunsi altro. Non ritenevo fosse il caso di discutere troppo. D’istinto avevo la sensazione che sarebbe stato folle lasciarsi andare ai propri umori davanti a un uomo come Edward. Mi dissi:

“Metterò una tazza sotto questo continuo stillicidio; resterà lì ferma immobile. Quando sarà piena, traboccherà, nel frattempo pazienza. Due cose sono certe. Sono in grado di eseguire il lavoro che mi ha offerto, posso guadagnarmi onestamente lo stipendio, e questo basterà a consentirmi di vivere. E se mio fratello ha con me l’atteggiamento di un padrone aspro e arrogante, la colpa è sua, non mia; la sua prepotenza e la sua insensibilità dovrebbero forse convincermi ad abbandonare il cammino che ho scelto? No. O quantomeno, prima di cambiare strada, andrò avanti abbastanza da vedere in quale direzione mi conduce questa carriera. Finora sto solo pigiando all’ingresso: un cancello invero piuttosto stretto, che dovrebbe avere un buon termine”. Mentre ragionavo in questo modo il signor Crimsworth suonò un campanello; il primo impiegato, l’uomo che era stato allontanato prima del nostro colloquio, rientrò.

«Signor Steighton, faccia vedere al signor William le lettere dei fratelli Voss, e gli dia la copia delle risposte in inglese; lui le tradurrà».

Steighton, un uomo di circa trentacinque anni, dall’espressione a un tempo sveglia e tarda, si affrettò a obbedire. Mise le lettere sulla scrivania e subito dopo io ero lì seduto, preso a tradurre quelle risposte dall’inglese al tedesco. Un sentimento di profondo piacere accompagnò questo mio primo sforzo di guadagnarmi da vivere, sentimento che non era avvelenato né indebolito dalla presenza del padrone, che rimase lì in piedi a osservarmi per un po’ di tempo mentre scrivevo. Pensai che stesse cercando di indovinare il mio carattere, e mi sentii sicuro contro quel suo esame, come se avessi in testa un casco con la visiera abbassata, e anzi gli mostrai il mio volto con la medesima sicurezza con cui si mostrerebbe una lettera scritta in greco a un ignorante. Poteva scorgervi linee, riconoscere certi caratteri, ma senza sapere cosa farsene; la mia natura non era la sua, e i suoi segni erano come parole di una lingua sconosciuta per lui. Dopo un po’ si voltò bruscamente, come sconfitto, e uscì dall’ufficio; nel corso di quella giornata ritornò solo due volte. Ogni volta mischiò brandy e acqua in un bicchiere, prendendo gli ingredienti da un armadio accanto al caminetto, e ingoiò; dopo aver dato uno sguardo alle mie traduzioni – sapeva leggere sia il francese che il tedesco – uscì di nuovo in silenzio.

Capitolo III

Lavorai per Edward come secondo impiegato con fedeltà, puntualità e zelo. Avevo la capacità e la volontà di portare a termine quel che mi veniva affidato. Crimsworth cercava scrupolosamente dei difetti, ma non ne trovava; incaricò anche Timothy Steighton, il suo favorito e principale dipendente, di controllare anche lui. Tim era perplesso: ero preciso come lui e più veloce. Crimsworth indagò su come vivevo, se avevo debiti: no, i miei conti con la padrona di casa erano sempre in regola. Avevo affittato un modesto alloggio, che contavo di pagare attingendo a un piccolo fondo: i soldi che ero riuscito a risparmiare dal mio mantenimento a Eton. Poiché per mia natura avevo sempre detestato chiedere aiuto, mi ero abituato in fretta a un’economia di ristrettezze e amministravo la mia gratifica mensile con uno zelo ansioso, per non correre il rischio in caso di future necessità di dover chiedere assistenza a qualcuno.

Ricordo che molti a quel tempo mi davano dell’avaro, e io univo quella critica a questa consolazione: meglio essere frainteso ora che rifiutato in seguito. Ed ecco la mia ricompensa; una l’avevo già avuta quando, nel congedarmi dai miei sdegnati zii, uno di loro mi aveva gettato davanti, sul tavolo, una banconota da cinque sterline che ero riuscito a non prendere, dicendo che avevo già provveduto alle spese di viaggio.

Crimsworth incaricò Tim di chiedere alla padrona di casa se avesse qualche lamentela da fare sulla mia condotta; lei rispose che, a suo parere, ero un uomo molto religioso, e gli chiese a sua volta se per caso intendessi, un giorno, entrare nella Chiesa, perché, disse, aveva avuto come inquilini dei giovani pastori che non erano affatto equilibrati e tranquilli come me. Anche Tim era «un uomo religioso», era un metodista convinto, in effetti – cosa che (sia chiaro) non gli impediva di essere al tempo stesso un mascalzone –, e fu molto imbarazzato nel sentire questa testimonianza sulla mia religiosità.

Dopo che l’ebbe riferito a Crimsworth, quel gentiluomo, che non frequentava luoghi sacri e non aveva altro dio all’infuori di Mammona, usò quell’informazione per minare la serenità del mio umore. Iniziò così una serie di velate provocazioni, che io non avevo capito dove volessero andare a parare finché la padrona di casa non mi riferì casualmente la conversazione avuta con Steighton. Questo mi illuminò: da quel momento andai in ufficio preparato a sopportare il sarcasmo miscredente del mio padrone con uno scudo di imperturbabile indifferenza. Egli presto si stancò di sprecare colpi contro una statua, ma non gettò i suoi strali: li mise a riposare nella faretra.

Durante il periodo del mio impiego, fui invitato una sola volta a Villa Crimsworth; l’occasione era una grande festa per il compleanno del padrone: aveva sempre invitato i suoi dipendenti per quegli anniversari e non gli sarebbe stato facile escludermi; fui comunque tenuto rigorosamente in disparte. La signora Crimsworth, elegante e vestita con raso e merletti, un fiore di giovinezza e salute, non mi riservò più attenzione di quanta possa esprimerne un cenno distante. Crimsworth, naturalmente, non mi rivolse mai la parola; non mi presentarono nessuna delle tante signorine che, avvolte in nubi argentee di veli bianchi e mussolina, sedevano in fila di fronte a me sul lato opposto di un’ampia sala.