Poi stette ancora in ascolto, per tre o quattro minuti. Non udendo più nulla, andò ad aprire, vide Benedetto che s’inginocchiò.

«Chi è costui?» diss’egli, ruvido.

«Il mio nome è Piero Maironi» rispose Benedetto «ma qui al monastero mi chiamano Benedetto.»

E fece l’atto di prender la mano dell’Abate per baciarla.

«Un momento!» disse l’Abate, accigliato, ritraendo e alzando la mano. «Cosa fate qui?»

«Lavoro nell’orto del monastero» rispose Benedetto.

«Sciocco!» esclamò l’Abate. «Domando cosa state facendo qui davanti alla mia porta!»

«Ero per venire da Vostra Paternità.»

«Chi vi ha detto di venire da me?»

«Don Clemente.»

L’Abate tacque, considerò lungamente l’uomo inginocchiato, poi brontolò qualche cosa d’incomprensibile e finalmente gli porse la mano a baciare.

«Alzatevi!» diss’egli ancora brusco. «Entrate! Chiudete l’uscio!»

L’Abate, entrato che fu Benedetto, parve dimenticarlo. Inforcò gli occhiali, si pose a sfogliare libri e a leggere carte, voltandogli le spalle. Benedetto aspettava diritto in piedi, con ossequio militare, ch’egli parlasse.

«Maironi di Brescia?» disse l’Abate, con la voce ostile di prima e senza voltarsi.

Avuta la risposta, continuò a sfogliare e a leggere. Finalmente si levò gli occhiali e si voltò.

«Cosa siete venuto a fare» diss’egli «qui a Santa Scolastica?»

«Sono stato un gran peccatore» rispose Benedetto. «Iddio mi ha chiamato fuori del mondo e fuori ne son venuto.»

L’Abate tacque un momento, guardò fisso il giovine, disse con dolcezza ironica:

«No, caro.»

Trasse la tabacchiera, la scosse ripetendo dei piccoli «no – no – no» quasi sotto voce, guardò nel tabacco, vi piantò le dita e levati gli occhi da capo su Benedetto, gli disse articolando lentamente le parole:

«Questo non è vero.»

Ghermita la presa con il pollice, l’indice e il medio, alzò la mano rapidamente come per gettar il tabacco in aria e proseguì con il braccio alzato:

«Sarà vero che siete stato un gran peccatore, ma non è vero che siate venuto fuori del mondo. Non siete né fuori né dentro.»

Fiutò rumorosamente la sua presa e ripeté:

«Né fuori né dentro.»

Benedetto lo guardava senza rispondere. Vi era in quegli occhi qualche cosa di tanto grave e di tanto dolce che l’Abate riabbassò i suoi alla tabacchiera aperta, tornò a frugarvi, a giocherellare col tabacco.

«Non vi capisco» diss’egli. «Siete nel mondo e non siete nel mondo. Siete nel monastero e non siete nel monastero. Ho paura che la testa vi serva come a vostro bisnonno, a vostro nonno e a vostro padre. Belle teste!»

Il viso di avorio di Benedetto si colorò lievemente.

«Sono anime in Dio» diss’egli «superiori a noi; e le parole Sue vanno contro un comandamento di Dio.»

«Fate silenzio!» esclamò l’Abate. «Dite di avere lasciato il mondo e siete pieno del suo orgoglio. Se volevate lasciare il mondo sul serio, dovevate cercare di farvi novizio! Perché non l’avete cercato? Avete voluto venir qua in villeggiatura, ecco la storia. O forse avevate degl’impegni a casa vostra, dei pasticci, mi capite! Nec nominentur in nobis. E avete voluto liberarvi per farne poi degli altri. E contate delle frottole a quel buon don Clemente, prendete il posto a un povero pellegrino, eh dite su, magari cercando di darla a intendere ai frati, che è facile, e a Domeneddio, che è difficile, con orazioni e sacramenti. Non dite di no!»

Il lieve rossore si era dileguato dal viso di avorio, le labbra apertesi un momento a parole pacatamente severe non si muovevano più, gli occhi penetranti fissavano l’Abate con la dolce gravità di prima. E l’Abate parve inasprito da quel silenzio tranquillo.

«Parlate, dunque!» diss’egli «Confessate! Non vi siete anche vantato di doni speciali, di visioni, che so io, di miracoli forse anche? Siete stato un gran peccatore? Mostrate che non lo siete ancora! Scolpatevi, se potete. Dite come avete vissuto, spiegate la vostra pretensione che Iddio vi abbia chiamato, giustificatevi di essere venuto a mangiare il pane dei frati a ufo, perché frate non avete voluto essere e quanto a lavorare avete lavorato ben poco!»

«Padre» rispose Benedetto e il tôno severo della voce, la severa dignità del volto mal si accordavano con la mansuetudine umile delle parole, «questo è buono per me peccatore che da tre anni vivo, per lo spirito, nella mollezza e nelle delizie, vivo nella pace, vivo nell’affetto di persone sante, vivo in un’aria piena di Dio. Le Sue parole sono buone e dolcissime all’anima mia, sono una grazia del Signore, mi hanno fatto sentire con le loro punte quanto orgoglio vi è ancora in me che non lo sapevo, perché nel disprezzarmi da me sentivo piacere. Come servo, poi, della santa Verità, le dico che la durezza non è buona neppure con uno che inganna, perché forse la soavità lo farebbe pentire del suo inganno; e che nelle parole della Paternità Vostra non è lo spirito del nostro Padre solo e vero, al quale sia gloria.»

Nel dire «al quale sia gloria» Benedetto cadde ginocchioni, acceso in viso da un fervore augusto.

«Sei tu, peccatore tristo, che vuoi fare il maestro?» esclamò l’Abate.

«Ha ragione, ha ragione» rispose Benedetto di slancio, affannosamente e giungendo le mani. «Ora Le dico il mio peccato. Desiderai l’amore illecito, mi compiacqui della passione di una donna ch’era d’altri come d’altri ero io e l’accettai. Lasciai ogni pratica di religione, non curai di dare scandalo. Questa donna non credeva in Dio e io disonorai Dio presso di lei colla mia fede morta, mostrandomi sensuale, egoista, debole, falso. Iddio mi richiamò colla voce dei miei morti, di mio padre e di mia madre.