‘Voi non potete capirlo, voi occidentali’, butta là a guisa di conclusione la principessa, che mi fa invero l’impressione di un’intelligenza affatto superiore, ‘questo penetrare d’uno scrittore nell’intimità della donna.’ Un uomo con mento e labbra rasati e favoriti da maggiordomo, intento a snocciolare in tono condiscendente battute da professore di ginnasio a colloquio coi primi della classe in occasione della festa di San Carlo Magno, è Brichot, l’universitario. Quando i Verdurin pronunciano il mio nome, non fa motto di conoscere i nostri libri, e in me c’è avvilimento rabbioso per il complotto organizzato contro di noi dalla Sorbona, complotto che porta fin nell’amabile dimora dove mi si festeggia la contraddizione, l’ostilità di un silenzio voluto. Ci mettiamo a tavola ed ecco una straordinaria sfilata di piatti che sono autentici capolavori dell’arte della porcellana, quella di cui, durante un pasto delicato, la stuzzicata attenzione d’un amatore ascolta con il più vivo diletto l’artistico cicaleccio – piatti Yung-cheng con il color cappuccina dei loro bordi, con l’azzurrognolo, con lo sfogliato turgore dei loro iris d’acqua, con il passaggio invero decorativistico d’un volo di martin pescatori e di gru nella luce dell’aurora, aurora affatto identica alle tinte mattinali sogguardate quotidianamente in boulevard Montmorency dal mio risveglio – piatti di Sassonia, più sdolcinati nel garbo della loro maniera, con la sonnolenza, con l’anemia delle loro rose che volgono al lilla, con lo sfogliarsi violaceo di un tulipano, con il rococò d’un garofano o d’una miosotide – piatti di Sèvres, ingraticciati nel fine rabesco delle loro scanalature bianche verticillate d’oro o annodate, sull’uniformità cremosa dell’impasto, dal galante rilievo d’un nastro d’oro – e, per finire, tutta un’argenteria in cui corrono mirti di Luciennes non ignoti un tempo alla Dubarry. E forse non meno rara è la qualità invero eccellente di quanto vi vien servito, un mangiare finemente apprestato, un cucinìo quale i parigini, occorre dirlo ben chiaro, non trovano ai pranzi più sfarzosi, e che mi ricorda certi cordons bleus di Jean d’Heurs. Persino il foie gras non ha nulla da spartire con l’insipida spuma che usurpa abitualmente questo nome, e conosco ben pochi luoghi dove la semplice insalata di patate sia fatta, come questa è fatta, con patate che hanno la compattezza di bottoni d’avorio giapponesi e il patinato di quei cucchiaini d’avorio con cui le donne cinesi versano l’acqua sul pesce appena pescato. Nel bicchiere di Venezia che ho davanti a me, uno straordinario léoville acquistato all’asta del signor di Montalivet accende una gioiellesca profusione di rossi, ed è una festa per l’immaginazione dell’occhio e anche, perché non dirlo?, di ciò che in altri tempi si chiamava la gola, la comparsa di un rombo che non ha proprio nulla di quei rombi di dubbia freschezza che vengon serviti sulle tavole più lussuose e che a causa degli indugi del viaggio recano sul dorso l’impronta delle proprie lische, rombo servito non già con quella specie di colla preparata, sotto il nome di salsa bianca, da tanti chefs di grandi case, ma con una vera salsa bianca, fatta con burro da cinque franchi la libbra, e vederlo comparire, questo rombo, su un meraviglioso piatto Tsing-Hon dove scorrono le striature purpuree di un tramonto su un mare solcato dalla giocosa navigazione d’un branco d’aragoste la cui granulosità puntiforme è resa con tanta perfezione da farle sembrare modellate sul vivo carapace, piatto raffigurante lungo il bordo interno un cinesino intento a pescare alla lenza un pesce che è un trionfo di tinte madreperlacee nell’argentarsi azzurrino del ventre. Quando dico a Verdurin quale delicato piacere debbano essere per lui quei mangiarini raffinati in quella collezione che nessun principe possiede, ora come ora, dietro le sue