Si giudicò molto brutto sotto i pantaloni neri… eppure i suoi compagni sembravano tanto fieri di inaugurarli!
Anche il sarto, del resto, trovava che il taglio del vestito lasciasse a desiderare. Qualcosa, sotto la cintola, faceva una grossa piega sgraziata. Il sarto bisbigliò qualche parola imbarazzata all’orecchio della madre, che arrossi, e Marcueil senti oscuramente che doveva avere una qualche deformità – altrimenti non avrebbero parlato di lui, in sua presenza, a bassa voce… – che non era fatto come tutti gli altri.
“Essere fatto, da grande, come tutti gli altri” divenne la sua ossessione.
“A destra,” diceva il sarto misteriosamente, come per non spaventare un malato. Senza dubbio intendeva dire: il cuore è a destra.
Eppure, anche in un grande, come può il cuore trovarsi sotto la cintura?
Il sarto restava perplesso, lisciando col pollice, senza cattive intenzioni, il punto insolito.
Nuova prova l’indomani, dopo qualche ritocco, e secondo nuove misure che non davano, però, miglior risultato.
Perché, fra a destra e a sinistra, resta una direzione: all’insù.
André, di cui sua madre, come tutte le madri che nascono, e anche le altre, voleva fare un soldato, giurò a se stesso di non essere mai più in futuro, per i sarti, una causa di rifiuto dell’ordinazione; e calcolò di avere soltanto otto anni per correggere la sua deformità prima di dover subire la vergogna di esibirla davanti al consiglio di leva. Poiché rimase assiduamente casto, non ebbe mai occasione di sentirsi dire se si trattava veramente di una deformità.
E quando giunse finalmente a conoscere e donne – com’è d’obbligo dopo la licenza liceale, e Marcueil si trovava avanti di un anno – le ragazze dovettero immaginare che, come tutti gli uomini, egli non era “uomo” che per qualche secondo, dal momento che era salito da loro solo “per un secondo”.
Per cinque anni la prosa della Chiesa fu il suo fantasma:
Hostemque nostrum comprime…
Per cinque anni mangiò bromuro, ingoiò nenufaro, cercò di stremarsi a furia di esercizi fisici, il che servì solo a farlo diventare più forte, si imbrigliò in cinghie di cuoio e dormì sul ventre, opponendo alla rivolta della Bestia tutto il peso del suo denso corpo di ginnasta.
Più tardi, molto più tardi, riflette che fin allora aveva lavorato soltanto a soffocare una forza che non si sarebbe rivelata se non avesse avuto un suo destino da compiere.
Per reazione, ebbe delle amanti, freneticamente; ma né lui né esse provarono piacere: da parte sua, era un bisogno troppo “naturale”, e, da parte loro, un’ingrata fatica.
Provò, con molto buon senso, dei vizi “contro natura”, appena in tempo per accorgersi, per averne fatto l’esperienza, quale abisso separasse la sua forza da quella degli altri uomini.
Alla morte di sua madre, trovò notizia, fra le carte di famiglia, di uno strano antenato, un po’ suo nonno, benché non avesse certo potuto contribuire alla sua procreazione, un pro-zio per parte di madre, morto troppo precocemente, che gli aveva indubbiamente trasmesso in eredità i “suoi poteri”.
All’atto di decesso era acclusa la nota di un medico – di cui riproduciamo qui sotto lo stile ingenuo e scorretto – e, cucito con uno spesso filo nero, un brandello di lenzuolo inamidato da insolite macchie:
“Auguste-Louis-Samson de Lurance, deceduto il 15 aprile 1849, all’età di mesi 29 e giorni 13, in seguito a vomito verde ininterrotto; avendo conservato fino all’ultimo respiro una fermezza di carattere molto superiore alla sua età, l’immaginazione molto troppo feconda (sic), e, oltre a ciò, il suo organismo troppo precoce in riguardo a certi sviluppi, hanno potentemente contribuito al cordoglio in cui ha gettato per sempre la sua famiglia. Che Dio l’aiuti!
Dott. (illeggibile)
E, ora, un mostro, un “fenomeno umano” braccato da qualche Barnum, non avrebbe messo più accanimento di André Marcueil a confondersi con la folla. La conformità all’ambiente, il “mimetismo”, è una legge della conservazione della vita. È meno sicuro uccidere gli esseri più deboli di noi, che imitarli. Non sono i più forti a sopravvivere, perché sono soli. Quella di modellare la propria anima sulla propria portinaia è una grande scienza.
