Questo esempio… di isteria non prova perciò nulla.”

“Di vere donne non ci sono che le Messaline,” mormorò Marcueil senza farsi sentire.

“Dottore,” riprese subito dopo, “gli organi dei due sessi sono composti dagli stessi elementi differenziati in qualche particolare?”

“Sensibilmente differenziati,” precisò il dottore. “Dove volete arrivare?”

“Alla logica conclusione,” disse Marcueil, “che non c’è ragione perché non si producano anche nell’uomo, a partire da una certa cifra, gli stessi fenomeni fisiologici che si producono in una Messalina.”

“Cioè, una rigidi tentigo veretri? Ma è assurdo, follemente assurdo!” esclamò il dottore. “È proprio l’assenza di questo fenomeno indispensabile che si opporrà sempre a che l’uomo superi numericamente i limiti di quelle che restano pur sempre le forze umane!”

“Chiedo scusa, dottore, ma dal mio… ragionamento consegue che questa manifestazione diventa permanente e tanto più esasperata a misura che ci si allontana dalle forze umane, dopo averne varcato il limite verso l’infinito numerico; e che, per conseguenza, ci sia interesse a varcare questo limite nel più breve tempo possibile, o, se si vuole, immaginabile.”

Bathybius non lo degnò di una risposta. Quanto al generale, si era disinteressato della conversazione.

“Altro argomento, dottore,” s’intestardì Marcueil. “Non pensate che un uomo che, su un milione di occasioni, ne colga una sola, sia un uomo moderato? E, in materia di sesso, un uomo continente?”

Il dottore gli lanciò un’occhiata.

“Ebbene, dottore, non sarò io a insegnarvi che il numero di occasioni offerto dalla natura all’atto della riproduzione, cioè il numero di ovuli, è, in ogni donna, di…”

“Sì, diciotto milioni,” ammise seccamente Bathybius.

“Diciotto volte al giorno: questo numero non ha dunque nulla di sovrannaturale! Una volta su un milione! Ed io suppongo un uomo sano; ma voi avrete certo osservato dei casi patologici?”

“Senza dubbio,” disse burberamente Bathybius, “priapismo, satiriasi, ma non si può giudicare dai malati.”

“E l’influenza degli eccitanti?”

“Se prescindiamo dalle malattie, prescindiamo anche dagli afrodisiaci.”

“Gli alimenti di riserva, allora, come l’alcool? Perché non potete negare che si tratti di un superalimento, qualcosa come la carne di bue, le uova alla coque e il gruviera?”

“Ne avete in serbo, di definizioni!” replicò Bathybius, divenuto improvvisamente allegro. “Mi pare di sentire il nostro amico Elson. Decisamente, mi rendo conto che non avete parlato sul serio un solo istante. Meglio così. E poi l’alcool sclerotizza i tessuti.

“Cosa?” fece il generale.

“Li indurisce,” spiegò il dottore. “Le arterie degli alcoolizzati si sclerotizzano, e ciò causa una senilità precoce.”

“Ebbene,” disse Marcueil, “… non sobbalzate, dottore: quel… fenomeno indispensabile, di cui avete parlato, non sarebbe una forma di sclerosi?”

“È ben trovato,” rispose Bathybius, “ma è puerile. Dal punto di vista istologico, è un’idiozia. L’esperienza dimostra che nessuno è meno virile di un alcoolizzato. Comodo, l’alcool, per conservare i bambini; ma non per farli, che io sappia!”

“E una bevanda alcoolica?” chiese Marcueil.

“L’effetto non dura, perché il pericolo dell’alcool è appunto che la reazione che esso produce, supera l’eccitazione.”

“Siete uno scienziato, dottore, un grande scienziato, il più grande del vostro tempo, il che, ahimè! implica che voi appartenete al vostro tempo. Voi siete un maestro illustre, dottore; ma sapete che cosa afferma la nostra nuova generazione, oggi che la sua scienza è di una frazione di secolo più vecchia della vostra? La reazione depressiva dell’alcool, in certi temperamenti, precede l’eccitazione.”

“Non è possibile che preceda,” disse il dottore, “deve seguire un’eccitazione anteriore.”

