È incredibile come questa espressione, che si riferisce agli attriti delle macchine, si adattasse a meraviglia al cadavere. Ed egli continuava a fare sotto il mio naso quel che doveva fare, nella sua terra da spurgo! Per dieci volte fummo tentati di svitare i dadi che tenevano unite le cinque paia di gambe, comprese quelle del morto.
Ma era legato, lucchettato, piombato, sigillato e assicurato al suo sellino, e poi… sarebbe stato un peso… morto – non ho certo bisogno di cercare la parola – e, per vincere quella difficile corsa, non ci volevano pesi morti.
Corporal Gilbey era un uomo pratico, così come William Elson e Arthur Gough erano dei gentlemen pratici, e Corporal Gilbey ci ordinò quel che anch’essi, al suo posto, ci avrebbero ordinato. Jewey Jacobs si era impegnato a correre, come quarto, nella grande corsa del Perpetual-Motion-Food; aveva firmato una penale di venticinquemila dollari, pagabile sulle sue corse future. Da morto, non poteva più correre e non avrebbe pagato la penale. Quindi doveva pedalare, vivo o morto. Si dorme in bicicletta, ci si può perciò anche morire senza maggiore difficoltà. Tanto più che la corsa si chiamava corsa del moto perpetuo!
William Elson ci spiegò in seguito che la rigidità cadaverica, che egli chiamava, se non sbaglio, rigor mortis, non significa, in realtà, proprio nulla, e cede al primo sforzo che la infranga. Quanto all’improvvisa putrefazione, confessò di non sapere nemmeno lui a che cosa attribuirla… forse, disse, all’eccezionale abbondanza della secrezione di tossine muscolari.
Ed ecco dunque il nostro Jewey Jacobs mettersi a pedalare, dapprima di malavoglia, senza che si potesse vedere se facesse delle smorfie, col naso sempre stretto nella maschera. Lo incoraggiammo con amichevoli insulti, del genere di quelli che i nostri nonni indirizzarono a Terront durante la prima Parigi-Brest: “Dai, maiale, dai!”. A poco a poco comincia a prenderci gusto, ed ecco le sue gambe seguire il nostro ritmo, gli torna l’ankleplay, fino a che si mette addirittura a filare come un pazzo.
“Fa da volano!” grida il Corporal. “Regolarizza la nostra andatura. Tra poco sballerà!”
Non solo, infatti, regolarizzò la nostra andatura, ma imballò, e lo sprint di Jacobs morto fu uno sprint di cui i vivi non possono avere nemmeno un’idea. Tanto che l’ultimo vagone, che, durante il nostro tirocinio di maestri di scuola per defunti, era diventato invisibile, ingrandì fino a riprendere il suo posto naturale, che non avrebbe mai dovuto abbandonare, da qualche parte dietro di me, col centro del tender neppure a mezza yarda dalla mia spalla destra. Tutto ciò non avvenne, beninteso, senza che lanciassimo a nostra volta degli hurrà che rimbombarono nelle nostre quattro maschere:
“Hip, hip, hip, hurrà per Jewey Jacobs!”
E la tromba volante fece eco, negli spazi celesti: “Hip, hip, hip, hurrà per Jewey Jacobs!”
Avevo perso di vista la locomotiva e i due vagoni appena il tempo di insegnare al morto a vivere; quando fu in grado di cavarsela da solo, vidi la coda dell’ultimo vagone ingrandire come se stesse tornando indietro a prendere notizie. Sarà stata senza dubbio un’allucinazione, un riflesso deformato della quintupletta nell’acajou del grande sleeping che scintillava più di uno specchio: ma una forma umana – gobba o carica di un enorme fardello – pedalava dietro al treno. Le sue gambe si muovevano esattamente alla velocità delle nostre.
Istantaneamente la visione scomparve, nascosta dall’angolo posteriore del vagone, ormai superato. Mi sembrò molto buffo sentir guaire l’assurdo Bob Rumble, che saltellava impazzito a destra e a sinistra sul suo seggiolino di vimini, come una scimmia in gabbia:
“C’è qualcosa che pedala, c’è qualcosa che segue!”
