Il linguaggio di Hunsden era al limite dell’impertinenza, eppure i suoi modi non mi offendevano neanche un po’; mi incuriosivano invece – volevo che continuasse, cosa che fece subito dopo.
«Questo mondo è davvero assurdo», disse.
«Perché mai, signor Hunsden?».
«Mi sorprende che me lo domandi: è lei stesso una prova lampante dell’assurdità cui mi riferisco».
Volevo che si spiegasse di sua volontà, senza pressioni da parte mia; quindi ripresi il mio silenzio. «Ha intenzione di diventare commerciante?», mi chiese dopo un po’.
«Era mia seria intenzione tre mesi fa».
«Mah! Che sciocchezza: ha proprio un’aria da commerciante lei! La faccia tipica dell’uomo d’affari».
«La mia faccia è come il Signore l’ha fatta, signor Hunsden».
«Il Signore non ha creato la sua faccia né la sua testa per X. A cosa le servirà qui la sua inclinazione all’idealismo, alla dialettica, alla stima di sé, all’onestà? Tuttavia, se Bigben Close le piace tanto ci resti pure; sono fatti suoi, non miei».
«Forse non ho scelta».
«Be’, a me non importa proprio niente di quel che lei fa né dove va. Ora mi sono rinfrescato e voglio tornare a ballare. C’è una gran bella ragazza seduta lì nell’angolo del divano accanto alla madre: vediamo se riesco a prenderla come compagna di danze. Vedo che c’è Waddy, Sam Waddy, che le si sta avvicinando; scommettiamo che lo faccio fuori?».
Il signor Hunsden si allontanò a grandi passi. Lo guardai attraverso le porte aperte; superò Waddy, chiese la mano della bella ragazza e la portò via tutto soddisfatto. Era una giovane donna alta, ben proporzionata, formosa, elegante, sul genere della signora Crimsworth. Hunsden la condusse nel valzer con una certa abilità; le rimase accanto per il resto della serata e dall’atteggiamento allegro e contento di lei capii che la sua compagnia doveva riuscirle piacevole. Anche la madre (una donna robusta con un turbante, la signora Lupton) aveva l’aria compiaciuta; forse visioni profetiche appagavano il suo sguardo interiore. Gli Hunsden erano una famiglia storica, e per quanto Yorke (questo era il nome del mio interlocutore) si dichiarasse sprezzante dei vantaggi dati dalla nascita, in fondo conosceva bene e apprezzava la distinzione che il suo antico, se non nobile, lignaggio gli garantiva in un paese come X., spuntato dal nulla come un fungo, e dei cui abitanti si diceva proverbialmente che nemmeno uno su mille sapeva chi fosse suo nonno. Gli Hunsden, poi, che un tempo erano stati ricchi, erano rimasti indipendenti e correva voce che Yorke, col successo che aveva negli affari, potesse riportare le fortune in parte perdute della famiglia all’originaria abbondanza. Dati tali presupposti, non c’era da stupirsi che il largo viso della signora Lupton mostrasse un sorriso di compiacimento nel vedere l’erede degli Hunsden tanto impegnato a corteggiare la sua cara Sarah Martha. Essendo il mio punto di vista meno carico d’ansia e di conseguenza probabilmente più attendibile, capii subito che quel compiacimento materno poggiava su basi molto instabili: quel gentiluomo sembrava molto più desideroso di sedurre che di essere sedotto. C’era qualcosa nel signor Hunsden che, mentre lo guardavo (non avevo niente di meglio da fare), mi ricordava, ogni tanto, uno straniero. Nei tratti e nell’aspetto lo si sarebbe definito un inglese, anche se già lì era possibile cogliere qualcosa di gallico; eppure non aveva nulla della timidezza inglese: doveva aver imparato da qualche parte, in qualche modo, l’arte di sentirsi a proprio agio e di non lasciare che la timidezza isolana fosse d’ostacolo a ciò che gli conveniva o che gli piaceva. Non era raffinato, ma non si poteva dire che fosse volgare; non era strano, né eccentrico, eppure non somigliava a nessuno che avessi visto prima. Tutto di lui suggeriva che fosse pienamente soddisfatto di sé, eppure a volte passava come un’ombra sul suo volto, che mi pareva il segno di un repentino e profondo dubbio interiore su se stesso, come se le sue parole e i suoi modi esprimessero un’energica insoddisfazione per la vita o la posizione sociale, i progetti o gli obiettivi intellettuali – non saprei dire cosa. Ma forse in fondo poteva anche essere solo un capriccio umorale.
