Mi allontanai allora dalla donna che mi amava, ma senza vigore di volontà, ondeggiando nel mio cuore fra il bene e il male. In breve ritornai a lei, tutto ardente di peccato, conoscendo di perdermi e risoluto a perdermi. Non vi era più un atomo di volontà buona nell’anima mia quando una mano morente, cara, santa, mi afferrò e mi salvò.»
«Guardatemi bene» disse allora l’Abate senza farlo alzare. «Avete mai fatto sapere a nessuno ch’eravate qui?»
«A nessuno. Mai.»
L’Abate rispose secco:
«Non vi credo.»
Benedetto non batté ciglio.
«Voi sapete» ripigliò l’Abate «perché non vi credo.»
«Lo suppongo» rispose Benedetto piegando il viso. «Peccatum meum contra me est semper.»
«Alzatevi!» comandò l’inflessibile Abate. «Io vi caccio dal monastero. Ora vi recherete a salutare don Clemente nella sua cella e poi partirete per non ritornare mai più. Avete inteso?»
Benedetto assentì del capo, ed era per piegare il ginocchio all’omaggio di rito quando l’Abate lo trattenne con un gesto.
«Aspettate» diss’egli.
Rinforcò gli occhiali, prese un foglio di carta e vi scrisse, stando in piedi, alcune parole.
«Cosa farete» disse scrivendo «quando sarete fuori?»
Benedetto rispose piano:
«Il bambino preso in braccia dal padre mentre dormiva, sa egli cosa il padre farà di lui?»
L’Abate non replicò niente, finì di scrivere, pose il foglio in una busta, la chiuse, la tese, senza voltare il capo, a Benedetto che gli stava dietro le spalle.
«Prendete» disse «portate a don Clemente.»
Benedetto gli chiese il permesso di baciargli la mano.
«No, no, andate via, andate via!»
La voce dell’Abate tremava di collera. Benedetto ubbidì. Appena fu nel corridoio udì l’uomo incollerito strepitare sul piano.
Prima di entrare nella celletta di don Clemente, Benedetto si fermò davanti alla grande finestra che termina il corridoio. Ivi si era trattenuto, poche ore prima, il Maestro a contemplare i lumi di Subiaco pensando la nemica, la creatura di bellezza, d’ingegno, di naturale bontà, venuta forse a contendergli il suo figliuolo spirituale, a contenderlo a Dio. Ora il figliuolo spirituale era misteriosamente certo che la donna male amata da lui nel tempo del suo gravitare cieco e ardente sulle cose inferiori, aveva scoperto la sua presenza nel monastero e sarebbe venuta a cercarlo. Disceso dentro lo Spirito interno al proprio cuore, egli vi attingeva un pio sentimento del Divino ch’era pure in lei, ascoso a lei stessa, una mistica speranza che per qualche oscura via ella pure arriverebbe un giorno al mare di verità eterna e di amore, che attende tante povere anime erranti.
Don Clemente lo aveva udito venire e aperse a mezzo l’uscio della cella. Benedetto entrò, gli porse la lettera dell’Abate.
«Debbo lasciare il monastero» diss’egli, sereno. «Subito e per sempre.»
Don Clemente non rispose, aperse la lettera. Letta che l’ebbe, osservò a Benedetto, sorridendo, che la sua partenza per Jenne era stata decisa fin dalla sera precedente. Vero, ma l’Abate aveva detto: per non ritornare mai più. Don Clemente aveva le lagrime agli occhi e sorrideva ancora.
«Lei è contento?» disse Benedetto, quasi dolente.
Oh, contento! Come avrebbe potuto dire il suo Maestro, quel che sentiva? Partiva il discepolo diletto, partiva per sempre, dopo tre anni di dolce unione spirituale; ma ecco, l’ascosa Volontà si era manifestata, Iddio lo toglieva dal monastero, lo chiamava per altre vie. Contento! Sì, afflitto e contento, ma della sua contentezza non poteva dire il perché a Benedetto. La parola divina non avrebbe avuto valore per Benedetto s’egli non la intendeva da sé.
«Contento, no» diss’egli. «In pace, sì. Noi c’intendiamo, vero? E adesso raccogliti per le mie parole ultime, che spero ti saranno care.»
Don Clemente, nel dir così a voce bassa, si colorò tutto di rossore.
Benedetto piegò il capo a lui che gl’impose ambo le mani con dignità soave.
«Desideri» disse la virile voce piana «dare tutto te stesso alla Verità Suprema, alla sua Chiesa visibile e invisibile?»
Come se si fosse atteso a quell’atto e a quella domanda, Benedetto rispose pronto con voce ferma:
«Sì.»
La voce piana:
«Prometti tu, da uomo a uomo, vivere senza nozze e povero fino a che io ti sciolga della tua promessa?»
La voce ferma:
«Sì.»
La voce piana:
«Prometti tu essere sempre obbediente all’autorità della Santa Chiesa esercitata secondo le sue leggi?»
La voce ferma:
«Sì.»
Don Clemente attirò a sé il capo del discepolo e gli parlò sulla fronte:
«Ho chiesto all’Abate di poterti dare un abito di converso, perché uscendo di qua tu porti sopra di te almeno il segno di un umile ministero religioso. L’Abate, prima di decidere, ha voluto parlarti.»
Qui don Clemente baciò il discepolo in fronte, significando così il giudizio dell’Abate dopo il colloquio, chiudendo in quel bacio silenzioso parole di lode, non credute convenienti al suo carattere paterno né alla umiltà del discepolo. E non si avvide che il discepolo tremava da capo a piedi.
«Ecco» diss’egli «quel che l’Abate scrive dopo averti parlato.»
Mostrò a Benedetto il foglio dove l’Abate aveva scritto:
«Concedo. Fatelo partire subito perché io non sia tentato di trattenerlo.»
Benedetto abbracciò di slancio il suo Maestro e gli appoggiò la fronte a una spalla, senza parlare. Don Clemente mormorò:
«Sei contento? Adesso te lo domando io.»
Ripeté due volte la domanda senza ottenere risposta. Venne finalmente un sussurro:
«Posso non rispondere? Posso pregare un momento?»
«Sì, caro, sì.»
Accanto al lettuccio del monaco, alta sopra l’inginocchiatoio, una grande croce nuda diceva: Cristo è risorto, configgi ora tu a me l’anima tua. Infatti qualcuno, forse don Clemente, forse un suo predecessore, vi aveva scritto sotto: «omnes superbiae motus ligno crucis affigat.» Benedetto si stese bocconi a terra, posò la fronte ov’eran da posare le ginocchia. Per la finestra aperta della cella uno scialbo lume del cielo piovoso batteva, di sghembo, sul dorso dell’uomo prosteso e dell’uomo ritto in piedi con la faccia levata verso la croce grande.
1 comment