“Volete, allora, dire, e ne sono lusingato, che io e altri come me, siamo il risultato di generazioni sovreccitate dal sangue delle carni e dalla forza dei vini… l’esplosione di una compressione! La moda delle definizioni cambia. Un po’ più vicino all’età della pietra, nel diciannovesimo secolo, per esempio, questo è quel che si sarebbe chiamato ‘essere di razza’! Dottore, è tempo che i borghesi – chiamo con questo nome tutti i figli dell’acqua torbida e del pane nero – comincino a bere alcool, se vogliono che la loro posterità ci valga!”

“Dite male dell’acqua?” si stupì il dottore.

“Non allarmatevi, mio caro Sangrado: questo liquido non ha un gusto particolarmente nauseabondo, almeno a metterci dentro i piedi e per lavarsi! Riservarlo per questi usi, significa fargli un posto tutt’altro che disonorevole! Che ne direste, dunque, di aumentare metodicamente, in progressione geometrica, supponiamo, il regime di un alcoolizzato?” continuò Marcueil, che sembrava divertirsi moltissimo a esasperare il dottore. “Che ne direste di alcoolizzare un alcoolizzato?”

“Voi vi prendete gioco di me,” mormorò a denti stretti Bathybius, con le stesse parole che aveva già rivolto a William Elson.

“Io non attribuisco nessuna particolare importanza all’alcool, non più che a qualsiasi altro eccitante,” si scusò Marcueil, “ma credo che sia logico supporre che un uomo che facesse illimitatamente l’amore, non avrebbe alcuna difficoltà a fare illimitatamente qualsiasi altra cosa: bere alcool, digerire, spendere energia muscolare, etc. Qualunque sia la natura dei suoi atti, il primo è uguale all’ultimo, come in una strada, se l’Amministrazione della Viabilità non si è sbagliata, l’ultimo chilometro è uguale al primo.”

“La scienza ha delle idee diverse in proposito,” disse il dottore che cominciava ad arrabbiarsi. “Fuori del regno dell’impossibile, che gli scienziati non si sognano di ammettere, visto che là non ci sono cattedre, le energie non si sviluppano – e, anche così, non senza limite – che se sono specializzate: un lottatore non è uno stallone né un pensatore; l’Ercole universale non è esistito e non esisterà mai; e, quanto ai benefici dell’alcoolismo, i tori bevono solo acqua!”

“Dite un po’, dottore,” chiese Marcueil con tutta l’innocenza di cui era capace, “avete mai provato a fargli bere dell’alcool?”

Ma Bathybius non lo ascoltava più: se n’era andato, sbattendo con fracasso la porta del bar. Abitava, comunque, a due passi.

Allora avvenne qualcosa:

Marc-Antony trasalì, si stirò come un leone che sta per spiccare un salto, si drizzò con sapiente gradazione sopra il banco, distese le braccia, tossì, e disse placidamente:

“Order, please!”

Non aggiunse altro, e si rimise a sedere.

Il generale, messo in imbarazzo dalla sfuriata del dottore, cercò di far cambiare il corso dei pensieri di Marcueil.

“Magnifica serata da voi, poco fa,” disse. “C’era molta gente.”

André sussultò, con una veemenza che non era certo giustificata dall’originalità dell’osservazione.

“A proposito, generale, è a voi che debbo l’onore di aver conosciuto William Elson. È uno scienziato di grande valore.”

“Puah!” fece il generale, nella lodevole intenzione, incoraggiata dalla stout, di fare il modesto, come se il complimento fosse diretto a lui, “un chimico da nulla, non ne parliamo neppure, mio caro; detto fra noi, che cos’è la chimica, mio giovane amico? È come una fotografia di cui non si possa mai fissare una stampa definitiva.”

“E…” disse ancora André, esitante, “… quella ragazza, la signorina Elson?”

“Puah! “esclamò il generale, ormai lanciato a un galoppo da traversare l’Africa nell’arte di declinare gli elogi, “puah! un soldo di donna…”

Non si rese conto nemmeno lui di quale sarebbe stata la fine della frase, ma la si poteva supporre peggiorativa.

