Furono gli anni della scienza onnipotente e delle invenzioni, in cui si celebrò a lungo quel trionfo del Progresso che era incominciato nel 1878 proprio a Parigi con l’Esposizione Universale e che poi aveva avuto la sua apoteosi nel 1881 con il celebre Ballo Excelsior: una coreografia allegorica che, nelle intenzioni degli autori, avrebbe dovuto celebrare la vittoria della civiltà sull’oscurantismo, e la fratellanza tra i popoli come approdo inevitabile della Storia.
Alfred Jarry, il “poeta del assurdo”, fu un protagonista di quella Parigi e di quegli anni, colui che riuscì a dimostrare, con le sue opere e con i suoi comportamenti, l’assurdità delle idee comuni del suo tempo. Fu, probabilmente senza rendersene conto, nella letteratura e anche nella vita l’erede e il continuatore dei due personaggi più paradossali della letteratura francese dell’Ottocento, nati dal genio di Gustave Flaubert: Bouvard e Pécuchet. Flaubert, morto nel 1880, aveva dedicato gli ultimi sei anni della sua vita a smontare il mito centrale del secolo in cui era vissuto: quello del Progresso. Perciò aveva costruito quei due personaggi e gli aveva fatto compiere, in diecine e diecine di pagine, un viaggio vorticoso e catastrofico attraverso lo scibile umano. Partiti dall’agricoltura e dalle scienze ad essa connesse, i due “bonshommes” si erano poi cimentati con la chimica, con l’anatomia umana, con la medicina, con l’astronomia, con la geologia, con l’archeologia, con la storia, con i romanzi storici, con la letteratura, con l’estetica, con la politica, con le donne, con la ginnastica, con il magnetismo e lo spiritismo, con l’etica, con la filosofia, con il suicidio, con la religione. Avevano sperimentato le teorie pedagogiche d’avanguardia sui figli di un ergastolano, il bandito Touache; si erano occupati di sociologia, di economia, di urbanistica; avevano progettato di cambiare il villaggio dove vivevano, la Francia, e di rimettere l’umanità sulla sua giusta strada. A questo punto, però, i loro insuccessi avevano dovuto interrompersi perchè il loro autore era morto. (Bouvard et Pécuchet, come è noto, è un romanzo incompiuto e postumo). Jarry è l’inconsapevole continuatore di quei due personaggi. È colui che trasse le dovute conseguenze dal fallimento di tutti i loro tentativi di conoscere e di dominare il mondo razionalmente, e che dunque dirottò i loro sforzi verso l’unica possibile via d’uscita: l’assurdo. Perciò, dopo avere inventato il protagonista negativo Ubu, il personaggio-mostro, doveva inventare un personaggio positivo: quel “docteur Faustroll, pataphysicien”, che sarebbe stato in quell’epoca e anche nelle epoche successive l’iniziatore e il signore della “patafisica”, la scienza del mondo irreale. Ciò che Jarry ci manda a dire attraverso di lui è che, se la realtà del mondo dove viviamo ci ha delusi, possiamo sempre trasferirei nell’irrealtà e vivere, divertendoci, le più bizzarre avventure del nostro stesso pensiero. Ma tra Ubu e il dottor Faustroll nell’opera di Jarry ci sono altri personaggi, per così dire intermedi; e c’è André Marcueil, “le surmâle” protagonista del romanzo omonimo. (Pubbllicato dalle Editions de la Revue Blanche a Parigi nel 1902).
Le surmâle: Il supermaschio, può essere letto in molti modi, tutti assolutamente legittimi. Come sempre in Jarry, anche in questo racconto fantastico c’è tutto (o quasi) e il contrario di tutto. C’è l’amore non corrisposto dell’uomo per le macchine, e c’è “la Machine à inspirer l’amour, la macchina per ispirare l’amore” (degli uomini e delle donne per qualsiasi cosa). Ci sono le fantasie dell’adolescenza, riassunte nella frase con cui inizia il racconto: “L’amore è un atto senza importanza, perchè lo si può fare all’infinito”. C’è la donna, vista dapprima come preda e accettata poi come rivale e come benevola padrona. Ci sono i limiti del Progresso e quelli dell’uomo. C’è la passione di Jarry per gli sport. Ci sono, lontani e sfocati sullo sfondo, il Superuomo di Nietzsche (Così parlò Zarathustra è una delle opere-chiave di quegli anni) e Superman l’eroe dei fumetti (che ancora non è stato inventato ma che ha in André Marcueil un suo precursore). E c’è perfino, in filigrana, una storia d’amore: perchè no? Una banalissima e comunissima storta d’amore. Chi, almeno una volta nella vita, non si è sentito supermaschio (o superfemmina)?
