Il mormorio della pioggia, il rombo dell’Aniene profondo avrebbero detto a Jeanne uno sconsolato compianto di tutto che vive sulla terra e ama. A don Clemente dicevano un consenso pio della creatura inferiore con la creatura supplice al Padre comune. Benedetto non li udiva.

Egli si alzò, pacato in viso, vestì, a un cenno del Maestro, la tonaca di converso stesa sul letto, cinse la cintura di cuoio. Vestito che fu, si mostrò, aprendo le braccia e sorridendo, al Maestro, che si compiacque di vederlo così dignitoso, così spiritualmente bello in quell’abito.

«Lei non ha inteso?» disse Benedetto. «Non ha pensato una cosa?»

No, don Clemente aveva pensato che quella gran commozione di Benedetto fosse stata effetto di umiltà. Adesso capiva che altro gli sarebbe dovuto venire in mente; ma cosa?

«Ah!» esclamò a un tratto. «Forse la tua Visione?»

Certo. Benedetto si era visto morire sulla nuda terra, all’ombra di un grande albero, nell’abito benedettino; e argomento di non credere nella Visione giusta i consigli di don Giuseppe Flores e di don Clemente gli era stata la contraddizione di ciò con la sua ripugnanza strana per i voti monastici, venutagli sempre crescendo da quando aveva lasciato il mondo. Ora questa contraddizione pareva dileguarsi; pareva quindi risorgere la credibilità di un carattere profetico della Visione. Don Clemente ne conosceva questa parte e avrebbe potuto leggere nel cuore di Benedetto il suo sbigottimento al riaffacciarsi di un misterioso disegno Divino sopra di lui, il suo terrore di cadere in peccato di superbia. Non ci aveva pensato.

«Non pensarci neppure tu» diss’egli. E si affrettò a mutar discorso. Gli diede una lettera e dei libri per l’arciprete di Jenne. Intanto l’arciprete lo avrebbe ospitato. Se dovesse restare a Jenne o no, ritornare, in questo caso, a Subiaco o recarsi altrove, glielo farebbe sapere la Divina Provvidenza.

«Padre mio» disse Benedetto «proprio non penso cosa sarà di me domani. Penso unicamente questo: «magister adest et vocat me» ma non come una voce sovrannaturale. Ho avuto torto di non capire che il Maestro è presente sempre e chiama sempre: me, Lei, tutti. Basta farsi un po’ di silenzio nell’anima, la sua voce si sente.»

Un raggio fioco di sole entrò nella cella. Don Clemente pensò subito che, se cessasse di piovere, la signora Dessalle verrebbe probabilmente a visitare il monastero. Non disse niente ma la sua inquietudine interna si tradì con un trasalire della persona, con un’occhiata al cielo, che significarono a Benedetto come fosse tempo di partire. Egli domandò in grazia di poter pregare, prima nella chiesa di Santa Scolastica e poi al Sacro Speco. Il sole si nascose, ricominciò a piovere, Maestro e discepolo scesero insieme nella chiesa, vi si trattennero in preghiera l’uno accanto all’altro e fu quello il loro solo addio. Benedetto prese la via del Sacro Speco alle nove. Uscì di Santa Scolastica inosservato, mentre fra Antonio stava confabulando col messo di Giovanni Selva. In quel momento, il lume del sole redivivo riaccese rapidamente i vecchi muri, la via, il monte; acuto gioire, ali veloci di uccelletti ruppero in ogni parte il verde, e alle sue labbra salì spontanea la parola:

«Vengo.»

 

III.

 

Jeanne e Noemi arrivarono al monastero alle dieci. A pochi passi dal cancello Jeanne fu presa da una palpitazione violenta. Avrebbe desiderato visitare l’orto prima del Convento, poiché il monello di Subiaco le aveva detto che i frati di Santa Scolastica ci avevano un bell’orto e gente loro che vi lavorava: un vecchio di Subiaco e un giovine forestiere. Non era più da parlarne. Pallida, sfinita, si trascinò male, al braccio di Noemi, fino alla porta dove un accattone aspettava la minestra. Per fortuna fra Antonio aperse prima ancora che Noemi suonasse e Noemi lo pregò di una sedia, di un bicchier d’acqua per la signora che si sentiva male.