Ma, per un istante, il pulsante, percosso nel centro, aveva trasmesso la corrente alla suoneria.
Si affacciò il cameriere.
“Un’altra bottiglia d’alcool!” ordinò Elson.
Questo era l’uomo i cui esperimenti avevano portato alla scoperta del Perpetual-Motion-Food.
Che William Elson, dopo aver finalmente messo a punto la sua invenzione, avesse deciso, d’accordo con Arthur Gough, di “lanciare” il suo prodotto con una grande gara fra una squadra di ciclisti, che ne sarebbero stati esclusivamente alimentati, e un treno espresso, non è un avvenimento senza precedenti. Diverse volte in America, fin dagli ultimi anni del diciannovesimo secolo, delle quintuplette e delle sestuplette hanno battuto dei rapidi su un percorso di una o due miglia; ma quel che era assolutamente inedito, era di affermare la superiorità del motore umano sui motori meccanici per le grandi distanze. La fiducia nella sua invenzione che il successo doveva in seguito ispirargli finì con avvicinare William Elson alle idee di André Marcueil a proposito dell’illimitatezza delle forze umane. Ma, da uomo pratico qual era, non volle giudicarle illimitate che grazie alla cooperazione del Perpetual-Motion-Food. Quanto a sapere se André Marcueil abbia o no preso parte alla corsa, benché Miss Elson fosse persuasa di averlo riconosciuto, preferiamo che sia il lettore stesso a giudicare. Per maggiore esattezza, noi ci serviremo del resoconto che della corsa, detta del Perpetual-Motion-Food e delle “Diecimila miglia”, fece uno dei componenti della quintupletta, Ted Oxborrow, nel testo pubblicato dal New York Herald.
Accucciati orizzontalmente sulla quintupletta – un normale modello da corsa 1920, senza manubrio e con pneumatici di 15 millimetri, sviluppo 57 metri e 34, – con la faccia più in basso del sellino e imbacuccati in maschere destinate a proteggerci dal vento e dalla polvere; le cinque paia di gambe collegate, a destra e a sinistra, da stantuffi di alluminio: ci mettemmo in movimento sull’interminabile pista disposta parallelamente alle diecimila miglia della ferrovia; ci mettemmo in movimento, preceduti da un’automobile allenatrice a forma di proiettile, alla velocità provvisoria di 120 chilometri all’ora.
Eravamo incavezzati alla nostra macchina, in modo che non potessimo più scenderne, in quest’ordine: all’ultimo posto, io stesso, Ted Oxborrow; davanti a me, Jewey Jacobs, Georges Webb, Sammy White – un negro – e il pilota della squadra, Bill Gilbey, che, scherzosamente, chiamavamo Corporal1 Gilbey, perché era responsabile di quattro uomini. Non ho incluso nel conto un nano, Bob Rumble, che traballava dietro di noi su un rimorchio, il cui contrappeso serviva a diminuire o ad aumentare l’attrito della ruota posteriore.
A intervalli regolari, Corporal Gilbey ci passava sopra la sua spalla i fragili cubetti incolori e dal gusto acre del Perpetual-Motion-Food, che furono il nostro solo nutrimento per quasi cinque giorni; li prendeva, cinque per volta, su una tavoletta sistemata sul bagagliaio dell’automobile allenatrice. Al di sotto della tavoletta, scintillava il bianco quadrante dell’indicatore di velocità; e, sotto il quadrante, un cilindro sospeso e ruotante era destinato ad attenuare gli eventuali urti della ruota anteriore della nostra quintupletta.
Al cader della notte, questo cilindro, senza che dalla locomotiva potessero accorgersene, fu collegato alle ruote motrici dell’automobile, in modo da girare in senso inverso a queste. Corporal Gilbey ci fece allora avanzare fino a che la nostra ruota anteriore poggiasse contro il cilindro, la cui rotazione, come in un ingranaggio, ci trainò, senza sforzo e fraudolentemente, durante le prime ore notturne.
