Marcueil svoltò a sinistra, e il generale tirò un respiro, perché in quel punto cessavano le gabbie degli animali, e non doveva più temere qualche follia da ubriaco da parte del suo compagno.

“Guardate, ora ucciderò la bestia,” disse Marcueil, calmissimo.

“Che bestia? Sei sbronzo, vecchio mio… giovane amico,” si corresse il generale.

“La bestia,” disse Marcueil.

Di fronte a loro, massiccio sotto la luna, stava accovacciato un ordigno di ferro, con delle specie di gomiti sulle ginocchia, e delle spalle prive di testa, come una corazza.

“Il dinamometro!” esclamò, ilare, il generale.

“Lo ucciderò,” ripeté con ostinazione Marcueil.

“Mio giovane amico,” disse il generale, “quando avevo la vostra età, e anche meno, ed ero studente di matematica al liceo Stanislas, mi è capitato di staccare insegne, svitare vespasiani, rubare bottiglie di latte e chiudere ubriachi nei portoni, ma non ho mai svaligiato un distributore automatico! Non c’è che dire, tu prendi questo per un distributore automatico! Certo, è sbronzo… ma fa’ attenzione, là dentro non c’è niente per te, giovane amico!”

“È pieno, pieno di forza, pieno, pieno di numero, là dentro,” diceva a se stesso Marcueil.

“E va bene,” acconsentì il generale, “voglio aiutarti a romperlo, ma come? A calci? A pugni? Non vorrai che ti presti la mia sciabola? Per spezzarla in due!”

“Romperlo? Oh, no!” disse Marcueil. “Io voglio ucciderlo.”

“Sta’ attento alla contravvenzione, allora, per effrazione di monumento di pubblica utilità!”

“Uccidere… ma con licenza,” disse Marcueil. E frugò nella tasca del gilet, cavandone fuori una moneta da dieci centesimi, francese.

La fessura verticale del dinamometro scintillava.

“È una femmina,” sentenziò gravemente Marcueil. “Ma è molto robusto.”

La moneta fece scattare una molla: fu come se la grossa macchina si mettesse sornionamente in guardia.

André Marcueil afferrò quella specie di poltrona di ferro per i due braccioli, e, senza sforzo apparente, tirò.

“Venite, signora,” disse.

La sua frase terminò in un formidabile fracasso di ferraglia; le molle spezzate si torcevano a terra come le viscere di una bestia; il quadrante fece una smorfia e la lancetta ruotò due o tre volte, impazzita, come una creatura braccata in cerca di scampo.

“Filiamo,” disse il generale, “quest’animale, per sbalordirmi, ha scelto uno strumento che non era solido.”

Erano tutti e due lucidissimi, ora, benché Marcueil non avesse pensato a gettare le maniglie della macchina, che gli brillavano sulle dita come due cesti da gladiatore; scavalcarono nuovamente la cancellata e risalirono il viale in direzione del coupé.

Sorgeva l’alba, come la luce di un altro mondo.

UN SOLDO DI DONNA

La donna che entra ha lo stesso fru-fru della donna che si spoglia. La mattina del giorno successivo, Miss Elson entrava in casa di Marcueil.

Questi aveva appena finito di fare la sua prima colazione, senza testimoni, perché seguiva uno speciale regime di carne cruda di montone, come un malato di petto senza più speranza o un selvaggio in perfetta salute. Era passato, subito dopo, alle sue complicate abluzioni, del genere che avrebbe praticato un seguace fanaticamente credulo delle teorie dell’abbate Kreipp… o una prostituta di professione. Era ancora avvolto in panni umidi, con indosso una specie di saio da monaco di lana grossa, camuffamento igienico che porta il nome di “mantello spagnolo”.

In quel momento apparve Ellen.

Un suono di bordone di crescente acutezza aveva annunciato il suo arrivo. Si sarebbe detto trattarsi della sirena di uno steamer, e, finché durò, Marcueil si sentì nell’orecchio questa parola: sirena.

Una mostruosa automobile – un prototipo da corsa appena inventato da Arthur Gough e mosso da miscele detonanti il cui segreto apparteneva a William Elson – lo stesso veicolo sul quale Elson e sua figlia erano partiti la sera prima, era piombata a velocità di ippogrifo ai piedi della scalinata.

Sirena: era stato il ronzio del motore che scuoteva le vetrate di Lurance a suggerire a Marcueil questo nome. La maschera da automobilista di Ellen, in peluche rosa, le disegnava una testa d’uccello, e Marcueil ricordò che le vere sirene della leggenda non erano affatto mostri marini, ma soprannaturali uccelli di mare.

Ellen si tolse la maschera, col gesto che avrebbe fatto un uomo per salutare.

Era una donna piccola – un soldo di donna, come aveva detto il generale – bruna e pallida, tranne un po’ di rosa sulle guance, con un viso rotondo, un naso leggermente all’insù, labbra sottili, ciglia immense e sopracciglia quasi inesistenti, tanto che, se si metteva di profilo, le lunghe ciglia nere parevano staccarsi dalle palpebre, e si poteva credere, dal momento che i suoi capelli erano nascosti sotto la cuffia di cuoio fulvo, che fosse bionda.

