Essendo di fatto piuttosto isolato, non potevo che ammirare quelle sfavillanti creature da lontano, e quando ero stanco di quella scena tanto abbagliante, volgermi, per cambiare, a esaminare il disegno del tappeto. Crimsworth – in piedi, col gomito poggiato sul camino di marmo e circondato da un gruppetto di ragazze graziose con cui conversava allegramente – mi lanciò uno sguardo: avevo l’aria triste, solitaria, abbattuta di un tutore o un’istitutrice lasciati in disparte. Era soddisfatto.
Iniziarono le danze; mi sarebbe davvero piaciuto che mi avessero presentato una ragazza carina e intelligente, per avere la libertà e il modo di dimostrare che sapevo provare ed esprimere il piacere dei rapporti sociali; che non ero, in altre parole, un pezzo di legno, o un mobile, ma un uomo che agiva, pensava, sentiva. Molti volti sorridenti e figure graziose scivolavano davanti a me, ma i sorrisi erano rivolti ad altri occhi, e le figure portate da altre mani.
Mi allontanai inquieto da quelli che ballavano e mi spostai nella sala da pranzo rivestita di quercia. Non una sola fibra di simpatia mi legava alle cose viventi di quella casa; cercai e trovai il ritratto di mia madre. Presi una candela e la alzai dal suo sostegno. La guardai a lungo, intensamente. Avvicinai il mio cuore all’immagine. Mia madre, notai, mi aveva lasciato in eredità molti dei suoi lineamenti e della sua espressione: la fronte, gli occhi, l’incarnato. Non c’è bellezza oggettiva che piaccia agli egoistici esseri umani più di un’addolcita e raffinata versione di se stessi; per questo i padri si compiacciono vedendo i lineamenti sul volto delle loro figlie, in cui spesso ritrovano la loro stessa immagine associata però in modo lusinghiero a una morbidezza nei colori e a una delicatezza nei tratti. Mi stavo proprio chiedendo che impressione avrebbe ricavato uno spettatore imparziale da quel ritratto per me così interessante, quando una voce dietro di me pronunciò queste parole:
«Mmm! In effetti è un volto molto significativo».
Mi voltai: accanto a me c’era un uomo alto, giovane, sebbene probabilmente di cinque o sei anni più grande di me; aveva, per il resto, un aspetto niente affatto banale. Per il momento, però, giacché non ho intenzione di fare il suo ritratto dettagliato, il lettore si deve accontentare di quanto ho appena abbozzato: è tutto ciò che io stesso vidi di lui in quel momento. Non mi soffermai sul colore delle sopracciglia né su quello degli occhi; notai l’altezza e il profilo della figura, e anche il naso all’insù, dall’aria schifiltosa. Queste osservazioni, poche di numero e di sostanza (eccetto l’ultima), mi bastarono a riconoscerlo.
«Buonasera, signor Hunsden», mormorai con un inchino; poi, timido com’ero, feci per andarmene; e perché mai? Perché era un industriale e un proprietario di fabbrica, mentre io non ero che un impiegato e l’istinto mi suggeriva di allontanarmi. Mi era capitato di vederlo spesso a Bigben Close, dove veniva a discutere di affari con Crimsworth quasi ogni settimana, ma non gli avevo mai rivolto la parola, né lui a me; e provavo per lui un certo inconsapevole rancore, perché più di una volta aveva assistito silenziosamente alle provocazioni che Edward mi rivolgeva. Ero certo che non potesse considerarmi che uno schiavo povero di spirito, dunque volevo sottrarmi alla sua presenza ed evitare la conversazione.
«Dove sta andando?», mi chiese mentre mi allontanavo. Avevo già notato che il signor Hunsden aveva l’abitudine di parlare in tono brusco, e perversamente mi dissi:
“Crede di potersi rivolgere come gli pare a un povero impiegato; ma il mio umore potrebbe non essere docile come pensa, e non mi piace affatto che si prenda questa libertà”.
Gli risposi qualcosa, più noncurante che educato, e continuai ad allontanarmi. Egli si piantò sfacciato sulla mia strada.
«Resti un po’ qui», disse. «Fa così caldo nella sala da ballo; e poi, lei non balla. Non ha avuto neanche una compagna stasera».
Aveva ragione, e mentre parlava non mi dispiacquero né il suo sguardo, né il tono, né le maniere; il mio amour propre era quietato; non mi aveva quindi richiamato per boria, ma perché, essendo venuto a rinfrescarsi nella sala da pranzo, desiderava qualcuno con cui parlare per una temporanea distrazione. Detestavo la boria nei miei riguardi, ma mi piace molto sentirmi desiderato, quindi decisi di restare.
«È un bel quadro», continuò tornando al ritratto.
«Trova grazioso il volto?», gli chiesi.
«Grazioso? No: come potrebbe essere grazioso con quegli occhi infossati e quelle guance scavate? Però è particolare, sembra che pensi. Si potrebbe intrattenere una conversazione con quella donna, se fosse viva, su argomenti diversi da vestiti, visite di cortesia e complimenti».
Ero d’accordo con lui, ma non dissi niente. Egli continuò:
«Non che io ammiri un volto simile, manca di carattere e di piglio. C’è troppa sen-si-bi-li-tà (scandì la parola in questo modo, arricciando il labbro) in quella bocca; inoltre sembra porti “aristocratica” scritto sulla fronte e confermato nella figura: odio i vostri aristocratici».
«Lei dunque, signor Hunsden, pensa che un’origine nobile si possa individuare in una certa figura e in determinati lineamenti?».
«Al diavolo l’origine nobile! Chi mette in dubbio che i vostri signorotti possano avere una loro “certa figura e determinati lineamenti”, così come noi commercianti di provincia abbiamo i nostri? Ma quali sono migliori? Sicuramente non i loro. Quanto alle loro donne, le cose sono leggermente diverse: esse coltivano la bellezza già dall’infanzia e giungono in effetti con la cura e l’attenzione a un certo grado di eccellenza in quel campo, come le odalische orientali. Eppure, persino questa superiorità è controversa. Confronti la figura del quadro con quella della moglie del signor Crimsworth: qual è l’animale più bello?».
Risposi con calma: «Confronti se stesso a Edward Crimsworth, signor Hunsden».
«Ebbene, Crimsworth è più in forma di me, lo so. Inoltre ha il naso dritto, le sopracciglia arcuate e tutto il resto; ma non ha ereditato queste qualità – se possiamo definirle qualità – da sua madre, la nobile, ma da suo padre, il quale, stando a mio padre, era il più genuino tintore dello **shire che avesse mai messo del blu in una tinozza, eppure il più bell’uomo di tutta la regione. È lei, William, l’aristocratico della famiglia, e non è certo bello come il suo fratello plebeo».
Qualcosa nelle maniere schiette del signor Hunsden mi piaceva e mi faceva sentire a mio agio. Continuai la conversazione con un certo interesse.
«Come sa che sono il fratello del signor Crimsworth? Pensavo che lei e tutti gli altri mi vedeste semplicemente come un povero impiegato».
«Ed è proprio così; e lei cos’è se non un povero impiegato? Lavora per Crimsworth, che le dà un salario: un salario da fame, per giunta».
Rimasi in silenzio.
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