A rigore, possiamo consolarci d’aver poco goduto della compagnia di un Vinteuil, di un Bergotte. Il borghesismo pudibondo del primo, i difetti insopportabili dell’altro, persino la pretenziosa volgarità, ai suoi esordi, di un Elstir (giacché il Journal dei Goncourt mi aveva fatto scoprire come egli non fosse altri che il “signor Tiche” che un tempo, in casa Verdurin, aveva tenuto a Swann discorsi così esasperanti) non provano nulla contro di loro, dal momento che è nelle opere che si manifesta il loro genio. Per costoro, che siano i libri di memorie, oppure noi, ad aver torto nell’attribuire del fascino alla loro compagnia che ci è dispiaciuta, è un problema di scarsa importanza: infatti, se anche ad aver torto fosse il memorialista, questo non proverebbe niente contro il valore della vita che produce simili geni. (Ma quale uomo di genio non ha adottato gli irritanti modi di dire della sua banda prima di raggiungere, come era successo a Elstir e come raramente succede, un buon gusto superiore? Le lettere di Balzac, per esempio, non sono forse piene di espressioni volgari che Swann avrebbe patito mille morti ad usare? Eppure è probabile che Swann, così fine, così al di sopra d’ogni odiosa goffaggine, non sarebbe stato capace di scrivere La cousine Bette o Le curé de Tours.)

All’estremità opposta dell’esperienza, quando vedevo che gli aneddoti più curiosi, che forniscono materia inesauribile – svago delle serate solitarie per il lettore – al Journal di Goncourt, gli erano stati raccontati da quei commensali che attraverso le sue pagine avremmo tanto voluto conoscere e che a me non avevano lasciato traccia d’un solo ricordo interessante, la cosa non era tuttavia completamente inspiegabile. Malgrado l’ingenuità di Goncourt, che dall’interesse degli aneddoti inferiva la probabile distinzione di chi li raccontava, poteva benissimo darsi che uomini mediocri avessero visto o sentito raccontare, nel corso della loro vita, cose curiose, e le raccontassero a loro volta. Goncourt sapeva ascoltare, così come sapeva vedere; io no.

D’altronde, questi fatti si sarebbero dovuti giudicare uno per uno. Il signor di Guermantes non m’aveva certo fatto l’impressione di quell’adorabile esempio di grazie giovanili che la nonna avrebbe tanto voluto conoscere e che mi proponeva come modello inimitabile basandosi sulle memorie di Madame de Beausergent. Ma bisogna pensare che Basin, allora, aveva sette anni, che l’autore delle memorie era sua zia, e che persino i mariti in procinto di divorziare tessono grandi elogi della moglie. Una delle più belle poesie di Sainte-Beuve è consacrata all’apparizione davanti a una fontana di una fanciulletta incoronata di tutti i doni e di tutte le grazie, la giovane Mademoiselle de Champlâtreux, che non doveva avere, allora, nemmeno dieci anni. Malgrado tutta l’affettuosa venerazione che un poeta geniale come la contessa di Noailles aveva per sua suocera, la duchessa di Noailles nata Champlâtreux, se avesse dovuto farne il ritratto è possibile che questo sarebbe stato in alquanto vivace contrasto con quello dipinto da Sainte-Beuve cinquant’anni prima.