vetrine: ‘Ah! si vede che non lo conoscete’, mi butta là malinconicamente la padrona di casa. E mi parla del marito come di un originale maniaco, indifferente a tutte queste graziosità, ‘sì, un maniaco, ripete, proprio così’, maniaco che avrebbe voglia piuttosto d’una bottiglia di sidro bevuta nella freschezza un po’ incanaglita d’una fattoria normanna. E questa dama affascinante, dalla parola davvero innamorata dei colori d’una contrada, ci parla con debordante entusiasmo della Normandia dove sono vissuti, una Normandia che sarebbe un immenso parco all’inglese, con la fragranza delle sue alte fustaie alla Lawrence, i velluti color criptomeria dai contorni porcellanati di ortensie rosa dei suoi prati naturali, lo sgualcirsi di rose color zolfo la cui cascata al di sopra d’una porta rustica, dove l’incrostazione di due peri allacciati simula un’insegna quanto mai ornamentale, fa pensare al libero ricadere d’un ramo fiorito nel bronzo di un’applique di Gouthière, una Normandia di cui un parigino in vacanza assolutamente non sospetterebbe l’esistenza e che è protetta dalle staccionate recingenti ciascuno dei suoi campi, staccionate che i Verdurin mi confessano di non aver mancato di rimuovere dalla prima all’ultima. Sul finire del giorno, quando nello spegnersi sonnacchioso di tutti i colori la luce non verrebbe più che da un mare quasi cagliato che ha l’azzurrognolo del latticello (‘Ma no, niente a che vedere col mare che conoscete’, protesta freneticamente la padrona di casa al mio ricordare che Flaubert ci aveva portati, mio fratello e me, a Trouville, ‘niente di niente, dovete venirci con me o non saprete mai’), rincasavano attraversando le foreste, vere foreste, di fiori di tulle rosa formate dai rododendri, completamente inebriati dall’odore delle fabbriche di sardine in conserva che provocavano al marito abominevoli crisi d’asma – ‘proprio così, insiste la mia vicina, autentiche crisi d’asma’. Dopodiché, l’estate successiva, ritornavano, ospitando tutta una colonia d’artisti in una splendida magione medievale, ricavata in un antico chiostro, che affittavano per una bazzecola. E in verità, a sentire questa donna che passando per tanti ambienti indubitabilmente distinti ha tuttavia conservato qualcosa dell’eloquio verzicante d’una donna del popolo, eloquio da cui le cose emergono con il colore stesso che vi scorge la nostra immaginazione, mi viene in bocca l’acquolina per la vita ch’ella m’accerta d’aver condotto laggiù, ciascuno a lavorare nella sua cella e tutti riuniti prima di mangiare nel salone, così vasto da avere due camini, a scambiarsi chiacchiere di qualità affatto superiore miste a piccoli giochi non dissimili nel mio pensiero da quelli evocati in un capolavoro di Diderot, le Lettres à Mademoiselle Volland. Poi, dopo mangiato, tutti uscivano, anche i giorni di piovaschi, nell’occhiata di sole, nell’irraggiarsi di un acquazzone, acquazzone il cui filtraggio luminoso rigava le nodosità d’una splendida cortina di faggi centenari, che mettevano davanti alla cancellata il bello vegetale caro al XVIII secolo, e d’arbusti recanti, alla sospensione dei rami, gocce di pioggia quali gemme in fiore. Si sostava per ascoltare il delicato gorgoglio, amoroso di freschezza, d’un ciuffolotto che faceva il bagno in quella graziosa minuscola vasca di Nymphenburg che è una corolla di rosa bianca. E quando parlo a Madame Verdurin dei paesaggi e dei fiori di laggiù pastellizzati da Elstir: ‘Ma sono io che gli ho fatto conoscere tutto quanto’, esplode lei rialzando irosamente la testa, ‘tutto, capite, tutto, ogni angolino curioso, ogni tema – gliel’ho ben rinfacciato quando ci ha lasciati, non è vero, Auguste? – ogni tema dei suoi quadri. Gli oggetti, per essere giusti, li ha sempre conosciuti, questo bisogna concederglielo. Ma fiori non ne aveva mai visti, non sapeva distinguere un’altea da una