Al che il dottor Cottard, con una finezza che rivela in lui l’uomo della più alta distinzione, ripiomba sulla storia delle perle, e ci spiega che catastrofi del genere producono nel cervello delle persone alterazioni affatto simili a quelle riscontrabili nella materia inanimata; e, in modo invero più filosofico della maggior parte dei medici, cita il caso di un cameriere di Madame Verdurin che nello spavento dell’incendio in cui era stato sul punto di perire era diventato un altro uomo, con una scrittura talmente mutata che ricevendo la sua prima lettera, dove si annunciava loro l’accaduto, i suoi padroni, allora in Normandia, credettero alla mistificazione d’un burlone. E non solo un’altra scrittura, secondo Cottard, il quale sostiene che da sobrio che era quell’uomo sia diventato un tale ubriacone che Madame Verdurin fu costretta a licenziarlo. E la suggestiva dissertazione passa, a un cenno grazioso della padrona di casa, dalla sala da pranzo al fumoir veneziano, dove Cottard ci dice d’aver assistito a veri e propri sdoppiamenti della personalità, citando il caso d’uno dei suoi malati che amabilmente si offre di portarmi a casa e che gli basterebbe toccare sulle tempie per destarlo a una seconda vita, vita durante la quale non ricorderebbe niente della prima, tanto che, uomo onestissimo in questa, vi sarebbe stato più volte arrestato per furti commessi nell’altra, dove non sarebbe né più né meno che un abominevole furfante. Madame Verdurin osserva qui finemente che la medicina potrebbe fornire soggetti più veritieri a un teatro in cui la comicità dell’imbroglio si basasse su equivoci patologici; il che, di cosa in cosa, induce Madame Cottard a raccontare che uno spunto affatto simile è stato sfruttato da un narratore che è il favorito delle serate dei suoi bambini, lo scozzese Stevenson, nome che mette sulle labbra di Swann questa perentoria affermazione: ‘Ma è assolutamente un grande scrittore, Stevenson, ve lo posso assicurare, signor Goncourt, grandissimo, all’altezza dei maggiori’. E quando, dopo aver ammirato i soffitti a cassettone, ornati di stemmi, provenienti dall’antico palazzo Barberini, della sala in cui stiamo fumando, io lascio trapelare il mio rammarico per il progressivo annerimento d’una certa vasca a causa della cenere dei nostri londrès, e Swann riferisce che macchie analoghe sui libri appartenuti a Napoleone I – e ora posseduti, malgrado le sue opinioni antibonapartiste, dal duca di Guermantes – attestano che l’imperatore ciccava, Cottard, dimostrando d’essere in ogni cosa un curioso davvero penetrante, dichiara che le macchie in questione non hanno affatto tale origine – ‘ma no, non se ne parla nemmeno’, insiste con autorità – ma derivano dall’abitudine dell’imperatore di tenere sempre in mano, persino sui campi di battaglia, delle pastiglie di liquirizia per calmare i dolori al fegato. ‘Perché era malato di fegato, ed è di questo che è morto’, conclude il dottore.”
Mi fermai a questo punto, perché partivo la mattina dopo; e, d’altra parte, a quell’ora mi reclamava l’altro padrone, al cui servizio siamo ogni giorno per la metà del tempo. Il compito al quale ci costringe lo assolviamo a occhi chiusi. Ogni mattina ci restituisce all’altro padrone, sapendo che altrimenti lo serviremmo male. Curiosi, quando la nostra mente ha riaperto gli occhi, di sapere cosa mai abbiamo fatto da quel padrone che fa coricare i suoi schiavi prima di adibirli a un lavoro precipitoso, i più furbi cercano, non appena sbrigato il loro incarico, di dare un’occhiata furtiva. Ma il sonno gareggia in velocità con loro per far sparire le tracce di quanto vorrebbero vedere. E così, dopo tanti secoli, non è che ne sappiamo molto.
Richiusi dunque il Journal dei Goncourt. Prestigio della letteratura! Avrei voluto rivedere i Cottard, chiedere loro dei particolari su Elstir, andare a vedere, se ancora esiste, il negozietto del Petit Dunkerque, chiedere il permesso di visitare il palazzotto dei Verdurin, lo stesso dove avevo pranzato. Ma provavo un vago turbamento. Certo, non avevo mai nascosto a me stesso di non essere capace d’ascoltare e nemmeno, non appena smettevo d’esser solo, di vedere. Nessuna vecchia, ai miei occhi, esibiva una collana di perle, e quanto si diceva in proposito non mi entrava nelle orecchie. Eppure le avevo conosciute, quelle persone, nella vita quotidiana, spesso avevo pranzato con loro, erano i Verdurin, il duca di Guermantes, i Cottard, ciascuno di loro m’era parso tanto comune quanto a mia nonna quel Basin di cui non aveva nemmeno sospettato che fosse il nipote prediletto, il giovane eroe delizioso di Madame de Beausergent, ciascuno di loro m’era sembrato insipido; ricordavo le volgarità innumerevoli di cui ciascuno era composto...
Et que tout cela fasse un astre dans la nuit!
