Un alito di tramontana passò come un lamento per la quercia che pende sulla piccola Santa Maria della Febbre.
«Povera creatura!» disse Maria. Parve a lei e a suo marito di amarsi anche più teneramente del solito e tuttavia sentirono ambedue, senza dirselo, che qualche cosa li tratteneva dal bacio dell’amore.
Jeanne, appena Noemi ebbe chiuso dietro a sé l’uscio della loro camera, le si avvinghiò al collo, ruppe in singhiozzi irrefrenabili. La povera Noemi, avendo compreso, per l’effetto vedutone, che quell’ecclesiastico passato in fretta davanti all’amica sua era Maironi, si struggeva di pietà. Disse parole della più ardente, della più soave tenerezza con la voce di chi blandisce un bambino che soffre. Jeanne non rispondeva, singhiozzava sempre.
«È quasi meglio, cara» si arrischiò a dire Noemi «è quasi meglio che tu sappia, che tu non possa illuderti; è quasi meglio che tu lo abbia veduto con quell’abito!»
Stavolta udì rispondersi, fra i singhiozzi, tanti appassionati «no, no» così strani nel loro impeto quasi non doloroso, che ne rimase interdetta. Riprese quindi i suoi conforti ma più timidamente.
«Sì, cara, sì, cara, perché non essendoci più rimedio…»
Jeanne alzò il viso tutto lagrimoso.
«Non capisci che non è lui?» diss’ella. Noemi si sciolse, stupefatta, dalle sue braccia.
«Come, non è lui? Tutto questo perché non è lui?»
Ancora Jeanne le si lanciò al collo. «Non è quel frate che mi è passato davanti» disse fra i singhiozzi «è l’altro!»
«Chi, l’altro?»
«Quell’uomo che lo seguiva, che è partito con lui!»
Noemi neppure se n’era accorta, di quest’uomo. Jeanne le strinse il collo da soffocarla, con un riso convulso.
CAPITOLO TERZO.
Notte di tempeste.
Nello scendere al cancello della villa don Clemente si domandava con ansia segreta: l’avrà riconosciuta o no? E se l’ha riconosciuta, quale impressione gli avrà fatto? Giunto al cancello, si voltò a colui che aveva chiamato Benedetto, gli scrutò il viso, un viso scarno, pallido, intellettuale. Non vi lesse turbamento. Quegli occhi lo fissavano attoniti, quasi dicendo: perché mi guarda? Il monaco pensò: forse non l’ha riconosciuta o forse non suppone che io sappia del suo arrivo. Passò il braccio sotto quello del compagno, pigliò, tenendoselo stretto senza parlare, a sinistra, verso la fragorosa gola oscura dell’Aniene. Fatti pochi passi sotto gli alberi che fiancheggiano la via, gli disse: «Non mi domandi della riunione?» con maggiore dolcezza che le parole indifferenti non comportassero. Quegli rispose:
«Sì, mi racconti.»
La voce era fioca e vuota di desiderio. Don Clemente si disse: «l’ha riconosciuta» e parlò della riunione come persona preoccupata di altro, senza calore, senza cura di particolari; né fu interrotto mai dal compagno con domande o commenti.
«Ci si è sciolti» diss’egli «senza conchiuder nulla, anche perché sono arrivati dei forestieri. Così non ho potuto nemmeno combinar niente per te col signor Giovanni. Ma, domani, o tutti o in parte, credo che ci riuniremo ancora. E tu» soggiunse esitante «sei disposto a ritornare o non sei disposto?»
Benedetto rispose nel medesimo tôno sommesso di prima e sempre camminando:
«Le forestiere che ho vedute, restano?»
Don Clemente gli strinse il braccio forte forte.
«Non so» diss’egli. E soggiunse con un’altra stretta, commosso:
«Se avessi saputo…!»
Benedetto aperse la bocca per parlare ma si trattenne. Procedettero così in silenzio verso le due nere fronti della gola fragorosa, e, lasciata la strada maestra volgente a cavalcar l’Aniene sul ponte di San Mauro, presero la mulattiera dei Conventi che sale alla fronte di sinistra. Là in faccia l’obliquo scoglio enorme parve a don Clemente, in quel momento, simbolo minaccioso di una demoniaca forza ferma sul cammino di Benedetto; come gli parve minacciosa simbolicamente la cresciuta oscurità, minaccioso il cresciuto rombo profondo del fiume nella solitudine.
Passato l’Oratorio di san Mauro, dove la mulattiera dei Conventi gira a sinistra, sul fianco del monte, verso la Madonnina dell’Oro e un’altra mulattiera entra diritta nella gola per i ruderi delle Terme neroniane, Benedetto si sciolse dolcemente dal braccio del monaco e si fermò.
«Senta, padre» diss’egli. «Avrei bisogno di parlarle. Forse un poco a lungo.»
«Sì, caro, ma è tardi. Entriamo nel monastero.»
Benedetto abitava nell’Ospizio dei pellegrini, la casa rustica dove sono anche le stalle di Santa Scolastica a cui si accede da un cortile che comunica per un cancello grande colla via pubblica e per un cancello piccolo con il corridoio del monastero, che dalla via pubblica mette alla chiesa e al secondo dei tre chiostri.
«Non vorrei entrare nel monastero, stanotte, padre mio» diss’egli.
«Non vorresti entrare?»
Altre volte Benedetto, nei tre anni passati al servizio libero del monastero, aveva ottenuto da don Clemente licenza di passar la notte fuori, sulla montagna, pregando. Il Maestro pensò tosto che fosse giunto per il discepolo uno di quei terribili cimenti interni che gli facevano fuggire il povero giaciglio e le ombre chiuse, complici del Maligno nel martoriargli la immaginazione.
«Mi ascolti, padre» disse Benedetto.
Il suo accento fu così fermo, significò a don Clemente tanta gravità di prossime parole, che questi non credette di dover insistere sull’ora inoltrata. Uditi in alto zoccoli ferrati di cavalcature scendere alla loro volta, i due uscirono sul breve piano erboso che porta umili avanzi delle magnificenze neroniane incontro ad archi sperduti nel carpineto selvaggio dell’altra sponda, membra un tempo delle uniche Terme, cui ora divide in profondo il pianto dell’Aniene. Sopra quegli archi era la dimora del prete diabolico e delle peccatrici insidianti ai figli di San Benedetto. Il monaco pensò a Jeanne Dessalle.
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