malvarosa. È da me che ha imparato a riconoscere – voi non ci crederete – a riconoscere il gelsomino’. E bisogna ammettere che c’è qualcosa di strano nell’idea che colui che gli amatori d’arte citano oggi come il primo fra i pittori di fiori, superiore allo stesso Fantin-Latour, non avrebbe forse mai saputo, senza questa donna, dipingere un gelsomino. ‘Sì, parola mia, il gelsomino; tutte le rose che ha fatte, le ha fatte in casa mia, oppure gliele portavo io. Qui da noi lo chiamavamo soltanto signor Tiche; chiedete a Cottard, a Brichot, a tutti quanti se l’abbiamo mai trattato da grand’uomo, in questa casa. Sarebbe stato lui il primo a riderne. Gli insegnavo a disporre i suoi fiori, all’inizio non riusciva a cavarsela. Non è mai stato capace di comporre un mazzo. Non aveva nessun gusto naturale, non sapeva scegliere, bisognava che gli dicessi: No, non dipingete quello, non ne vale la pena, dipingete questo. Ah! se ci avesse dato retta nella sistemazione della sua vita come in quella dei fiori, e non avesse fatto quell’orribile matrimonio!’ E di colpo, gli occhi infebbrati dall’ingestione d’una fantasticheria volta al passato, le falangi maniacalmente allungate nel nervoso tormentìo delle maniche sfrangiate della camicetta, ecco nel profilarsi della sua posa dolente un quadro che mai, io credo, è stato dipinto, e in cui si leggerebbero tutta la contenuta rivolta, tutte le esasperate suscettibilità di un’amica oltraggiata nelle delicatezze, nel pudore della donna. Dopodiché passa a parlarci del mirabile ritratto che Elstir ha dipinto per lei, il ritratto della famiglia Cottard, ritratto da lei donato al Luxembourg al momento della sua rottura con l’artista, confessando che è stata lei a suggerirgli l’idea di dipingere l’uomo in abito da sera, per ottenere tutto quel bel ribollire di biancheria, e a scegliere il vestito di velluto della donna, vestito che mette un punto fermo in mezzo a tutto quello sfavillìo di sfumature chiare dei tappeti, dei fiori, dei frutti, dei vestiti di velo delle bambine, simili ai tutù delle danzatrici. E sua sarebbe stata anche l’idea di quel pettinarsi, idea di cui si è poi accreditato il pittore, idea che consisteva, in sostanza, nel dipingere la donna non a mo’ di rappresentanza, ma sorpresa nell’intimo della vita d’ogni giorno. ‘Gli dicevo: Ma nella donna che si pettina, che si asciuga il viso, che si scalda i piedi, credendo di non esser vista, c’è un subisso di movimenti interessanti, movimenti di una grazia affatto leonardesca!’

“Ma a un cenno di Verdurin, che suggerisce come il risveglio di siffatte indignazioni rischi d’esser malsano per la grande nervosa che sarebbe in fondo sua moglie, Swann mi fa ammirare la collana di perle nere della padrona di casa, da lei acquistate, perfettamente bianche, all’asta di un discendente di Madame de La Fayette che le avrebbe avute in regalo da Enrichetta d’Inghilterra, perle divenute nere in seguito a un incendio che distrusse parte della casa abitata dai Verdurin in una via di cui non ricordo il nome, incendio dopo il quale fu ritrovato il cofanetto in cui erano le perle, ma diventate completamente nere. ‘E io, di queste perle, conosco il ritratto, al collo appunto di Madame de La Fayette, sì, proprio il loro ritratto’, insiste Swann davanti alle esclamazioni dei commensali un tantino stupiti, ‘il loro ritratto autentico, nella collezione del duca di Guermantes.’ Una collezione senza eguali al mondo, proclama Swann, e che io farei bene ad andare a vedere, collezione lasciata in eredità al celebre duca, che era il suo nipote preferito, dalla zia Madame de Beausergent, poi Madame d’Hatzfeldt, sorella della marchesa di Villeparisis e della principessa d’Hannover, nella cui casa mio fratello e io l’abbiamo tanto amato un tempo nei tratti dell’incantevole bambino chiamato Basin, che è infatti il nome di battesimo del duca.