Dopo qualche frase banale:

“Non si può dire che la mia visita sia molto formale,” disse Ellen.

La tenuta di Marcueil, sempre stretto nel suo mantello spagnolo, rispondeva eloquentemente che, da parte sua, le cose non andavano molto meglio.

Ma, per stravagante e ridicola che fosse la sua tenuta, il cenobita più pudico non vi avrebbe trovato nulla da ridire. Il manto di bigello l’inguainava dalla nuca alle caviglie. Ellen, senza affettazione, abbassò lo sguardo sui suoi piedi, nudi negli zoccoli di legno: erano ineffabilmente piccoli, come i vasi antichi raffigurano quelli dei fauni; e non poté vederne che il rigonfiamento del tallone e dell’alluce: l’arco della pianta si perdeva sotto la veste come l’impennarsi di una volta lillipuziana.

Ellen bisbigliò, come una parola d’ordine che solo lei e Marcueil potevano capire: “L’Indiano tanto celebrato da Teofrasto…” Marcueil, che non portava lo stringinaso, abbassò subito gli occhi, come per dissimulare i suoi pensieri – o qualsiasi altra cosa interiore – alla ragazza.

Ellen continuò con tranquillità un dialogo che non era ancora incominciato.

“Indovinate perché credo all’indiano? Perché nessuno ci crederà… fortunatamente! In pubblico, del resto, non ci crederò nemmeno io… Non stupitevi se, quando ci incontreremo in qualche salotto, io mi prenderò gioco più ferocemente di ogni altra donna dell’Uomo la cui forza non conosce limiti…”

“Quanti amanti avete avuto? “chiese Marcueil con gelida semplicità.

Senza rispondere alla sua domanda, Ellen disse:

“Vi piacciono le cifre? E sia: c’è una probabilità su mille che ‘l’Indiano’ esista, e, per questa probabilità, valeva la pena che io venissi. Ci sono mille probabilità contro una – e questo interessa la mia rispettabilità – che nessuno creda all’Indiano. Dunque, tirando le somme, ci sono mille buone ragioni più una, per la mia visita.”

“Quanti erano? “ripeté un po’ insolentemente Marcueil.

“Ma… non erano, caro signore,” rispose dignitosamente Ellen.

“Mentire è classicamente femminile, ma vago,” continuò Marcueil.

“Non contavano né per la gente, che non ne ha saputo niente, né per me, che sognavo di più! L’Amante assoluto deve esistere, visto che la donna lo concepisce, come, se c’è una prova dell’immortalità dell’anima, è che l’essere umano, per paura del nulla, aspira ad essa!”

“Ahi!” fece in disparte Marcueil, che non amava la scolastica, né alcuna altra specie di filosofia o letteratura, forse perché le possedeva troppo tutte; poi, ad alta voce, per non essere da meno quanto a pedanteria, citò:

“Ipsissima verba sancti Thomas”.

“Dunque,” proseguì con molta naturalezza Ellen, “io ci credo perché nessuno ci crederà… perché è assurdo… proprio come credo in Dio! Innanzi tutto perché, se anche altri ci credessero, non l’avrei più per me sola, sarei ingannata e gelosa, e poi perché mi piace restar vergine, nel solo modo che non sia incompatibile con la voluttà e sia ammesso dalla gente: si è vergini quando si riuniscono queste due condizioni: non essere sposata… e che l’amante sia sconosciuto… o impossibile!”

“L’Indiano per amante, voi dite,” ripeté Marcueil. “E dico: voi non per eccesso di rispetto, ma perché suppongo che siate in molte?” E la sua voce mutò e si fece paternamente dolce, come se consolasse un bambino a cui fosse stato tolto un giocattolo che sarebbe stato imprudente lasciargli.

“L’Indiano, è curiosità o letteratura, e non è una cosa divertente! Ha bisogno di tante piccole attenzioni! A partire da… UNDICI, per esempio, per non parlare che dei rudimenti e visto che non si possono evitare le cifre… poco prima di prendere congedo dalle forze umane, il piacere dev’essere press’a poco quello che possono provare i denti di una sega morsi da una lima! Bisogna ricorrere a medicazioni e a linimenti…”

“A partire da undici,” considerò Ellen. “E poi?”

“Poi, in qualche punto lontano nella serie dei numeri, c’è il momento in cui la donna gira urlando su se stessa e corre per la stanza come – l’espressione popolare è perfetta – come un topo avvelenato! C’è… ma è inutile, forse l’Indiano non esiste! È più semplice.”

Quando un uomo e una donna conversano tanto a lungo e con tanta calma, vuoi dire che uno dei due spera che non sia lontano il momento in cui cadranno l’uno nelle braccia dell’altro.