Grande, inimitabile Jarry.
Sebastiano Vassalli
Maggio 2012
LA MANIGLIA ALL’INCANTO1
“L’amore è un atto senza importanza, perché lo si può fare all’infinito.”
Tutti gli sguardi si fissarono su colui che aveva appena pronunciato una simile assurdità.
Gli ospiti di André Marcueil nel castello di Lurance erano giunti, quella sera, a una conversazione sull’amore, essendo parso questo, all’unanimità, il soggetto ideale, visto che c’erano delle signore, e il più adatto a evitare, perfino in quel settembre del 1920, delle penose discussioni sull’Affare.
Si potevano notare, fra gli altri, il celebre chimico americano William Elson, vedovo, accompagnato dalla figlia Ellen; l’arciricco ingegnere, elettrologo e costruttore d’automobili e di aeroplani Arthur Gough, e sua moglie; il generale Sider; il senatore Saint-Jurieu e la baronessa Pusice-Euprépie di Saint-Jurieu; il cardinale Romuald; l’attrice Henriette Cyne; il dottor Bathybius. Questi diversi e poco comuni personaggi avrebbero potuto, senza alcuno sforzo verso il paradosso, rinverdire il luogo comune lasciando semplicemente via libera alla propria originalità; ma il saper vivere appiattì subito i loro discorsi alla compita incongruenza di una conversazione mondana.
Per questo la frase inaspettata produsse gli stessi effetti di quelli, ancora poco studiati ai giorni nostri, che produce una pietra cadendo in uno stagno di ranocchie: dopo una brevissima confusione, un interesse universale.
Avrebbe anche potuto produrre, prima di tutto, un altro risultato: dei sorrisi; ma, sfortunatamente, a pronunciarla era stato l’anfitrione.
Il volto di André Marcueil, come il suo aforisma, scavava un buco nell’uditorio; e non per la sua singolarità, ma piuttosto, se queste due parole si possono accoppiare, per la sua caratteristica inespressività: pallido come gli sparati di cui si squarciano a mezzaluna i vestiti, si sarebbe confuso con le boiseries, allibite di luce elettrica, se non fosse stato per lo scrimolo d’inchiostro della barba, che portava a collarino, e dei capelli un po’ lunghi e arricciati col ferro, senza dubbio per nascondere un principio di calvizie. I suoi occhi erano probabilmente neri, ma deboli lo erano a colpo sicuro, dal momento che si rifugiavano dietro le lenti affumicate di uno stringinaso d’oro. Marcueil aveva trent’anni; era di statura media, che pareva divertirsi ad accorciare ancora arcuandosi. I suoi polsi, sottili e tanto pelosi da sembrare la replica perfetta delle sue gracili caviglie guainate di seta nera, i suoi polsi come le sue caviglie suggerivano per tutta la sua persona, almeno a giudicare da quel che se ne vedeva, l’idea di una particolare fragilità. Parlava a voce bassa e lenta, quasi che badasse ad amministrare con economia il proprio respiro. Se possedeva una licenza di caccia, si poteva giurare che i suoi dati segnaletici dicevano: mento rotondo, viso ovale, naso ordinario, bocca ordinaria, statura ordinaria… Marcueil realizzava così perfettamente il tipo dell’uomo ordinario da diventare realmente straordinario.
La frase, bisbigliata come in un soffio dalla bocca di questo manichino, acquistava un deplorevole sapore ironico: certamente Marcueil non sapeva quel che diceva, visto che non gli si conoscevano amanti e che era più che plausibile che il suo stato di salute gli vietasse l’amore.
Ci fu un attimo di gelo, e qualcuno stava per affrettarsi a cambiare argomento, quando Marcueil riprese:
“Parlo seriamente, signori.”
“Credevo” bamboleggiò la non più giovane Pusice-Euprépie di Saint-Jurieu “che l’amore fosse un sentimento.”
“Lo è, forse, signora,” rispose Marcueil. “Basta intendersi su… che cosa si intende… per sentimento.”
“È un’impressione dell’anima,” si affrettò a dire il cardinale.
“Quand’ero bambino, ho letto qualcosa di simile nei filosofi spiritualisti,” aggiunse il senatore.
“Una sensazione indebolita,” fece Bathybius.
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