Dicevamo appunto con Robert che dovreste sposarvi. Vostra moglie vi guarirebbe, e voi la fareste felice. – No, ho troppo cattivo carattere. – Che idea! – Vi assicuro! Del resto sono stato fidanzato, ma non ho mai saputo decidermi a sposarla (e lei stessa vi ha rinunciato, per via del mio carattere indeciso e molesto).» Era infatti in questa forma alquanto semplificata che giudicavo – non vedendola più, ormai, che dal di fuori – la mia avventura con Albertine.

Mentre risalivo in camera mia, mi rattristava il pensiero di non essere stato una sola volta a rivedere la chiesa di Combray, che sembrava aspettarmi in mezzo al verde dentro una finestra tutta violacea. Mi dicevo: «Pazienza, sarà per un altr’anno, se non muoio nel frattempo», non vedendo altro ostacolo che la mia morte e non potendo immaginare quella della chiesa, che mi sembrava dover durare a lungo dopo la mia morte così come era durata a lungo prima della mia nascita.

Un giorno, tuttavia, parlai a Gilberte di Albertine, e le chiesi se le piacevano le donne. «Oh! no davvero. – Ma una volta dicevate che non era per bene. – Ho detto questo, io? sicuramente vi sbagliate. Comunque se l’ho detto (ma siete in errore) parlavo, al contrario, di piccole storie con dei ragazzi. A quell’età, del resto, è probabile che le cose non andassero molto in là.» Gilberte me lo diceva per nascondere che anche a lei, stando a quanto m’aveva detto Albertine, piacevano le donne, e che aveva fatto delle proposte ad Albertine? Oppure (visto che gli altri sono spesso più informati sulla nostra vita di quanto non crediamo) sapeva che avevo amato Albertine, che ne ero stato geloso e (poiché gli altri possono sì sapere più verità su di noi di quante non crediamo, ma anche estenderle troppo, e cadere in errore per eccesso di supposizioni, mentre noi li speravamo in errore per assenza d’ogni supposizione) immaginava che lo fossi ancora, e mi metteva sugli occhi, per bontà, la benda che si tiene sempre pronta per i gelosi? In ogni caso, le parole di Gilberte, dal “non per bene” d’un tempo all’attuale certificato di vita retta e buoni costumi, seguivano un cammino inverso a quello delle affermazioni di Albertine, che aveva quasi finito col confessare una mezza relazione con Gilberte. Albertine, in questo, m’aveva fatto stupire, come di ciò che m’aveva detto Andrée, giacché per l’intera piccola banda io ero stato inizialmente convinto, prima di conoscerla, della sua perversità; poi mi ero reso conto che le mie supposizioni erano false, come succede tante volte quando si trova una ragazza onesta e quasi ignara delle realtà dell’amore in un ambiente che s’era creduto a torto il più depravato. Poi avevo rifatto il cammino in senso inverso, riprendendo per vere le supposizioni iniziali. Ma forse Albertine aveva voluto dirmelo per apparire più esperta di quanto non fosse, e per affascinarmi a Parigi col prestigio della sua perversità come la prima volta a Balbec con quello della sua virtù. E molto semplicemente, quando le avevo parlato delle donne a cui piacevano le donne, per non far la figura di ignorare cosa fosse, come quando in una conversazione si prende l’aria di chi la sa lunga se si parla di Fourier o di Tobolsk pur non sapendo chi siano. Forse con l’amica di Mademoiselle Vinteuil e Andrée, che non la credevano delle loro, era vissuta vicina ma come separata da una paratia stagna, e si era poi informata – così come una donna che sposa un letterato cerca di farsi una cultura – solo per compiacermi, mettendosi in grado di rispondere alle mie domande, fino al giorno in cui aveva capito che esse erano ispirate dalla gelosia e aveva fatto marcia indietro. A meno che a mentirmi non fosse Gilberte. Mi venne persino in mente che Robert l’avesse sposata proprio per aver saputo da lei, durante un flirt condotto nel senso che lo interessava, come non le dispiacessero le donne, sperando piaceri che poi in casa, evidentemente, non aveva trovato, visto che se li andava a prendere altrove. Nessuna di queste ipotesi era assurda, giacché in donne come la figlia di Odette o le fanciulle della piccola banda vi è una tale varietà, un tale cumulo di gusti alterni se non simultanei, che passano tranquillamente da una relazione con una donna a un grande amore per un uomo, tanto che risulta difficile definirne il gusto reale e dominante.

Freccia che punta in alto a destra Non volli chiedere a Gilberte la sua Fille aux yeux d’or, perché stava leggendola lei. Ma mi prestò, da leggere prima d’addormentarmi quell’ultima sera che passai in casa sua, un libro che mi fece un’impressione assai vivace e composita, destinata per altro a non durare a lungo. Era un volume del Journal inedito dei Goncourt.