L’educazione di Jewey Jacobs ci aveva preso un’intera giornata: era il mattino del quarto giorno, tre minuti, sette secondi e due quinti dopo le nove; l’indicatore di velocità aveva toccato il suo punto massimo, che non era stato costruito per oltrepassare: 300 chilometri all’ora.
La macchina volante ci rendeva un buon servizio; e, pur non potendo sapere se stessimo superando la velocità precedentemente indicata, sono sicuro che, grazie ad essa, non rallentammo di un sol metro, e l’ago del contachilometri restò fisso all’estremità del quadrante. Il treno si teneva sempre alla stessa altezza, senza spostamenti; ma, al momento di far rifornimento di combustibile, non aveva dovuto prevedere simili velocità, perché i passeggeri, cioè Mr. Elson e sua figlia, si erano recati attraverso il corridoio fin sulla piattaforma della locomotiva, proprio accanto ai macchinista, portando con loro cibi e bevande. La ragazza, con un’aria meravigliosamente attiva, portava una borsa da toeletta. Tutti (erano cinque o sei in tutto) si diedero da fare a ridurre in pezzi i vagoni e a infornare nella caldaia tutto quel che poteva bruciare.
La velocità aumentò ancora, mi è impossibile dire in che misura; ma il ronzio della tromba volante salì di alcuni mezzi-toni, e mi parve che, con il mio sforzo più accanito, anche la resistenza, sotto i pedali, cessasse completamente, il che era perlomeno assurdo. Forse che lo stupefacente Jewey Jacobs aveva ancora fatto progressi?
Sotto i miei piedi non scorsi più il bitume uniforme della pista, ma… molto lontano… il tetto della locomotiva! Fumate di carbone e di petrolio accecarono le nostre maschere. La macchina volante sembrava strisciare sotto di noi.
“Volo di avvoltoio,” ci spiegò brevemente, fra due accessi di tosse, Corporal Gilbey. “Attenzione al capitombolo!”
È noto, e Arthur Gough lo spiegherebbe meglio di me, che un oggetto che si muova a una velocità sufficiente, si innalza e plana, ogni attrito col suolo essendo soppresso dalla velocità, salvo a ricadere se non è munito di organi capaci di spingerlo avanti senza bisogno di un punto d’appoggio solido.
La quintupletta, ricadendo, vibrò come un diapason.
“All right,” disse inaspettatamente il Corporal, che si era esibito in una singolare gesticolazione, col naso proprio sulla ruota anteriore. Ricominciammo a filare come prima.
“Bucato pneumatico anteriore,” fece Bill in tono rassicurante.
Sulla destra, non c’era più traccia di vagoni: enormi cataste di legna e di bidoni di benzina erano ammucchiati sul tender; i trucks erano stati staccati e lasciati indietro: anche se per un po’ avevano continuato a avanzare per lo slancio acquistato, dovevano poi essere stati rallentati dall’attrito. Ora era possibile seguire il movimento delle ruote. La locomotiva era sempre alla stessa altezza.
“Ri-volo d’avvoltoio,” annunciò, Bill Gilbey. “Niente più rischio di capitomboli. Bucato pneumatico posteriore. All right.”
Per lo sbalordimento sollevai la testa sopra la maschera orizzontale e guardai in aria: la macchina volante era scomparsa e si allontanava senza dubbio da qualche parte alle nostre spalle insieme ai vagoni abbandonati.
Tutto andava bene, tuttavia, come diceva il Corporal; l’indicatore di velocità segnava sempre, tremando contro la sua guancia, un’andatura uniformemente accelerata, superiore ormai da un pezzo ai 300 chilometri orari.
La curva si profilava all’orizzonte.
Era una grande torre scoperchiata a forma di sezione di cono, con un diametro di duecento metri e un’altezza di cento.
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