Decisi di accantonare, provvisoriamente, le obiezioni contro la letteratura che le pagine di Goncourt, lette la sera prima della mia partenza da Tansonville, avevano potuto far nascere in me. Anche prescindendo dal grado individuale di ingenuità, che in questo memorialista è sorprendente, potevo del resto tranquillizzarmi sotto diversi punti di vista. Innanzitutto, per quanto mi concerneva personalmente, la mia incapacità di guardare e d’ascoltare, che il brano di diario citato aveva messo in luce in modo per me così penoso, non era poi assoluta. C’era in me un personaggio più o meno in grado di guardare, ma era un personaggio intermittente, che riprendeva vita solo quando si manifestava qualche essenza generale, comune a parecchie cose, che costituiva il suo nutrimento e la sua gioia. Il personaggio, allora, guardava e ascoltava, ma solo a una certa profondità, di modo che l’osservazione non ne traeva profitto. Come un geometra, spogliando le cose delle loro qualità sensibili, non vede che il loro substrato lineare, a me sfuggiva quel che raccontava la gente, perché ad interessarmi non era ciò che essi volevano dire, ma il modo in cui lo dicevano, in quanto rivelatore del loro carattere e dei loro lati ridicoli; o, meglio ancora, un oggetto che era sempre stato più particolarmente il fine della mia ricerca, perché mi dava un piacere specifico: il punto che un essere e un altro avevano in comune. Era solo quando coglievo questo punto che la mia mente – fino ad allora sonnecchiante pur dietro l’attività apparente della mia conversazione, che mascherava per gli altri, con la sua vivacità, un assoluto torpore mentale – si metteva di colpo gioiosamente in caccia; ma ciò che allora inseguiva – per esempio l’identità del salotto Verdurin attraverso i diversi tempi e luoghi – era situato a una profondità media, al di là dell’apparenza in quanto tale, in una zona un po’ più arretrata. Per questo il fascino apparente, copiabile, degli esseri mi sfuggiva, non avendo io la facoltà di fermarmi ad esso, come un chirurgo che sotto un liscio ventre di donna vedesse il male interno che lo rode. Avevo un bell’andare fuori a pranzo: non vedevo i commensali perché, credendo di guardarli, li radiografavo.
Di conseguenza, riunendo tutte le osservazioni sui commensali fatte durante un pranzo, il disegno delle linee da me tracciate raffigurava un insieme di leggi psicologiche in cui l’interesse specifico rivestito dai discorsi d’un singolo commensale non aveva quasi posto. Ma questo toglieva ogni valore ai miei ritratti, dal momento che non li spacciavo per tali? Se uno, nel campo della pittura, mette in evidenza certe verità relative al volume, alla luce, al movimento, ne deriva necessariamente che sia inferiore a un certo ritratto, completamente diverso, della stessa persona, in cui mille particolari omessi nel primo siano invece minuziosamente riportati – secondo ritratto da cui si potrà dedurre che il modello era incantevole mentre nel primo lo si sarebbe creduto brutto, il che può avere un’importanza documentaria e anche storica, ma non è necessariamente una verità d’arte?
Inoltre la mia frivolezza, appena non ero più solo, mi ispirava il desiderio di piacere, il desiderio di divertire chiacchierando più che di istruirmi ascoltando, a meno che in società ci fossi andato per far domande su qualche argomento d’arte, su qualche sospetto geloso che m’avesse occupato sin da prima la mente. Ma ero incapace di vedere ciò di cui qualche lettura non avesse preventivamente risvegliato in me il desiderio, ciò di cui non mi fossi già disegnato per mio conto lo schizzo che poi desideravo confrontare con la realtà. Quante volte – lo sapevo bene, anche se non l’avessi appreso da quella pagina di Goncourt – ero stato incapace d’accordare la mia attenzione a cose o a persone che poi, quando la loro immagine mi fosse stata presentata da un artista mentre ero solo, avrei fatto chilometri, avrei rischiato la morte per ritrovare! La mia immaginazione, allora, era partita, aveva cominciato a dipingere. E di ciò che l’anno prima mi aveva fatto sbadigliare mi dicevo ora con angoscia, contemplandolo in anticipo, desiderandolo: «Sarà davvero impossibile vederlo? Ah, cosa non darei!».
Leggendo qualche articolo su persone – magari semplicemente persone di mondo – qualificate come “ultimi rappresentanti di una società di cui non esistono più testimoni”, si può sicuramente esclamare: «E dire che tutta questa profusione di elogi è per un essere così insignificante! ecco che cosa mi sarebbe tanto dispiaciuto non conoscere se mi fossi limitato a leggere i giornali e le riviste e non avessi visto l’uomo!». Ma io, leggendo simili pagine nei giornali, ero piuttosto tentato di pensare: «Che peccato, quando la mia unica preoccupazione era di ritrovare Gilberte o Albertine, non aver fatto più attenzione a quel signore! L’avevo preso per un seccatore mondano, per un semplice figurante, ed era una figura!».
Di questa disposizione, le pagine di Goncourt che avevo lette m’indussero a pentirmi. Infatti, forse, avrei potuto concluderne che la vita insegna a sminuire il pregio della lettura, e ci mostra che quanto lo scrittore ci vanta non valeva granché; ma potevo altrettanto correttamente concluderne che la lettura, al contrario, ci insegna a rialzare il valore della vita, valore che non abbiamo saputo apprezzare e che soltanto grazie al libro percepiamo quanto fosse grande.
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