Al riparo della macchina allenatrice non spirava un soffio di vento; a destra, la locomotiva, come un bravo bestione, pasturava sempre lo stesso punto del ‘campo’ visivo, senza avanzare né indietreggiare. Non v’era in essa altro indizio di movimento che una zona un po’ tremolante nella sua fiancata – dove sembrava oscillare una biella –; quanto alla parte anteriore, si potevano contare i raggi del suo cacciapietre, identico all’inferriata di una prigione o alla gabbia di sostegno della diga di un mulino. Tutto contribuiva a dare l’impressione di un placido paesaggio fluviale: la pista silenziosa era il fiume e i gorgoglii regolari del bestione imitavano il brusio di una cascata.
Attraverso i finestrini del vagone di testa, intravidi a più riprese la lunga barba bianca di Mr. Elson che ondeggiava dall’alto in basso, come se la sua persona stesse negligentemente dondolandosi su una rocking-chair. Anche i grandi occhi curiosi di Miss Elson comparvero per un istante alla prima portiera del secondo vagone, la sola che potessi scorgere, e, anche quella, a rischio di prendermi il torcicollo.
La sagometta indaffarata e provvista di baffi biondi di Mr. Gough non si muoveva dalla piattaforma della locomotiva. Se William Elson seguiva la corsa in treno, era, però, col desiderio di vedere il treno sconfitto; quanto a Mr. Gough, la grossa posta in palio lo spronava a far ricorso a tutte le risorse della sua competenza di guidatore.
Sammy White canterellava, scandendo il tempo delle nostre pedalate, una canzoncina infantile:
Twinkle, twinkle, little star…
E, nella notte deserta, la voce di falsetto di Bob Rumble, che era un po’ debole di mente, guaiva alle nostre spalle:
“C’è qualcosa che segue!”
Nessun essere, vivente o meccanico, avrebbe potuto seguirci a quell’andatura; e, del resto, dal treno, i passeggeri potevano sorvegliare la pista vuota e compatta alle spalle di Bob Rumble. È vero che, per qualche metro dopo l’ultimo vagone, il pietrisco della strada ferrata non era visibile, e noi non potevamo certo voltarci a guardare; ma sarebbe stato davvero inverosimile che qualcuno potesse filare a quella andatura sullo scabro pietrisco! Il pigmeo voleva senza dubbio manifestare la sua fierezza per il fatto che la sua puerile persona era trainata al nostro seguito.
All’alba del secondo giorno, un rombo stridente e metallico, un’immane vibrazione nella quale eravamo come inzuppati, mi fece sanguinare le orecchie. Mi resi conto che l’ultima automobile a forma di proiettile era stata ‘mollata’ e sostituita da una macchina volante a forma di tromba, che girava su se stessa e si avvitava nell’aria radendo il suolo davanti a noi, mentre un vento furioso ci aspirava verso il suo imbuto. Il filo di seta dell’indicatore di velocità tremava sempre con regolarità, disegnando come un fuso verticale e azzurro contro la guancia di Corporal Gilbey; e, sul quadrante d’avorio, lessi, come previsto nel nostro ruolino di marcia quanto al numero dei chilometri orari:
250
Il treno aveva conservato la sua precedente posizione: sempre la stessa apparente immobilità, prodigiosamente controllabile con tutti i sensi e perfino con il tatto della mano destra; ma il rumore di cascata si era fatto acutissimo, e, per effetto della velocità, un freddo mortale regnava a un millimetro dalla fornace incandescente della locomotiva.
Mr. W. Elson era invisibile. I miei sguardi traversavano da una parte all’altra il vagone senza incontrare ostacoli. Qualcosa intercettò l’occhiata che volevo gettare all’interno del vagone di Miss Elson.
La prima finestra del lungo scompartimento di acajou, la sola che fosse a portata dei miei occhi, era ostruita, con mio grande stupore, dall’esterno, da una spessa imbottitura scarlatta. Si sarebbe detto che, nel corso della notte, dei funghi sanguinolenti fossero cresciuti sul vetro…
Ormai era giorno pieno, e non potevo più dubitare di quanto vedevo: quel che scorgevo del vagone scompariva sotto un mare di rose rosse, enormi, gonfie, fresche come se fossero state appena colte. Il profumo si diffondeva nell’aria calma, al riparo dello spartivento.
