“Onore agli associazionisti inglesi!”
“Sarei quasi dell’avviso del dottore,” disse Marcueil “un’azione attenuata, probabilmente; cioè: non proprio un’azione, o meglio: un’azione in potenza.”
“Se si ammettesse questa definizione,” chiese Saint-Jurieu “l’azione realizzata escluderebbe l’amore?”
Henriette Cyne sbadigliò ostentatamente.
“Certamente no,” fu la risposta di Marcueil.
Le signore ritennero opportuno di prepararsi ad arrossire dietro il ventaglio, o a nascondervi che non sarebbero arrossite.
“Certamente no,” terminò Marcueil “se all’azione compiuta segue ogni volta una nuova azione che… di sentimentale mantiene il fatto che non si compierà che un po’ più tardi.”
Questa volta, molti dei presenti non riuscirono a trattenere un sorriso.
Ad autorizzarli era, secondo ogni evidenza, il loro ospite stesso, che si divertiva a svolgere fino alle estreme conseguenze un paradosso.
È un fatto spesso osservato che sono proprio le creature più deboli che si occupano maggiormente – nell’immaginazione – di prodezze fisiche. Soltanto il dottore, con un certo sangue freddo, obiettò:
“Ma la ripetizione di un atto vitale conduce alla morte dei tessuti o a quella loro intossicazione che si chiama: fatica.”
“La ripetizione produce l’abitudine e l’abi… lità” rimbeccò Marcueil con la stessa gravità.
“Hurrah! L’allenamento!” disse Arthur Gough.
“Il mitridatismo” disse il medico.
“L’esercizio” disse il generale.
E Henriette Cyne scherzò:
“Present-arm! Un, due, tre!”
“Perfetto, signorina,” concluse Marcueil “se vorrete continuare a contare fino all’esaurimento della serie indefinita dei numeri.”
“O, per abbreviare, delle forze umane” insinuò con la sua deliziosa pronuncia blesa Mrs. Arabella Gough.
“Le forze umane non hanno limiti, signora,” affermò tranquillamente Marcueil.
Nessuno sorrise, ad onta della nuova occasione che ne offriva l’oratore: la sicurezza con cui aveva esposto un simile teorema lasciava prevedere che Marcueil intendesse arrivare a una conclusione. Ma quale? Tutto nel suo aspetto pareva annunciare che egli era l’ultimo uomo al mondo che potesse lanciarsi sulla pericolosa strada dell’esempio personale.
Ma l’attesa fu delusa: Marcueil non aprì bocca, come se avesse posto fine alla discussione con una verità universale.
Fu ancora il dottore, stizzito, a rompere il silenzio.
“Volete dire che ci sono degli organi che lavorano e si riposano quasi simultaneamente, dando l’illusione di non fermarsi…”
“Il cuore, tanto per restare sentimentali,” interruppe William Elson.
“… che alla morte?” concluse Bathybius.
“Ecco qualcosa che è più che sufficiente per rappresentare una fatica infinita:” osservò Marcueil “il numero delle diastole e delle sistole di una vita umana o anche di una sola giornata supera ogni cifra immaginabile.”
“Ma il cuore è un sistema di muscoli estremamente semplice,” corresse il dottore.
“Anche i miei motori si fermano quando non c’è più benzina,” disse Arthur Gough.
“Si potrebbe immaginare” azzardò il chimico “un carburante per il motore umano che ritardasse all’infinito, ponendovi di volta in volta rimedio, la fatica muscolare e nervosa. Da poco ho creato qualcosa del genere…”
“Ancora il vostro Perpetual-Motion-Food!” sbuffò il dottore. “Ne parlate sempre e non lo si vede mai. Credevo che ne avreste inviato un campione al nostro amico…”
“Come?” chiese Marcueil. “Dimenticate, mio caro, che fra le altre infermità ho anche quella di non capire l’inglese.”
“L’Alimento-del-Moto-perpetuo,” tradusse il chimico.
“È un nome allettante,” disse Bathybius. “Voi, Marcueil, che ne pensate?”
“Sapete bene che non prendo mai medicine… pur avendo un medico come migliore amico,” si affrettò ad aggiungere Marcueil facendo un piccolo inchino a Bathybius.
“Quest’animale ostenta un po’ troppo di non sapere né voler sapere niente, e di essere per giunta anemico,” mugolò il dottore.
“È una chimica poco interessante, mi pare;” continuò Marcueil, rivolgendosi a William Elson. “Ci sono, se non sbaglio, dei complessi sistemi muscolari e nervosi che godono di un riposo assoluto mentre il loro ‘simmetrico’ lavora. È un fatto noto che la gamba di un ciclista si riposa e usufruisce quasi di un massaggio automatico, più ristoratore di qualsiasi linimento, mentre l’altra agisce…”
“To’! E dove l’avete imparato?” disse Bathybius. “Eppure, non mi pare che voi andiate in bicicletta?”
“Gli esercizi fisici non fanno per me, amico mio, non sono abbastanza in gamba,” rispose Marcueil.
“Andiamo! Ma è un partito preso!” farfugliò ancora il dottore. “Ignorare tutto tanto sul fisico che sul morale… Ma perché? È vero che con quella faccia…”
“Potrete giudicare gli effetti del Perpetual-Motion-Food senza prendervi la briga di provarlo, restando semplice spettatore,” diceva intanto William Elson a Marcueil. “Dopodomani avrà luogo la partenza di una gara nel corso della quale una squadra di ciclisti ne sarà esclusivamente alimentata. Se vorrete farmi l’onore di assistere all’arrivo…”
“Contro chi corre questa squadra?” s’informò Marcueil.