Più inquietante, forse, era ciò che stava in mezzo, erano le persone nelle quali ciò che si dice di loro implica qualcosa di più della memoria che ha saputo trattenere un aneddoto curioso, senza che abbiamo tuttavia, come per i Vinteuil e i Bergotte, la possibilità di giudicarli in base alla loro opera, visto che non ne hanno creata alcuna: ne hanno soltanto – con immenso stupore di chi, come noi, li trovava tanto mediocri – ispirate. Passi ancora che il salotto da cui, nei musei, riceviamo la maggiore impressione d’eleganza dopo i grandi dipinti del Rinascimento sia quello della borghesuccia ridicola alla quale, se non l’avessi conosciuta, avrei sognato davanti al quadro di potermi avvicinare nella realtà, sperando di apprenderne i segreti più preziosi dell’arte del pittore, che la tela non mi confidava, e il cui pomposo strascico di velluti e di trine è un pezzo di pittura paragonabile ai più belli di Tiziano. Se, un tempo, avevo capito che a diventare un Bergotte (quand’anche i contemporanei lo considerino meno fine di Swann e meno colto di Bréauté) non è l’uomo più spiritoso, più istruito, dotato di migliori relazioni, ma quello che sa farsi specchio e può riflettere così la propria vita, magari anche mediocre, a maggior ragione si poteva dire lo stesso dei modelli dell’artista. Al destarsi dell’amore per la bellezza, il modello dell’eleganza in cui l’artista, che può dipingere tutto, potrà trovare soggetti così belli, sarà fornito da persone un po’ più ricche di lui, in casa delle quali troverà ciò che solitamente non ha nel suo studio d’uomo di genio misconosciuto che vende le sue tele a cinquanta franchi l’una: un salotto con mobili ricoperti di vecchia seta, molte lampade, bei fiori, bella frutta, bei vestiti – persone relativamente modeste o che tali apparirebbero a persone davvero brillanti (le quali non ne conoscono nemmeno l’esistenza), ma proprio per questo sono più disponibili a conoscere l’artista oscuro, ad apprezzarlo, a invitarlo, a comprare le sue tele, che non gli aristocratici, che si fanno ritrarre, come i papi e i capi di Stato, dai pittori accademici. La poesia di un interno elegante e di belle toilettes del nostro tempo non la troveranno forse, i nostri posteri, nel salotto dell’editore Charpentier dipinto da Renoir, piuttosto che nel ritratto della principessa di Sagan o della contessa di La Rochefoucauld dipinto da Cot o da Chaplin? Gli artisti che ci hanno offerto le più grandi visioni d’eleganza ne hanno raccolto gli elementi in case di persone che erano ben di rado i grandi eleganti della loro epoca, i quali ben di rado si fanno ritrarre dall’ignoto portatore d’una bellezza che essi non sono in grado di distinguere nei suoi quadri, nascosta com’è dall’interposto modello d’una grazia decrepita che fluttua nell’occhio del pubblico come quelle visioni soggettive che il malato crede d’avere realmente davanti. Ma se i mediocri modelli che avevo conosciuti avevano inoltre ispirato, consigliato certe disposizioni dalle quali ero stato incantato, se la presenza di taluno fra loro era in certi quadri, più che quella d’un modello, quella d’un amico che si desidera farvi figurare, c’era da chiedersi se tutte le persone che ci rammarichiamo di non aver conosciute perché Balzac le dipingeva nei suoi libri e glieli dedicava con parole d’ammirazione, le persone che ispirarono a Sainte-Beuve o a Baudelaire i loro versi più belli, a maggior ragione tutte le Récamier, tutte le Pompadour, non mi sarebbero parse persone insignificanti, o per un’imperfezione della mia natura – cosa che mi faceva allora stizzire d’esser malato e di non poter tornare a vedere tutte le persone che avevo sottovalutate – o perché dovevano il loro prestigio unicamente a un’illusoria magia della letteratura, il che mi costringeva a mutar dizionario per leggere e mi consolava di dovere da un giorno all’altro, a causa dei progressi della mia cattiva salute, rompere con la società, rinunciare ai viaggi, ai musei, per farmi ricoverare in una casa di cura. Forse, tuttavia, questo aspetto menzognero, questa luce falsa esistono nei libri di memorie solo quando essi sono troppo recenti, quando le reputazioni, intellettuali o mondane che siano, svaniscono così rapidamente (perché se poi l’erudizione tenta di reagire contro un tale seppellimento riesce sì e no, degli oblii che si vanno accumulando, a distruggerne uno su mille).

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Freccia che punta in alto a destra Queste idee – tendenti, le une a diminuire, le altre ad aumentare il mio rimpianto di non esser portato alla letteratura – non si presentarono mai al mio pensiero nei lunghi anni durante i quali avevo completamente rinunciato al progetto di scrivere, e che passai in una casa di cura lontano da Parigi fino al momento in cui questa, all’inizio del 1916, non riuscì più a trovare personale medico.

Tornai allora in una Parigi ben diversa da quella dove ero già tornato una prima volta, come si vedrà fra poco, nell’agosto del 1914, per una visita medica, dopo la quale avevo raggiunto la mia casa di cura. Poche sere dopo il mio nuovo ritorno, nel 1916, avendo voglia di sentir parlare della sola cosa che allora mi interessasse, la guerra, uscii dopo pranzo per andare a trovare Madame Verdurin, che era, con Madame Bontemps, una delle regine di quella Parigi di guerra che faceva pensare al Direttorio. Come per disseminazione d’una piccola quantità di lievito, in una sorta di apparente germinazione spontanea, giovani donne andavano in giro tutto il giorno acconciate con alti turbanti cilindrici come altrettante contemporanee di Madame Tallien, per civismo, con tuniche all’egiziana dritte, scure, molto “belliche”, su gonne molto corte; calzavano strisce di cuoio che ricordavano il coturno secondo Talma, oppure alte ghette che ricordavano quelle dei nostri cari combattenti; era, a sentir loro, perché non dimenticavano di doverne rallegrare gli occhi che s’agghindavano non soltanto di abiti “morbidi”, ma anche di gioielli che evocavano l’esercito nei motivi decorativi se non era la loro stessa materia a venire dall’esercito, ad esservi stata lavorata; erano, in luogo d’ornamenti egiziani richiamanti la campagna d’Egitto, anelli o braccialetti fatti con schegge di granate o pezzi di cartucciere da 75, accendini costruiti con monete inglesi da due soldi cui un soldato era riuscito a dare, nel suo rifugio, una patina così bella che il profilo della regina Vittoria sembrava tracciato dal Pisanello. Era, ancora, perché ci pensavano incessantemente – così dicevano –, che quando uno dei loro cadeva ne portavano a stento il lutto, col pretesto ch’esso era “intriso di fierezza”, il che consentiva un berretto di crêpe inglese bianco (del più grazioso effetto, e tale da “autorizzare ogni speranza”, nell’invincibile certezza del trionfo definitivo), di sostituire il cachemire d’una volta con il raso e la mussola di seta e persino di non abbandonare le perle, “nella piena osservanza del tatto e della correttezza che è inutile ricordare alle francesi”.