Ma perché Marcueil provava il bisogno di nascondersi e di tradirsi nello stesso tempo? Di negare la sua forza e di provarla? Per verificare se la sua maschera reggeva bene, senza dubbio…
O forse era la bestia che, a sua insaputa, si faceva strada in lui.
È UNA FEMMINA, MA È MOLTO ROBUSTO
Gli ospiti se ne andavano.
In una duplice marea, le loro figure avvolte in pellicce si sparpagliarono a destra e a sinistra dell’alta gradinata.
Poi, sotto i globi elettrici di cinque antenne di ferro che scandivano il viale, si accesero altre luci, si udì lo scroscio degli zoccoli dei cavalli, il ronzio di qualche automobile.
William Elson e sua figlia, insieme ai Gough, si allontanavano su un ordigno fantastico, scarlatto e sbuffante, che sparì in pochi agili guizzi.
Le vetture si scaglionarono, e, davanti al castello, non vi fu ben presto altro rumore che il mormorio dell’acqua nei fossati.
Lurance, eredità materna di André Marcueil, era stato costruito sotto Luigi XIII; ma sembrava la cosa più naturale del mondo che i suoi immensi lampadari di metallo battuto fossero completati da lampade ad arco, e che la forza delle acque vive mettesse in movimento i macchinari che fornivano l’elettricità. Pareva, allo stesso modo, che la raggiera dei viali che sovrastavano a perdita d’occhio tutti gli orizzonti, non fosse stata tracciata per servire all’arrampicarsi delle carrozze, ma che l’architetto, per qualche oscura e geniale preveggenza, l’avesse destinata, con trecento anni di anticipo, ai veicoli moderni. Non ci sarebbe, infatti, ragione perché gli uomini lavorassero a rendere durevole la loro opera, se non supponessero confusamente che essa ha bisogno di un sovrappiù di bellezza che essi sono incapaci di darle oggi, ma che il futuro le riserva. Le cose non si fanno grandi, si lascia che lo diventino.
Lurance dista pochi chilometri da Parigi, in direzione Sud ovest, e Marcueil, secondo ogni evidenza innervosito dalla conversazione della serata, fece passare il suo desiderio di distrarsi per una cortesia verso i suoi ospiti: ricondusse lui stesso a Parigi il dottore e il generale.
Per riguardo a quest’ultimo, avversario dei moderni mezzi di locomozione, e dal momento che, vicino a Lurance, non c’erano stazioni, aveva fatto preparare un coupé.
L’aria era secca, fredda e chiara. La strada suonava come cartone.
In meno di un’ora raggiunsero l’Etoile, e, visto che non era tardi – appena le due del mattino – entrarono in un bar inglese.
“Buongiorno, Marc-Antony,” fece Bathybius al barman.
“Siete un habitué,” osservò il generale.
“Questo ragazzone ha davvero il godimento legittimo di un nome così shakespearianamente romano?” si informò Marcueil.
“Mi hanno raccontato che egli deve questo nomignolo storico-drammatico alla straordinaria solennità con cui arringa i clienti, paragonabile soltanto a quella del Marco Antonio di Shakespeare mentre pronuncia il suo celebre discorso sulla tomba di Cesare. E i suoi clienti, jockeys, allenatori, palafrenieri, boxeurs, tutti molto amanti delle risse, hanno spesso bisogno di essere arringati.”
“Spero che avremo modo di constatarlo tra poco, sarebbe una distrazione,” disse Marcueil.
Portarono da bere. Il generale bevve una stout, il dottore una pale-ale, e Marcueil, che, decisamente, tranne quando si divertiva a enunciare qualche paradossale teorema, praticava il neutro, chiese un miscuglio in parti uguali delle due birre, lo half-and-half.
Ad onta delle previsioni del dottore, il bar era tranquillo, con appena quel tanto di brusio sufficiente a isolare la loro conversazione.
Il dottore non poté impedirsi di tornare sulla conversazione tenuta a Lurance, per prendersi discretamente gioco di Marcueil. In fondo, era un po’ irritato che il suo amico, sia pure per scherzo, non avesse lasciato l’ultima parola alla sua autorità di celebre scienziato.