Capitolo IV
Nessuno ama ammettere di aver commesso un errore nella scelta della professione, e ogni uomo degno di chiamarsi tale remerà a lungo contro il vento e il mare prima di abbandonarsi al grido: «Sono sconfitto!», e lasciare che la corrente lo riporti a terra. Fin dalla prima settimana di residenza a X. trovai il mio lavoro noioso. L’occupazione stessa – copiare e tradurre lettere d’affari – era già di per sé un compito sterile e tedioso, ma se fosse stato solo questo sarei riuscito a tollerare tale seccatura anche a lungo. Per mia natura non sono impaziente e, preso dal doppio desiderio di guadagnarmi da vivere e di motivare a me stesso e agli altri la decisione di mettermi nel commercio, avrei sopportato in silenzio l’arrugginirsi e il contrarsi delle mie migliori facoltà; non avrei sussurrato, neanche a me stesso, che anelavo la libertà, avrei trattenuto ogni sospiro con cui il cuore avesse osato tradire la sua disperazione in quell’ambiente chiuso – nel fumo, nella piattezza, nella confusione priva di gioia di Bigben Close – e il suo desiderio di scenari più liberi e freschi. Avrei piazzato nella mia piccola camera in casa della signora King l’immagine stessa del Dovere, il feticcio della Perseveranza, sarebbero stati i miei dèi protettori, da cui la mia adorata, segretamente amata Immaginazione, tenera e potente, non sarebbe mai riuscita a separarmi né con le buone né con le cattive. Ma non era affatto solo quello: l’antipatia che correva tra me e il mio datore di lavoro, che metteva radici ogni giorno più profonde e gettava ombre sempre più fitte, non mi permetteva di vedere la solarità della vita; e presi a sentirmi come una pianta che cresceva al buio delle pareti umide e viscide di un pozzo.
Antipatia è la sola parola che possa descrivere il sentimento che Edward Crimsworth nutriva per me – un sentimento in gran parte involontario e suscettibile a ogni mio minimo movimento, sguardo o parola. Il mio accento meridionale lo infastidiva; il grado di istruzione che rivelava il mio modo di parlare lo irritava; la mia puntualità, diligenza e accuratezza rafforzavano la sua avversione e le conferivano l’aroma intenso e il gusto forte dell’invidia: temeva che un giorno anch’io sarei potuto diventare un buon commerciante. Se fossi stato inferiore a lui in qualcosa, non mi avrebbe odiato in modo così assoluto, e invece sapevo tutto ciò che sapeva lui, e, ancor peggio, sospettava che tacessi tutta una ricchezza mentale di cui lui davvero non partecipava. Se fosse riuscito anche solo una volta a mettermi in ridicolo o mortificarmi, sarebbe riuscito a perdonarmi qualcosa, ma io ero protetto da tre facoltà: Cautela, Tatto e Osservazione, e per quanto diffidente e indagatrice fosse la malvagità di Edward non sarebbe mai riuscito a disorientare lo sguardo vigile di queste mie naturali sentinelle. Ogni giorno la sua malizia osservava il mio tatto, sperando che si addormentasse, pronta come un serpente ad approfittarsi della sua momentanea distrazione, ma il tatto, se è genuino, non dorme mai.
Avevo appena ricevuto la paga del primo trimestre e stavo tornando a casa, pervaso anima e corpo dalla piacevole sensazione che il padrone che mi aveva pagato soffriva ogni penny di quell’elemosina tanto faticosamente guadagnata (avevo smesso di considerare Crimsworth mio fratello già da tempo: era un padrone duro, severo, desiderava essere un tiranno inesorabile e nient’altro). Pensieri non vari, ma forti, occupavano la mia mente: due voci che continuavano a ripetere dentro di me sempre le stesse frasi.
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