“È diverso. Ma io non mi ci trovai in tempo di guerra. In tempo di guerra, ci può essere stato qualche stupro, una volta o due…”
“Una volta o due? È già una cifra, anzi due; cercate di essere più preciso,” disse Saint-Jurieu.
“Si fa per dire! Non ho finito,” riprese il generale. “Dunque, sono stato in Africa solo in tempo di pace; e qual è il dovere di un soldato francese all’estero in tempo di pace? Comportarsi come un selvaggio, o portare, piuttosto, la civiltà e ciò che essa ha di più seducente, cioè la galanteria francese? Così, quando le moukères di Algeri sanno che stanno per arrivare i nostri ufficiali, cessano di essere delle arabe zotiche e ignare delle buone maniere, ed esclamano: ‘Ah! Ecco i francesi, essi ci…’.”
“Generale! C’è una ragazza!” disse appena in tempo William Elson con qualche severità.
“Ma mi sembra che finora, la nostra conversazione, con tutte queste cifre…”
“Parlate di affari, signori?” chiese con una ingenuità fin troppo meravigliosa la giovane americana.
William Elson fece cenno a Ellen di allontanarsi.
“Signore, avremmo dovuto cominciare col consultare il dottore,” osservò Mrs. Gough, “invece di aver la pazienza di ascoltare tutti questi orribili tecnicismi.”
“A Bicêtre,” esordì Bathybius, “ho osservato un idiota, per di più epilettico, che per tutta la sua vita, che ancora dura, si è abbandonato quasi ininterrottamente ad atti sessuali. Ma… da solo, il che spiega molte cose.”
“Che orrore!” gridarono alcune signore.
“Voglio dire che l’eccitazione cerebrale spiega tutto,” riprese il dottore.
“Allora, sono le donne che ve la fanno passare?” chiese Henriette.
“Vi ho avvertita che si trattava di un idiota, signorina.”
“Ma… avete parlato… delle sue capacità cerebrali! Dunque, non era poi tanto idiota,” disse Henriette.
“Del resto, il centro di questo tipo di emozioni è il midollo, e non il cervello,” si corresse Bathybius.
“Il suo midollo aveva del genio,” considerò Marcueil.
“Ma… visto che non siamo a Bicêtre?” chiese Mrs. Gough.
“Secondo la medicina, le forze umane giungono fino a nove o, al massimo, dodici nelle ventiquattro ore, e solo eccezionalmente,” sentenziò Bathybius.
“All’apostolo dell’illimitatezza delle forze umane il compito di rispondere alla scienza umana,” disse William Elson all’anfitrione non senza amichevole ironia.
“Mi dispiace,” annunciò André Marcueil in un silenzio nel quale convergeva la curiosità, un po’ sarcastica, di tutti i presenti, “mi dispiace di non poter adattare, senza falsarla, la mia opinione al giudizio del mondo e della scienza; gli scienziati, l’avete sentito, fanno come quei selvaggi dell’Africa centrale, che, per esprimere i numeri superiori a cinque, si tratta di sei o di mille, agitano le dita urlando: ‘Molto, molto’; ma io sono convinto che sia, in realtà,
… appena un gioco,
non solo sposare le trenta o cinquanta vergini del re Lisia, ma anche battere il record dell’Indiano ‘tanto celebrato da Teofrasto, Plinio e Ateneo’, il quale, come scrive Rabelais seguendo questi autori, ‘con l’aiuto di una certa erba lo faceva in un sol giorno settanta volte e più’.”
“Se tanto,… una volta e più?” scherzò il generale, che s’intendeva di giochi di parole.
“Septuageno coitu durasse libidinem contacta herbae cujusdam,” citò Bathybius per interromperlo. “Credo che questa sia la frase di Plinio, secondo Teofrasto.”
“L’autore dei Caratteri?” domandò Saint-Jurieu.
“Eh no!” fece il dottore. “L’autore della Storia delle piante e delle Cause delle piante.”
“Teofrasto di Ereso,” precisò Marcueil, “nel ventesimo capitolo del nono libro della Storia delle piante.”
“Con l’aiuto di una certa erba?” meditò ad alta voce il chimico Elson.