André Marcueil scattò in piedi, scuotendo il tavolo e rovesciando i boccali di stagno; il suo volto, animato da una collera improvvisa, s’inchinò verso il generale, e lo stringinaso schizzò come se il suo sguardo avesse avuto il potere di scaraventarlo in faccia al suo interlocutore.

Il generale era sbalordito, e lo fu ancora di più quando udì sibilare questa minaccia barocca:

“Generale, vi credevo provvisto di qualche… galanteria francese! Dovrei spaccarvi in due, ma non ne vale la pena, non siete abbastanza forte!”

“Order, please! Order!” tuonò nello stesso istante la voce di Mr. Marc-Antony, coprendo quella di Marcueil.

Il generale pensò di aver inteso male; innanzi tutto, perché non capiva che motivo potesse mai avere Marcueil di infuriarsi, e, in secondo luogo, perché lo vide rovesciare i boccali. Per la tranquillità del suo cervello, preferì interpretare:

“Questa stout non è abbastanza forte.”

“Barman!” chiamò.

E a Marcueil:

“Che cosa prendete?”

Ma Marcueil pagò, impugnò il generale per un braccio e lo trascinò a grandi passi prima fuori dal bar, e poi, ingiungendo con un cenno al suo coupé di aspettarli sul posto, in direzione del Bois de Boulogne.

“Ma questa non è la strada per tornare a casa mia,” protestò il generale, “io abito a Saint-Sulpice!”

“Senza dubbio è ubriaco,” rimuginò, “benché né lui né io abbiamo bevuto. Olà, vecchio mio – mio giovane amico, voglio dire – stiamo sbagliando strada! Se non vi sentite bene in sesto – capisco queste cose, sono stato giovane anch’io – volete che vi riporti alla carrozza?”

“Non siete abbastanza forte,” rispose tranquillamente André Marcueil.

“Eh? Questa poi!” rispose l’altro, scuotendo il braccio di Marcueil, che indietreggiò.

“Dov’è andato a finire?” cercò il generale. “Parla di Ercole e si lascia demolire dalla stretta di mano di un vegliardo. Ma dove siete, mio giovane amico? La notte è davvero così nera, o siete diventato negro?”

Canterellò:

Un negro forte come un Ercole

fu assalito da un soldato…

“Siamo arrivati,” disse Marcueil.

“Dove?” s’informò Sider esterrefatto. “A casa vostra? A casa mia?”

Una forma bianca si scompigliò accanto a loro, come s’illumina il globo lattescente di un lumino da notte. Due note, come di violoncello, ulularono. Più lontano, si sentirono correre artigli e un mugolio si trascinò per l’aria.

“Gli sciacalli?”

Subito dopo, con quella capacità di non trasecolare che hanno le anime pure, il generale scoppiò a ridere:

“Quando e come siamo entrati? Di notte è chiuso! Ah! Ci sono! Ma bisognava dirlo, mio giovane amico, che avevate una residenza nel Giardino Zoologico, a meno che non sia quella della vostra amante! Non c’è niente di straordinario, siete così eccentrico! Avrei dovuto aspettarmelo.”

Un’ara gridò, rauca, le due sillabe del suo nome; i cani selvaggi ringhiarono dietro le sbarre e la strige delle nevi, nella sua gabbia angusta, fissò i due uomini col suo sguardo fulvo.

“Non abito qui e non ho amanti; ma qui abita qualcosa che è abbastanza forte perché io possa divertirmici,” disse lentamente Marcueil.

Camminavano lungo le gabbie; al di qua delle sbarre, delle grandi forme nere balzarono in avanti, seguendoli, e, man mano che la passeggiata continuava, altre forme sorgevano.

“Questa poi! È proprio ubriaco,” disse il generale. “Bel posto per venire a fare il pedante!”

Nella sua casa l’elefante barrì e i vetri tremarono.

“Vuole fare a pugni coi canguri? Ma queste cose si facevano al circo trent’anni fa, e si è visto troppe volte! Su, andiamocene, vecchio mio, mi pare che basti aver scalato la cancellata; avremo delle noie con le guardie del Bois: e so io che cos’è la disciplina!”

Alla loro destra s’innalzava l’Acquario, azzurrino.