“Contro un treno,” rispose Arthur Gough. “E oso affermare che la mia locomotiva raggiungerà velocità mai immaginate.”
“Ah…? E durerà molto?” domandò Marcueil.
“Diecimila miglia.”
“Sedicimilanovecentotrenta chilometri,” spiegò William Elson.
“Simili cifre non significano più nulla,” constatò Henriette.
“Più lontano della distanza fra Parigi e il mar del Giappone,” precisò Arthur Gough. “E poiché fra Parigi e Vladivostock non ci sono esattamente le nostre diecimila miglia, giunti a due terzi della distanza, tra Irkoutsk e Stryensk, torniamo indietro.”
“Meglio così,” disse Marcueil. “Vedremo l’arrivo a Parigi. E dopo quante ore?
“Prevediamo un percorso di cinque giorni,” rispose Arthur Gough.
“È molto,” considerò Marcueil.
A questa osservazione che rivelava tutta l’incompetenza del loro interlocutore, il chimico e l’ingegnere trattennero a stento una alzata di spalle.
Marcueil si corresse:
“Voglio dire che sarebbe più interessante seguire la corsa che aspettare l’arrivo.”
“Portiamo due vagoni-letto,” disse William Elson. “Sono a vostra disposizione. A parte i macchinisti, non ci sono altri passeggeri che io stesso, mia figlia e Gough.”
“Mia moglie non parte,” avvertì quest’ultimo. “È troppo nervosa.”
“Non so se sono nervoso anch’io,” disse Marcueil, “ma quel che è certo è che in treno soffro sempre mal di mare e ho sempre paura di un incidente. Che i miei auguri vi accompagnino, in difetto della mia sedentaria persona.”
“Ma, almeno, verrete all’arrivo?” insistette Elson.
“Almeno all’arrivo, ci proverò,” accondiscese Marcueil, scandendo le parole in modo strano.
“Che cos’è il vostro Motion-Food?” chiese Bathybius al chimico.
“Capirete bene che non posso dire nient’altro… se non che è a base di stricnina e di alcool,” fu la risposta di Elson.
“È noto che la stricnina, a dosi alte, funziona come un tonico; ma l’alcool? Per nutrire dei corridori? Vi state prendendo gioco di me, e non crederete che abbocchi alle vostre teorie!” esclamò il dottore.
“Ci stiamo allontanando dal cuore, mi pare,” osservò Mrs. Gough.
“Signori, risaliamo,” replicò con la sua voce bianca, senza apparente impertinenza, André Marcueil.
“Le forze amorose dell’uomo sono indubbiamente infinite,” riprese Mrs. Gough, “ma, come diceva qualche momento fa uno dei signori, si tratta di intendersi; sarebbe perciò interessante sapere a quale punto della… serie indefinita dei numeri il sesso maschile situa l’infinito.”
“Ho letto che Catone il vecchio lo innalzava fino a due,” scherzò Saint-Jurieu, “ma intendeva una volta in Inverno e una in Estate.”
“Aveva sessant’anni, amico mio, non dimenticatelo,” osservò sua moglie.
“È molto,” mormorò soprappensiero il generale, senza che si potesse capire a quale dei due numeri volesse riferirsi.
“Nelle Fatiche di Ercole,” interloquì l’attrice, “il re Lisia propone all’Alcide, per una sola notte, le sue trenta figlie vergini, e canta, sulla melodia di Claude Terrasse:
Trenta, per te cos’è? Appena un gioco,
e mi scuso di offrirti tanto poco!”
“Questo va bene finché lo si canta,” fece Mrs. Gough.
“Dunque non vale la pena…” cominciò Saint-Jurieu.
“… di farlo,” interruppe Marcueil. “E siamo poi certi che la cifra sia soltanto trenta?”
“Se le mie reminiscenze classiche non m’ingannano,” disse il dottore, “gli autori delle Fatiche di Ercole avrebbero umanizzato la mitologia: credo che in Diodoro Siculo si legga: Herculem una nocte quinquaginta virgines mulieres reddidisse.”
“Cioè a dire?” chiese Henriette.
“Cinquanta vergini,” spiegò il senatore.
“Lo stesso Diodoro, mio caro dottore,” disse Marcueil, “parla di un certo Proculo.”
“Sì, l’uomo che si fece affidare cento vergini sarmate e che, per constuprarle, dice il testo, non ebbe bisogno che di quindici giorni.”
“È nel Trattato sulla vanità della scienza, capitolo terzo;” confermò Marcueil, “ma quindici giorni! E perché non tre mesi?”
“Nelle Mille e una notte”citò a sua volta William Elson, “si legge che il terzo saalouk, figlio del re, possedette quaranta volte ciascuna, in quaranta notti, quaranta adolescenti.”
“Sono fantasie orientali,” credette di dover chiarire Arthur Gough.
“Altro articolo orientale che non è un articolo di fede, benché si trovi in un libro sacro,” disse Saint-Jurieu, “Maometto, nel suo Corano, si vanta di riunire nella sua persona il vigore di sessanta uomini.”
“Il che non vuol dire che potesse fare sessanta volte l’amore,” osservò abbastanza spiritosamente la moglie del senatore.
“Nessun altro dichiara di più?” intervenne il generale. “Mi pare che qui stiamo giocando alla maniglia. E questo gioco è ancora meno serio. Io mi astengo.”
Tutti gridarono:
“Oh! Generale!”
“Tuttavia, quando eravate in Africa…?” gli sussurrò insidiosamente sotto la barbetta Henriette Cyne.
“In Africa?” disse il generale.
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