E quando, prima di spegnere la candela, lessi il brano che poco oltre trascrivo, la mia mancanza di disposizione per la letteratura, presentita in altri tempi dalla parte di Guermantes, confermata durante il soggiorno di cui questa era l’ultima sera – una di quelle sere che precedono una partenza e in cui, venendo meno l’intorpidimento dovuto alle abitudini che stanno per cessare, uno cerca di giudicarsi –, mi parve qualcosa di meno spiacevole, come se la letteratura non rivelasse alcuna verità profonda; e, nello stesso tempo, mi sembrava triste che la letteratura non fosse ciò che avevo creduto. D’altra parte, meno spiacevole mi sembrava la mia salute cagionevole, che mi avrebbe confinato in una casa di cura, se le belle cose di cui parlano i libri non erano più belle di quanto avevo visto. Ma, per una contraddizione bizzarra, adesso che quel libro ne parlava avevo voglia di vederle. Ecco le pagine che lessi finché la stanchezza non mi chiuse gli occhi:

“L’altroieri capita qui per portarmi a pranzo a casa sua Verdurin, l’ex critico della ‘Revue’, l’autore di quel libro su Whistler in cui davvero la mano, il talento coloristico dell’originale americano è reso non di rado con grande delicatezza da quell’innamorato di ogni raffinatezza, di ogni grazia della cosa dipinta, che è Verdurin. E mentre mi vesto per seguirlo è, da parte sua, tutto un raccontare dove c’è a tratti come il compitarsi timoroso d’una confessione sulla sua rinuncia a scrivere subito dopo il matrimonio con la ‘Maddalena’ di Fromentin, rinuncia che sarebbe dipesa dall’abitudine alla morfina e a causa della quale, a detta di Verdurin, la maggior parte degli habitués del salotto di sua moglie non saprebbero nemmeno che il marito abbia mai scritto, e gli citerebbero Charles Blanc, Saint-Victor, Sainte-Beuve, Burty come individui ai quali lo credono, lui, assolutamente inferiore. ‘Suvvia, voi Goncourt lo sapete, e lo sapeva anche Gautier, che i miei Salons erano ben altra cosa rispetto a quei pietosi Maîtres d’autrefois stimati un capolavoro nel giro di mia moglie.’ Poi, in un crepuscolo che accende attorno alle torri del Trocadéro come l’ultimo guizzo d’un chiarore che ne fa delle torri affatto simili a quelle rivestite di gelatina di ribes dei vecchi pasticcieri, la chiacchierata continua nella carrozza che deve condurci a quai Conti dov’è ubicato il loro palazzotto, che il proprietario pretende essere l’antica residenza degli ambasciatori di Venezia e nel quale ci sarebbe un fumoir di cui Verdurin mi parla come d’una sala trasportata identica, al modo delle Mille e una notte, da un celebre palazzo di cui non ricordo il nome, palazzo la cui vera di pozzo, raffigurante un’incoronazione della Vergine dovuta senz’ombra di dubbio, sostiene Verdurin, al miglior Sansovino, servirebbe ai loro invitati per gettarvi la cenere dei sigari. E in fede mia, quando arriviamo, nel diffuso glaucore d’un chiaro di luna davvero simile a quello di cui la pittura classica riveste Venezia, e di contro al quale la profilata cupola dell’Institut fa pensare alla Salute nei quadri del Guardi, ho un poco l’illusione d’essere sulla riva del Canal Grande. Illusione alimentata dal modo in cui è costruito il palazzotto, dal primo piano del quale il quai non è visibile, e dal dire evocatore del padrone di casa quando afferma che il nome della rue du Bac – il diavolo mi pigli se ci ho mai pensato – verrebbe dal bac, ossia traghetto, usato da certe monache d’una volta, le Miramione, per recarsi alle funzioni di Notre-Dame. Quartiere dove bighellonò in lungo e in largo la mia infanzia quando vi abitava mia zia de Courmont, e che prendo a riamare ritrovando, pressoché contigua al palazzotto dei Verdurin, l’insegna del Petit Dunkerque, un negozio – uno dei rari sopravvissuti altrove che negli schizzi a matita e all’acquerello di Gabriel di Saint-Aubin – dove il Settecento curioso sostava nei suoi momenti d’ozio per rifornirsi delle graziosità francesi e straniere e di ‘tutto quanto l’arte produce di più nuovo’, secondo quanto recita una fattura del Petit Dunkerque, fattura di cui noi siamo i soli, credo, Verdurin e io, a possedere una prova di stampa, e che è uno di quei volanti capidopera di carta adorna di fregi in cui il regno di Luigi XV soleva fare i conti, con la sua testatina raffigurante un mare tutto ondoso gremito di vascelli, mare le cui onde ricordano un’illustrazione di L’Huître et les Plaideurs nell’edizione dei Fermiers généraux. La padrona di casa, prima di farmi sedere al suo fianco, mi dice amabilmente d’aver infiorato la tavola soltanto di crisantemi giapponesi, ma crisantemi disposti in vasi che sarebbero rarissimi capolavori, l’uno dei quali avrebbe sul bronzo petali di rame rossastro simili al vivo sfogliarsi del fiore. Ci sono Cottard, il medico, con sua moglie, lo scultore polacco Viradobetski, Swann il collezionista, una gran dama russa, una principessa il cui nome in ov mi sfugge – e Cottard mi bisbiglia all’orecchio che sarebbe stata lei a sparare a bruciapelo all’arciduca Rodolfo –, a sentire la quale io godrei in Galizia e in tutto il nord della Polonia d’un prestigio assolutamente eccezionale, tanto che una fanciulla non acconsentirebbe mai a promettere la propria mano senza esser certa che il fidanzato ammira La Faustin.