“Ora che siamo tra uomini,” disse, “una piccola osservazione per finirla con le vostre mitologie: questi Proculi, Ercoli e altri eroi favolosi, non trovavano ancora abbastanza onorevoli le loro prodezze numeriche (non meno favolose, del resto, dei loro autori). Era ‘un gioco’, come voi dite; e per questo volevano renderselo ancora più difficile. Delle vergini! Molte vergini! Ma è una verità medica…”
“E sperimentale, perché capisco quel che volete dire,” interruppe il generale.
“… È una verità medica che il coito di una vergine è abbastanza difficile e doloroso da togliere all’uomo la voglia e la possibilità di ripeterlo tanto spesso.”
“Il nostro casto amico non ci aveva pensato,” disse il generale.
“La risposta è semplice,” replicò Marcueil. “Tanto per prendere un esempio storico – o mitologico, se preferite chiamarlo così – bisogna evidentemente ammettere che Ercole, in ogni parte del suo corpo, fosse superiore agli altri uomini per… come dire? statura, corpulenza…”
“Calibro,” suggerì il generale. “Non ci sono signore, e poi è un termine di arsenale.”
“I ginecologi conoscono una misura semivergine,” continuò Marcueil, “ammettiamo che esista, sia pure meno comunemente, una misura… semidio: resta accertato che per… certi uomini, tutte le donne sono vergini,… un po’ più, un po’ meno…”
“Che la conclusione non vada al di là delle premesse, per favore!” protestò il dottore. “Non dite: certi uomini; Ercole soltanto, se volete…”
“E non è più qui per provarlo,” credette di dover aggiungere sottilmente il generale.
“Non è più… qui, in realtà… l’avevo dimenticato,” disse Marcueil con uno strano tono; “prendiamo, allora, un altro esempio: supponete che una donna subisca un certo numero di assalti sessuali, venticinque… tanto per fissare le idee, come dicono i professori…”
“In una fiaba è detto: ‘Ancora una stella nel mio piatto!’” grugnì il dottore semi-stizzito. “Basta con i paradossi, mio caro, rinunciateci… se volete che si discuta scientificamente… qualunque sia l’argomento.”
“Venticinque uomini differenti, per farvi piacere, dottore!”
“È più naturale,” commentò il generale.
“Dite pure più scientifico,” corresse, con inattesa dolcezza, Bathybius.
“Che succederà dal punto di vista fisiologico? I tessuti eccitati si contrarranno…”
Il dottore scoppiò a ridere:
“Ah! No! Questa è bella… si allenteranno invece, e anche per meno.”
“Dove avete trovato questa stupidaggine?” disse il generale. “È un altro esempio storico?”
“Ancora una volta è molto semplice:” riprese Marcueil, “la donna nota nella storia per aver prosciugato in un giorno più di venticinque amanti è…”
“Messalina!” esclamarono i suoi due interlocutori.
“L’avete detto. Ora, c’è un verso di Giovenale che nessuno ha mai saputo tradurre; e se qualcuno ne ha capito il vero senso, non ha potuto pubblicarlo, perché i lettori l’avrebbero giudicato assurdo. Ecco il verso:
… Tamen ultima cellam
clausit, adhuc ardens RIGIDAE tentigine vulvae.”
“E il verso seguente,” continuò il dottore, “dice:
et lassata viris nec dum satiata recessit.”
“Lo sappiamo;” rispose Marcueil, “ma la critica moderna ha provato che questo verso, come tutti i versi celebri, è stato interpolato. I versi celebri sono come i proverbi…”
“La saggezza delle nazioni…” interloquì il generale.
“Avete indovinato con molta perspicacia, generale. E sarete d’accordo con me che le nazioni sono dovute all’unione di un gran numero di primi venuti…”
“Ah! Questa poi!” cominciò il generale.
“State a sentire, generale,” interruppe Bathybius, “la cosa diventa interessante. Dicevate, Marcueil?”
“Che Messalina, uscendo dalle braccia di venticinque amanti, e, forse, di molti di più, è – traduco alla lettera –: ancora ardente (cioè, mantenuta ancora ardente) dalla… Le parole francesi sarebbero un po’ volgari, anche se siamo fra uomini, e il resto del latino non ha bisogno di traduzione.”
“Sì, capisco l’ultima parola del verso,” fece il generale, versandosi dell’altra stout.
“Non è quella che è importante,” disse Marcueil, “ma il suo qualificativo: RIGIDAE.”
“Non vedo come potrei rifiutare la vostra interpretazione;” disse Bathybius; “ma… Messalina era una ninfomane, ecco tutto.
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