Il Louvre, tutti i musei erano chiusi, e quando l’intestazione di un articolo di giornale diceva: “Una mostra sensazionale”, si poteva esser certi che si trattava d’una mostra non di quadri, bensì di vestiti, vestiti destinati d’altronde alle “delicate gioie d’arte da troppo tempo sottratte alle parigine”. Eleganza e piacere, così, erano rispuntati: e l’eleganza cercava, in mancanza dell’arte, di giustificarsi come questa aveva fatto nel 1793, quando gli artisti che avevano esposto al Salon rivoluzionario proclamavano che “avrebbero torto gli austeri repubblicani a giudicare strano che noi ci occupiamo d’arte mentre l’Europa coalizzata assedia il territorio della libertà”. Lo stesso facevano nel 1916 i sarti, che per altro, con orgogliosa coscienza d’artisti, spiegavano che “cercare il nuovo, rifuggire dalla banalità, affermare uno stile, preparare la vittoria, dar vita per le generazioni del dopoguerra a una nuova formula del bello, tale era l’ambizione da cui eran travagliati, la chimera che inseguivano, come si poteva constatare visitando le loro sale d’esposizione deliziosamente allestite in rue de la..., dove la parola d’ordine sembra esser quella di cancellare con una nota luminosa e gaia le grevi tristezze dell’ora, beninteso con tutta la discrezione imposta dalle circostanze”.

È vero che “le tristezze dell’ora” potrebbero “aver ragione delle energie femminili se non avessimo tanti e così alti esempi di coraggio e di resistenza su cui meditare. Così, pensando ai nostri combattenti che in fondo alla loro trincea sognano maggiori agi e più cose graziose per la cara assente lasciata accanto al focolare, non tralasceremo una sempre più attiva ricerca per la creazione di modelli che rispondano alle necessità del momento. Sulla cresta dell’onda”, va da sé, “sono soprattutto le case inglesi, dunque alleate, e quest’anno si impazzisce per gli abiti a botticella, la cui simpatica trascuratezza dà a tutte noi un piccolo, divertente tocco di rara distinzione. Una delle più felici conseguenze di questa triste guerra sarà anzi” aggiungeva il garbato cronista (e uno s’aspettava: “la riconquista delle province perdute, il risveglio del sentimento nazionale”), “una delle più felici conseguenze di questa guerra sarà anzi d’aver ottenuto nel campo della moda buoni risultati senza un lusso sconsiderato e di cattivo gusto, con molto poco, d’aver creato con niente tante cose graziose. All’abito del grande sarto edito in più esemplari si preferiscono, in questo momento, gli abiti fatti in casa, in quanto affermazione dell’intelligenza, del gusto e delle tendenze individuali di ciascuno”.

Quanto alle opere di carità, pensando a tutte le miserie nate dall’invasione, a tanti mutilati, era affatto naturale che dovessero diventare “ancora più ingegnose”, il che costringeva a trascorrere l’ultima parte del pomeriggio ai “tè”, al tavolo del bridge, commentando le ultime “dal fronte”, mentre davanti alla porta erano attese, le dame dall’alto turbante, dalle loro automobili, sul cui sedile c’era un bel militare che chiacchierava col portiere. D’altronde, ad esser nuove non erano solo le acconciature, che sovrastavano le facce con il loro strano cilindro. Lo erano anche le facce. Quelle dame dai nuovi cappelli erano giovani donne venute non si sapeva bene da dove e che rappresentavano il fiore dell’eleganza, quale da sei mesi, quale da due anni, quale da quattro. Tali differenze erano per loro tanto importanti quanto, ai tempi in cui io avevo debuttato nel gran mondo, tre o quattro secoli di provata antichità fra due famiglie come i Guermantes e i La Rochefoucauld. La dama che conosceva i Guermantes dal 1914 guardava come una parvenue quella che veniva presentata in casa loro nel 1916, le faceva un cenno di saluto da madre nobile, la squadrava attraverso l’occhialetto e confessava con una smorfia di non essere affatto sicura che fosse sposata.