“Sei senza cuore!” gridò Ellen.

“Sono… senza cuore, signora, e sia!” rispose Marcueil. “Vuol dire che lo sostituisco certamente con qualche altra cosa… visto che siete venuta.”

Si morse le labbra e spalancò la finestra.

Il loro colloquio cessava di essere intimo, a portata com’era, attraverso l’ampio varco, dei camerieri che si affaccendavano in cortile. Ellen prese la mano di Marcueil.

“Siete chiromante?” s’informò questi con sarcasmo, come se non comprendesse quel gesto banale.

“No, ma ti leggo negli occhi, nei tuoi occhi che oggi vedo a nudo, che, se si deve credere alla metempsicosi, tu sei stato, in qualche epoca remota, una vecchissima cortigiana…”

“Tutte le cortigiane sono regine,” rispose Marcueil, tanto per dire una sciocchezza, sfiorando, con impassibile galanteria, il guanto di Ellen con le sue labbra baffute.

Il guanto, come un curioso animale eccitato o irritato, si raggrinzì. Marcueil non si sarebbe stupito di sentirlo ringhiare. Ai piedi della scalinata, con un gesto febbrile, Ellen spezzò lo stelo di una rosa rossa.

Marcueil, sempre grave, interpretò:

“Vi piacciono i fiori?”

Fingeva di pensare a un capriccio e si scusava di non averlo prevenuto. Le rose di Lurance l’avrebbero giustificato: la loro rinomanza era universale e molte di esse erano varietà uniche al mondo. Marcueil aprì il suo coltello da tasca e si avvicinò all’aiuola.

Miss Elson lo ringraziò con un cenno del capo.

“Inutile. Parto domani. Mi piacerebbe che il loro profumo e i loro colori rallegrassero la monotonia del lungo percorso nei vagoni fumosi, ma esse appassirebbero.”

Marcueil fece sparire il suo temperino con una sollecitudine che sorprese Ellen.

“Dimenticavo: la grande corsa… Sì… Non bisogna che appassiscano…”

Ellen, per non dover ammettere che trovava i modi di Marcueil un po’ troppo brutali, si sedette bruscamente al volante della sua automobile, che cominciò a sbuffare.

Senza abbellimenti né concessioni alla comodità, rudimentalmente verniciata di minio, la macchina esibiva senza pudore, si sarebbe anzi detto con orgoglio, i suoi organi di propulsione. Sembrava un dio lascivo e favoloso occupato a rapire la ragazza. Ma questa, per mezzo di una specie di corona, poteva dirigere a suo piacimento, a destra e a sinistra, la docile testa del mostro… I draghi delle leggende portano sempre una corona.

La belva metallica, come un immane scarabeo, provò le sue elitre, raspò, trepidò, masticò con le sue antenne e partì.

Ellen, col suo vestito verde-pallido, pareva una minuscola alga incrostata di traverso su un gigantesco tronco corallino trascinato dalla corrente…

Marcueil, assorto, ascoltava spegnersi nella distanza il sibilo dei motori; e ne percepiva ancora la memoria in fondo alle sue orecchie, quando il suono reale era ormai svanito da un pezzo.

“Non bisogna che appassiscano,” meditava.

Finalmente, come destandosi, chiamò il giardiniere e gli ordinò di tagliare tutte le rose.

LA CORSA DELLE DIECIMILA MIGLIA

William Elson aveva passato i quarant’anni quando sua figlia Ellen venne alla luce. In quel settembre del 1920, era ormai più che sessuagenario, ma la snellezza della sua alta figura, il vigore della sua tempra, e la lucidità della sua mente smentivano le date e il candore della sua barba.

Divenuto famoso per le sue scoperte nel campo della tossicologia, era stato nominato presidente di tutte le nuove leghe di temperanza degli Stati Uniti dal giorno in cui, per uno scontato rovesciamento della moda scientifica, i medici proclamarono che la sola bevanda igienica era l’alcool puro.

È a William Elson che si deve la filantropica invenzione di denaturare l’acqua delle condutture cittadine in modo da renderla imbevibile, lasciandola però adatta agli usi di toeletta.

Al suo arrivo in Francia, le sue teorie furono discusse da qualche medico attaccato alle vecchie dottrine. L’avversario più accanito era il dottor Bathybius.

Durante una cena al ristorante in compagnia di Elson, egli dichiarò che era certo di riconoscere in lui il tremito di mano degli alcoolizzati.

Per tutta risposta, il vecchio Elson estrasse di tasca un revolver e mirò al pulsante del campanello elettrico.

“Semplice colpo d’occhio, potreste obiettare,” disse al dottore. “Vogliate dunque reggermi questo menu davanti agli occhi.”

La sua mano non s’era mossa da quando lo schermo era stato interposto. Il colpo partì.

L’arma era caricata a pallottole dum-dum. Del campanello non rimase nulla, ancora meno del tramezzo e appena qualche urlo strozzato del pacifico cliente che era all’antipasto nella saletta contigua.