“Herbae cujusdam,” pontificò Bathybius, “cujus nomen genusque non posuit. Ma Plinio, libro terzo, capitolo ventottesimo, inferisce che si tratterebbe di scorza di rami di titimallo.”
“Siamo davvero a buon punto!” esclamò Mrs. Gough. “È ancora meno chiaro che scrivere: una certa erba.”
“È più divertente pensare,” disse Marcueil, “che la certa erba sia stata aggiunta da un copista timido, per proteggere la mente dei lettori da uno stupore che giudicava troppo vivo.”
“Con o senza erba… in un giorno? Cioè in un giorno solo, unico, nella vita di un uomo?” interrogò la signora Saint-Jurieu.
“Quel che si fa un giorno, si può, a maggior ragione, farlo tutti i giorni,” disse Marcueil, “… l’abitudine… Ma se quest’uomo era realmente eccezionale, è possibile che sia riuscito a confinarsi nell’effimero… Si può anche supporre che occupasse tutti i giorni il suo tempo in questo modo, e che solo una volta abbia ammesso degli spettatori.”
“Un indiano?” considerava Henriette Cyne. “Un uomo rosso con un tomahawk e degli scalps, come in Fenimore Cooper?”
“No, ragazza mia,” rispose Marcueil, “quel che noi oggi chiameremmo un indù; ma il paese non importa. Sono del vostro parere; la frase di Rabelais suona maestosa: ‘l’Indiano tanto celebrato da Teofrasto’, e sarebbe sconveniente che non si trattasse di un vero indiano, un Delaware o un Huron, per realizzare la vostra immaginaria scenografia.”
“Un indù?” fece il dottore. “Tutto considerato, se l’assurdità non fosse tanto evidente… l’India è il paese degli afrodisiaci.”
“Il capitolo ventesimo del nono libro di Teofrasto di Ereso è, appunto, dedicato agli afrodisiaci,” disse Marcueil; “ma, vi ripeto,” continuò animandosi un poco mentre i suoi occhi scintillavano sotto lo stringinaso, “io sono convinto che né la droga né il paese abbiano importanza, e che anche un bianco potrebbe a maggior ragione… Ma,” aggiunse quasi parlando a parte, “di un uomo di un paese insolito si giudicherebbe la prodezza meno insolita, meno incredibile… visto che pare si tratti di una prodezza…! Comunque, quel che un uomo fa, lo fa anche un altro.”
“Sapete chi è stato il primo ad affermare quel che voi ruminate?” interruppe Mrs. Gough, che aveva fatto qualche lettura.
“Quel che…?”
“Appunto, la vostra frase: ‘quel che un uomo fa…’.”
“Ah! sì! Ma non ci avevo pensato. È scritto… perbacco! Nelle Avventure del barone di Münchhausen.”
“Non conosco questo tedesco,” fece il generale.
“Un colonnello, generale,” suggerì Mrs. Gough, “un colonnello degli ussari rossi… in francese, Monsieur de Crac.”
“Ci sono: storie di caccia,” disse il generale.
“In verità, signore,” disse a Marcueil la signora Saint-Jurieu, “era impossibile insinuare più spiritosamente che il record dell’Indiano non avrebbe potuto essere battuto che da… insomma… quest’altro pellerossa, un ussaro… rosso… dotato di molta immaginazione!”
“È dunque per arrivare a questo,” aggiunse Henriette Cyne, “che ci avete fatto navigare tanto. Avete chiuso le dichiarazioni con molta abilità, presentandoci come…”
“Maggiore offerente, continuate pure,” intervenne Saint-Jurieu.
“… qualcuno a cui le parole non costano nulla.”
“Basta avere la lingua ben sciolta,” disse il generale.
“Come in Africa,” fece Henriette. “… Ho detto una sciocchezza!”
“Signori,” proferì molto cerimoniosamente ad alta voce André Marcueil, “io credo che il Colonnello barone di Münchhausen abbia fatto tutto quello che ha scritto e anche più.”
“Allora non sono ancora finite le dichiarazioni,” si interessò Mrs. Gough.
“Comincia a diventare un po’ noioso,” disse Henriette Cyne.
“Insomma, Marcueil,” esplose Bathybius, “è assurdo che un uomo salti a cavallo uno stagno, come questo mitico barone, faccia dietrofront nel bel mezzo, accorgendosi di non aver preso abbastanza slancio, e riconduca a terra se stesso e il suo cavallo, sollevandosi a forza di braccia per il codino?”
