La guerra è una cartina di tornasole che smaschera le ipocrisie, le frivolezze meschine, gli egoismi, la dominante insensibilità, le falsità del giornalismo, l’infinita stupidità dell’uomo immerso nella massa. È questo il Proust che più si avvicina al Flaubert di Bouvard e Pécuchet e delle rievocazioni storiche inserite nell’Educazione sentimentale. Per molti personaggi femminili18 quel conflitto in cui ogni giorno morivano da una parte e dell’altra centinaia o migliaia di giovani si riduceva a una questione di abiti e di nuove mode per anelli e braccialetti, fabbricati ora con schegge di granata o pezzi di cartucciere. L’insistito paragone tra la Parigi del 1914-18 e la Parigi del Direttorio va letto non come un’asettica curiosità storiografica, bensì in chiave ironica. E chi potrà mai dimenticare la «dolce soddisfazione» che si diffonde sul volto di Madame Verdurin mentre, mangiando un croissant antiemicrania, legge e commenta l’affondamento del Lusitania coi suoi milleduecento passeggeri morti affogati? I soldati che dal fronte e dalle trincee vengono a trascorrere qualche giorno di licenza a Parigi giustamente si scandalizzano vedendo che la “dolce vita” continua: «Non si direbbe neanche che c’è la guerra qui». Ed è forse proprio per controbilanciare il sostanziale cinismo sul piano delle abitudini personali di vita che, al livello del linguaggio, cresce invece a dismisura l’affettazione dello zelo patriottico con il corollario di disprezzo per i tedeschi e per tutti coloro che non si associano a tale odio. Indifferenza reale e sovreccitazione verbale sono le due facce della stessa medaglia. Alla diffusa demenza bellicista corrisponde la follia del signor di Charlus che raggiunge il culmine nell’episodio del bordello. Ma Palamède, se ormai non pone più alcun freno alle pulsioni autodistruttive, esprime però idee tutto sommato piuttosto sagge sulla degradazione introdotta nell’opinione pubblica dall’eccesso di nazionalismo. I suoi paradossi provocatori corrispondono alle idee che Proust espose nel 1919 in una nobile lettera a Daniel Halévy, in cui deprecava l’adesione dell’amico a uno stupido manifesto sciovinista pubblicato nel «Figaro».19
Merita di essere sottolineata la struttura cronologicamente disorganica dell’alternanza tra i periodi trascorsi nelle case di cura e i ritorni a Parigi. I riferimenti alle vicende diplomatiche e militari consentono infatti di datare i vari episodi. Il soggiorno a Tansonville, in cui si parla della crisi balcanica, può essere collocato nel 1912; è invece del 1914 il primo periodo parigino, mentre è più difficile situare cronologicamente il secondo, nel cui racconto sono inclusi riferimenti a fatti verificatisi in un ampio arco di tempo, tra il 1916 e il 1918. Il terzo ritorno a Parigi, con l’ultimo incontro con uno Charlus ormai in piena decadenza e malato, e con la partecipazione del Narratore al ricevimento della principessa di Guermantes, si verifica parecchi anni dopo la fine della guerra. Il protagonista vi fa la conoscenza, come si è visto, della figlia di Robert, che è già un’appetitosa adolescente (ma Gilberte era incinta durante il soggiorno a Tansonville). Dal 1912 devono essere perciò trascorsi almeno sedici anni, e quindi la conclusione del romanzo potrebbe essere datata attorno al 1928. Ma non mancano le anticipazioni e le retromarce. Il racconto del secondo ritorno a Parigi inizia prima di quello del 1914, per poi interrompersi e proseguire più avanti. Ci viene anche detto che Mademoiselle de Saint-Loup farà più tardi un matrimonio d’amore, socialmente mediocre, che annullerà in un sol colpo gli sforzi compiuti dai suoi genitori e antenati per salire nella scala mondana. E con ciò si arriverebbe almeno agli anni Trenta.
Questa architettura temporale a zig-zag è basata su nessi soltanto logici ed è perciò intellettualistica. Corrisponde quindi in modo scarso al tradizionale cliché del proustismo, secondo cui il Tempo sarebbe per lo scrittore, diversamente da ciò che avveniva in tutti i narratori precedenti, un qualcosa di “organico”, interiore, ed estremamente “moderno”.
L’ultima parte del volume, in cui il Narratore si reca in visita dalla principessa di Guermantes, è formata da due grossi blocchi, paragonabili a due placche tettoniche che, scontrandosi tra loro, provocano qualche terremoto. Tra l’una e l’altra il rapporto è conflittuale. Cominciamo dalla prima.
Bisogna chiedersi: perché il ricordo improvviso di una perdita di equilibrio suscitata dalle irregolarità del pavimento nell’antico Battistero di San Marco a Venezia ha una capacità di sconfiggere il Tempo e la morte superiore a quella che hanno le altre memorie involontarie già incontrate? Per rispondere, occorre ricollegare questo episodio alla storia di Albertine e a quella della nonna nei confronti delle quali, come si legge in Albertine scomparsa, il Narratore si sentiva colpevole di un «doppio assassinio che solo la viltà del mondo poteva perdonar[gli]». Grazie all’oblio, il senso di colpa può sì subire una rimozione, ma i suoi effetti nevrotizzanti continuano ad agire. È questa la vera radice della crisi esistenziale e artistica del Narratore, non certo l’aver letto qualche pagina inedita di Edmond de Goncourt. Un duplice assassinio è una cosa seria. E in questo la teologia biblica e cristiana ci può in parte aiutare a capire Proust. La memoria involontaria che “resuscita” il Battistero di San Marco può essere decisiva perché ogni battistero è per eccellenza il luogo del perdono e della cancellazione del senso di colpa, e in quello veneziano il Narratore aveva perso l’equilibrio proprio mentre ammirava un mosaico raffigurante il Battesimo di Cristo. Nello stesso tempo le lastre ineguali o mal squadrate del selciato nel cortile parigino del palazzo Guermantes sono un’allusione alla «pietra scartata dai costruttori che è stata scelta come pietra angolare», di cui parlano il vecchio e nuovo Testamento.20 Fuori metafora, il senso è questo: non nonostante, ma proprio perché difettosi e pieni di imperfezioni e di “colpe”, il Narratore e lo scrittore potranno essere degli “eletti” e diventare grandi artisti. Inoltre, nella tradizione ebraica, la pietra è associata alla vittoria sul Tempo, anche per un motivo strettamente lessicale: pietra in ebraico si dice even, che può risultare composta da av e ben, cioè “padre” e “figlio”. La pietra è dunque metafora della trasmissione della memoria da una generazione alla seguente.21
A questo punto il lettore si sarà forse ricordato che, nel bell’episodio indicato da Proust come “intermittenze del cuore”, cioè all’inizio del secondo soggiorno a Balbec in Sodoma e Gomorra, grazie a una strana memoria involontaria il protagonista ritrova la presenza/assenza della nonna morta e dimenticata: «Sconvolgimento totale».
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