Quando la ragazza abbassò il vetro del finestrino, una parte della coltre fiorita si lacerò, ma le rose non piovvero subito a terra: per qualche secondo viaggiarono nello spazio alla stessa velocità delle macchine, e la più grande fu inghiottita dall’improvvisa corrente d’aria all’interno del vagone.
Mi parve che Miss Elson gettasse un gran grido e portasse una mano al petto; e per tutto il resto della giornata non la vidi più. Le rose si sfogliarono lentamente per la vibrazione del vagone: volarono via una per una, a tre o quattro per volta, e il legno verniciato del vagone letto ricomparve immacolato, riflettendo più nitidamente di uno specchio il brutto profilo di Bob Rumble.
L’indomani, la fioritura carnicina si rinnovò.
Mi chiesi se non stessi diventando pazzo: ormai il volto ansioso di Miss Elson non si staccava più dal finestrino.
Ma un più grave incidente doveva attirare la mia attenzione. La mattina del terzo giorno accadde una cosa tremenda, tremenda soprattutto perché avrebbe potuto farci perdere la corsa. Jewey Jacobs, che occupava il posto immediatamente davanti al mio, con i ginocchi a una yarda dai miei, collegati insieme dagli stantuffi d’alluminio; Jewey Jacobs, che fin dall’inizio aveva pedalato con una furia fantastica, con scatti che acceleravano intempestivamente l’andatura prevista dalla nostra tabella di marcia, tanto che a più riprese avevo dovuto contropedalarli, Jewey Jacobs sembrò a un tratto prendere un gusto malvagio a irrigidire a sua volta i garretti, mandandomi i ginocchi a sbattere sgradevolmente sul mento, e costringendomi a chiedere alle mie gambe un serio lavoro.
Né Corporal Gilbey, né, dietro di lui, Sammy White, né Georges Webb potevano voltarsi, legati e imbacuccati com’erano, per vedere che cosa fosse successo a Jewey Jacobs; ma io riuscii a chinarmi fino a scorgere la sua gamba destra: con le dita dei piedi sempre inseriti nel toe-clip di cuoio essa saliva e scendeva con isocronismo, ma la caviglia pareva appesantita e l’ankle-play non si produceva più.
Inoltre – particolare forse troppo tecnico – non avevo badato a un odore curioso, attribuendolo alle sue brache di jersey nero, dove, come noi tutti, egli faceva entrambi i suoi bisogni in un mucchietto di terra da spurgo; ma un’idea improvvisa mi fece rabbrividire: fissai ancora, a una yarda dalla mia gamba e ad essa legata, la pesante marmorea caviglia, e respirai il lezzo cadaverico di una decomposizione incomprensibilmente accelerata.
A mezza yarda sulla mia destra, un fenomeno di altro genere mi colpì: invece del centro del tender, scorsi, proprio alla mia altezza, il secondo sportello del primo vagone.
“Stiamo grattando!” urlò in quell’istante Georges Webb.
“Stiamo grattando!” ripeterono Sammy White e Georges Webb; e poiché lo sbalordimento taglia le braccia e le gambe ancor più della fatica, l’ultimo sportello del secondo vagone si profilò contro la mia spalla, l’ultimo fiorito sportello del secondo e ultimo vagone; le voci di Arthur Gough e dei macchinisti lanciarono degli hurrà.
“Jewey Jacobs è morto!” gridai disperatamente con tutte le mie forze.
Il terzo e il secondo uomo del team muggirono nelle loro maschere fino all’orecchio di Bill Gilbey:
“Jewey Jacobs è morto!”
Il suono turbinò nella corrente d’aria per tutta la lunghezza delle pareti della macchina volante a forma di tromba, che ripeté a tre riprese – era abbastanza grande perché da un capo all’altro vi potessero essere due echi – che ripeté e lanciò dalle altezze celesti fin sulla favolosa pista dietro di noi, come una convocazione al Giudizio Universale:
“Jewey Jacobs è morto! morto! morto!”
“Ah! È morto? Me ne f…” disse Corporal Gilbey. “Attenzione: FATE L’ANDATURA A JACOBS!”
Fu un lavoro snervante, al quale spero di non dovermi mai più sottoporre in vita mia. L’uomo recalcitrava, contropedalava, grattava.
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