“A quei tempi i militari portavano, secondo l’ordinanza, tutti i capelli nel codino,” interruppe Arthur Gough, con più erudizione che senso dell’opportunità.
“… Ciò è contrario a tutte le leggi fisiche,” concluse Bathybius.
“E non ha nulla di erotico,” osservò distrattamente il senatore.
“Né di impossibile,” rimbeccò Marcueil.
“Il signore si prende gioco di voi,” disse Pusice-Euprépie a suo marito.
“Il barone ha avuto un solo torto,” proseguì André Marcueil, “e fu di raccontare, dopo, le sue avventure. Se, voglio ammetterlo, è piuttosto sorprendente che gli siano capitate…”
“Lo credo bene!” esclamò Henriette Cyne.
“Supponendo, beninteso, che gli siano capitate,” si ostinò posatamente il dottore.
“Se è sorprendente che gli siano capitate,” proferì Marcueil imperturbabile, “lo è molto meno che non vi si sia prestato fede. E, per il barone, è stata una gran fortuna. Si può ben immaginare l’esistenza intollerabile che dovrebbe condurre nella società malevola e invidiosa degli uomini chi nella sua vita avesse posto per tali prodigi. Lo si renderebbe responsabile di tutti i delitti impuniti, proprio come, un tempo, si bruciavano le streghe…”
“Sarebbe adorato come un Dio,” disse Ellen Elson che suo padre aveva richiamato da quando la conversazione, grazie al barone di Münchhausen, era ridiscesa alla portata delle ragazze.
“E di quale libertà non godrebbe,” finì di dire Marcueil, “dal momento che, se anche commettesse dei delitti, l’incredulità generale gli fornirebbe un alibi.”
“Allora, signore,” bisbigliò Mrs. Gough, “come mai, un momento fa, siete stato sul punto di imitare il barone?”
“Io non ho raccontato nulla dopo, cara signora,” rispose Marcueil, “perché non sono, sfortunatamente, di coloro che hanno delle avventure che meritino di essere raccontate…”
“E quando le raccontate, allora?… prima?” s’informò Henriette Cyne.
“Raccontare che cosa? e prima di che?” replicò Marcueil. “Andiamo, ragazzina, lasciamo stare queste ‘storie di caccia’, come ha detto molto bene il nostro vecchio amico generale.”
“Bravo, mio caro! Io non credo che a quel che è credibile,” approvò Sider.
Ellen Elson si era avvicinata ad André Marcueil, più curvo che mai, ancora più invecchiato dalla sua folta barba e con gli occhi ancora più smorzati dietro lo stringinaso. Era, in quei suoi impersonali abiti da sera, più ridicolo e più miserabile di una maschera carnevalesca; vetro, oro e peli nascondevano il suo volto; perfino i denti erano invisibili dietro la boscaglia dei baffi spioventi. La vergine mise il suo sguardo nello sguardo senza pupille dello stringinaso:
“Io credo all’Indiano,” mormorò.
1 La maniglia è un gioco di carte nel quale i giocatori, come avviene nel Bridge, annunciano prima il numero di punti che intendono fare. (N.d.T.)
IL CUORE NÉ A SINISTRA NÉ A DESTRA
Tranne che per nascere, André Marcueil non aveva avuto in principio nessun contatto con la donna: fu allattato da una capra, come un semplice Giove.
Allevato, dopo la morte del padre, dalla madre e da una sorella maggiore, fino all’età di dodici anni aveva vissuto un’infanzia di una purezza meticolosa, ammesso che il cattolicesimo sia nel giusto definendo purezza la negligenza, sotto la minaccia di pene eterne, di alcune parti del corpo.
A dodici anni, vestito ancora di un camiciotto cascante e di brache a sbuffo, con le gambe nude, pervenne alla solennità della sua prima comunione, e un sarto gli prese le misure per il suo primo vestito da uomo.
Il piccolo André non capì troppo bene perché gli uomini, – cioè i bambini che hanno più di dodici anni –, non possano farsi fare i vestiti da una sarta… e non aveva mai veduto il suo sesso.
Non si era mai guardato in uno specchio se non al momento di uscire, completamente vestito.
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